Mi bastava guardarlo, quando dormiva con le lenzuola bianche - quelle che ci aveva regalato mia madre - tirate fin sopra gli occhi. Si raggomitolava come un gatto, e i suoi riccioli neri gli disegnavano spirali d'ombra sul viso incavato. Era bellissimo, il mio angelo personale. Si era addormentato per orizzontale, e io ero accoccolata ai piedi del letto, con il taccuino sulle ginocchia e la penna stretta in mano, mi aveva sporcato d'inchiostro tutte le dita e sulle pagine lasciavo le mie impronte digitali marcate in nero. Era sempre così calmo, lui, sempre così tranquillo. Eravamo zingari, artisti nomadi, sognatori e scalatori di nuvole, ma questo non sembrava mai turbarlo, anche quando ci trovavamo a mangiare pane raffermo pur di andare avanti. Lui aveva i suoi raggi di sole, le sue matite, la sua arte. 

Io avevo le mie parole, la mia musica. Ci completavamo, eravamo musa e artista a tempi alterni, l'uno per l'altra. Non riuscivo a immaginare come avrei fatto se quel giorno non fosse entrato nel negozio e non avesse comprato la collana. La mia collana. 

Era ancora sul tappeto, appoggiata sulla velina viola ma aperta, adesso, potevo provarla quando volevo, non dovevo aver paura che arrivasse il caporeparto e mi guardasse con i suoi occhi azzurri e quell'ombra che diceva "Deplorevole, Patti" sulle labbra. Adesso era mia davvero, e io e Robert restavamo a fissarla per ore nella luce del tramonto. 

Si era mosso, attorcigliandosi ancora di più nel lenzuolo. Mi ha fatto sorridere, e ho posato la penna sul foglio. Dovevo scrivere qualcosa, lo sentivo che stava nascendo nel profondo del petto, proprio sotto lo sterno, ma non aveva ancora preso vita, non stava ancora trovando le parole. 

Sono rimasta a fissare la mia musa: il lenzuolo bianco si avvolgeva alla sua vita sottile e alle braccia magre ma con i muscoli scolpiti. Non sapevo ancora che si sarebbe chiuso in se stesso fino a diventarmi completamente estraneo. Non sapevo che avrei dovuto dividere il suo amore con altri ragazzi, non sapevo che mi avrebbe lasciata sola, allora. 

Sapevo solo di essere innamorata, e di non poter vivere senza sentire il suo respiro sul collo la notte o di vedere i suoi disegni aprendo gli occhi la mattina. Ricordo di aver sorriso, mentre il sole si preparava ad albeggiare e mentre lui mugolava qualcosa nel sonno. Chissà cosa stava sognando, chissà cosa stava pensando. Il disco si interruppe e la puntina tornò indietro, mentre le ultime note di Phantasmagoria in Two  suonavano ancora, almeno nella mia testa. Era ossessionato da Tim, Robert, si era fatto assumere al teatro soltanto per sperare di incontrarlo. Mi aveva dedicato Song to the Siren, e mi aveva chiamato "la sua Sirena", mentre restavamo abbracciati sotto le coperte a sentire i nostri cuori battere all'unisono. Mi sono alzata, mi sono sgranchita le gambe e mi sono avvicinata al letto. 

«Robert?» i suoi grandi occhi scuri si sono aperti, e mi ha guardato. Tra me e lui sentivo ancora quel velo leggero, come di nebbia e sogno, ma sapevo che appena si fosse alzato in piedi si sarebbe dissolto. 

«Patti»

Mi aveva stretto tra le braccia, e io avevo affondato la testa nel suo petto. Aveva ancora un odore di sonno, sotto all'odore di Robert - lavanda, rosmarino e briciole di biscotto. 

Eravamo rimasti abbracciati finché il disco non aveva ripreso a suonare e la puntina si era avventurata nei solchi di I Never Asked To Be Your Mountain.

«E tu? Tu sei la mia montagna, Patti?»

«Chiedilo agli angeli» avevo risposto, con un sorriso. 

Improvvisamente, sapevo con chiarezza cosa avrei scritto sul taccuino.