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Autore: Sorella_Erba    15/09/2011    5 recensioni
John decide, per il suo bene e per quello di Sherlock, di lasciare l'appartamento al 221B di Baker Street e trasferirsi in casa di Sarah.
Genere: Erotico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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E poi, d'un tratto, esplode.


Era successo dopo il primo incontro con Jim Moriarty.
Quell'esplosione sembrava aver cambiato radicalmente la loro vita, il loro rapporto – sì, perché l'esplosione c'era stata: la piscina pubblica era davvero saltata in aria, loro erano davvero saltati in aria e ancora si chiedeva come fossero riusciti a sopravvivere – forse l'acqua, sì, per via dell'acqua: John l'aveva afferrato con un impeto e una forza incredibili e si era lanciato nella vasca pochi secondi prima che l'edificio venisse inghiottito dalle fiamme e crollasse come un castello fatto di carte; ricordava i colori, vividi e brillanti sotto l'esigua distesa di acqua che non sarebbe bastata a salvarli, il respiro corto uscire dalle loro bocche a increspare l'azzurro scuro che li avvolgeva, pressante, in una scia grumosa di bolle; dei pezzi di cemento erano caduti e affondati a neanche un metro da dove si trovavano (forse doveva ricredersi sull'esistenza di una qualche entità superiore); ricordava ancora, e soprattutto, l'abbraccio spasmodico e la stretta delle mani di John attorno alle sue braccia, forse bruciante quanto il fuoco che si cibava dei resti dell'edificio.
Si erano salvati e non se ne capacitava ancora.
Non capiva come, non rammentava quando; sapeva solo che ne erano usciti salvi ma non del tutto sani. Lui stesso aveva riportato delle ustioni sulle braccia e una ferita non ancora risanatasi appena sopra l'ombelico. Era stato John a tamponargliela alla bell'e meglio e ad applicare una fasciatura rozza, improvvisata con ciò che restava della sua camicia, prima che arrivassero l'ambulanza e un corteo di poliziotti a circondarli. John che, non sapeva in che modo, era riuscito a prestargli soccorso persino con un braccio rotto – il sinistro, fra l'altro.
L'ospedale era stato la loro casa per quasi un mese. O, per meglio dire, la sua casa per circa un mese. John e il suo braccio ingessato avevano lasciato l'ospedale dopo la prima settimana; lui invece era stato costretto su un lettino scomodo, in una stanza asettica e così orribilmente vuota, per altre due settimane, sorbendosi visite poco gradite da parte di Molly, un paio di Lestrade e persino una capatina di suo fratello, che gli aveva portato delle gelatine alla frutta ben consapevole che lui non le avrebbe nemmeno sfiorate (e, a dispetto della sua presunta dieta, Mycroft ne aveva ingollate ben cinque). John era passato a salutarlo il giorno stesso della sua dimissione e solo una volta nell'ultima settimana di degenza. Ah, Mrs Hudson si era fatta viva i due lunedì: gli aveva portato una fetta consistente di quella sua splendida torta al tè. Ovviamente non aveva chiesto informazioni su John né sui suoi spostamenti, e Mrs Hudson aveva dato per scontato che il dottore gli facesse regolarmente visita tutti i giorni o quasi – lei e il suo strambo pallino per le coppie di fatto.
Poi Sherlock era stato dimesso, all'insaputa di tutti. C'era da precisare che la sua dimissione era stata grandemente influenzata dall'impossibilità degli infermieri di gestire la sua umile persona, a causa del continuo muso lungo e delle risposte acide e poco delicate sul quoziente intellettivo di metà reparto.
Quando aveva aperto la porta dell'appartamento al 221B di Baker Street, aveva trovato Sarah seduta sulla sua poltrona, col suo cuscino preferito dietro la schiena, a guardare il suo programma preferito mentre sorseggiava del tè caldo da una tazza fortunatamente non sua, o avrebbe dato di matto strappandole tazza e cuscino e spegnendo il televisore.
«Sherlock!» aveva esclamato John, evidentemente trattenuto in cucina dalla preparazione di un qualche tipo di biscotti (cookies, avrebbe detto dall'odore). L'espressione sul suo viso era un misto fra stupore, spavento e un piacere che, in un batter di ciglia, si era dissipato dallo sguardo caldo che lo aveva puntato. Per sua parte, lui aveva sollevato un sopracciglio articolando un saluto con tono apatico. Inutile dire che Sarah, sebbene l'insistenza di John fosse stata decisamente pesante e quasi convincente, a un'occhiata stanca e per nulla nascosta di Sherlock, si era dileguata in una manciata di secondi.
Era quel giorno che aveva intuito, mentre sgranocchiava davanti alla TV uno dei biscotti preparati da John, che qualcosa – non capiva esattamente cosa – si era incrinata, nel loro rapporto.

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«Sei stato fuori un bel po'.»
John si tolse il giubbotto con la faccia aggrottata di chi aveva appena notato qualcosa fuori posto, lo sistemò sull'appendiabiti vicino alla porta e rimase a scrutarlo per una breve manciata di secondi, prima di spostarsi dall'ingresso con passo affrettato.
Era uscito quella mattina silenziosamente, evitando il minimo rumore nella speranza di non farsi notare, senza lasciare sul tavolo un biglietto né nel frigo un piatto freddo per il pranzo. Si era dileguato per l'intera giornata ed era tornato solo ora, a sera già inoltrata e dopo l'ora di cena.
«Non credo di dover rendere conto a te di quel che faccio e del tempo che impiego facendolo.»
«No, certo che no» ribatté Sherlock, seguendo con gli occhi ogni suo movimento, prima di sospirare teatralmente e con stizza, tornando a scrivere al notebook.
John era diventato strano. Inavvicinabile, addirittura impossibile da trattenere. Sherlock avrebbe davvero voluto conoscere non tanto la ragione, bensì il luogo in cui, da una decina (e anche più) di giorni a quella parte, John trascorresse le sue giornate.
Oh.
Stupido, stupido, stupido.
Era ovvio, era così palese che il perché e il dove combaciassero alla perfezione.
«Come sta Sarah?»
«Bene, grazie» tagliò corto John.
Quel 'grazie' continuò ad aleggiare nell'aria con la stessa pesantezza con cui scavava nel petto di Sherlock; questi ne rimase stupito, ma non lo diede a vedere. Preferì portare il discorso da un'altra parte.
«Lestrade mi ha mandato un sms. È stato trovato un cadavere.»
«Mh, e tu sei ancora qui?»
«Ti stavo aspettando.»
Lo sbuffo ironico di John proveniva dalla cucina. Era di sicuro alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti. Quando tornò nel piccolo salotto, aveva infatti un pacchetto di cracker in mano e ne stava già masticando uno; l'espressione sul viso rotondo e marcato era scettica.
«Credi che sia stupido.»
Sherlock staccò gli occhi dal pc per puntarglieli dritto nei suoi; le sopracciglia arcuate gli conferivano un'aria innocente. Sembrava un folletto. «Per nulla, John. Sei forse la persona con un QI nella norma più acuta che conosca.»
John sghignazzò con gusto. «Non è stato ritrovato alcun corpo» affermò poi duramente, quasi volesse avvalorare quanto Sherlock aveva appena detto. Lo sguardo adesso era grave e per nulla caldo. «Hai una ferita non del tutto guarita e la polizia se la sta egregiamente cavando senza il tuo aiuto. Lestrade mi avrebbe avvertito prima che tu avessi potuto compiere una qualsiasi colossale stronzata, gettandoti nella mischia per rincorrere un morto di fame da quattro soldi.»
«Che parole taglienti, John.»
«Credi davvero di potermi prendere così sfacciatamente per il culo, Sherlock? Pensi sul serio che possa essere idiota a tal punto?»
Sherlock lo scrutò con occhi freddi e fermi.
«Sì» disse, e quel monosillabo schietto e feroce tolse di bocca le parole a John, che rimase a boccheggiare stupidamente per qualche istante. Fece una smorfia rigida, pizzicandosi le labbra sottili coi denti e le umettò velocemente con la lingua, annuendo d'improvviso. Sherlock lo guardava ancora da sopra le dita incrociate, interessato, quasi stesse assistendo a un evento particolare che richiedeva la massima attenzione.
«Sai, forse sono davvero un idiota» sbottò John.
«Tu dici?»
«Per quasi un anno mi sono fatto coinvolgere in cose decisamente più grandi di me, rischiando la mia vita.»
«Hai dimenticato di citare il tuo passato in Afghanistan. Quella sì che è stata una cosa decisamente più grande di te, tant'è che abbiamo visto com'è andata a finire.»
John sbiancò. Rimase ritto, immobile davanti alla poltrona vuota su cui solitamente prendeva posto per chiacchierare con Sherlock, teso come un tronco. Aveva la mascella evidentemente contratta; i cracker si erano ridotti a un mucchio di polvere dorata in un crepitio di plastica sottile, nel pacchetto che tremava impercettibilmente nella mano di John. Gli voleva tirare un pugno, un bel gancio destro dritto sulla sua faccia apatica, cinica, bastarda; magari voleva spaccargli le labbra bianche e morbide contro i denti, voleva vederle gonfiarsi, tingersi di sangue e scurirsi, diventando livide. Sherlock glielo leggeva negli occhi: voleva picchiarlo, pestarlo a sangue, ma John era dotato di un autocontrollo strabiliante. Serrò maggiormente la mascella e cominciò a passeggiare lentamente avanti e indietro, entrando e uscendo dalla cucina.
«Io non ti ho costretto, John. Hai scelto tu di seguirmi e di farmi da spalla; io ho soltanto chiesto. Tu hai scelto, non ho fatto io le decisioni per entrambi e, nel caso mi stia sfuggendo il ricordo di un qualche momento in cui ho agito nell'esatto contrario di quanto sto affermando, avresti potuto comportarti diversamente. Non te l'avrei impedito, non sono tua madre.»
«Sei un ingrato.»
«E tu uno sciocco. Pensa prima di aprir bocca, stai facendo la figura del perfetto imbecille.»
John si fermò mentre percorreva la distanza che l'avrebbe condotto in cucina e si girò di scatto. Aveva il viso contratto dalla rabbia, rosso, le sopracciglia tanto vicine da sembrare un rilievo chiaro sopra gli occhi lucenti. C'era del dolore, anche, nella miscela turbolenta che lo faceva ansimare e tremare.
«Stavo per dare la mia vita per te, Sherlock! La mia fottuta vita! E tu mi sbatti in faccia simili parole?»
«Hai cominciato tu. Non volevo arrivare a questo, mi ci stai costringendo.»
«Io? Stai scherzando? Adesso è tutto causa mia?» John scosse la testa sorridendo ironicamente in direzione del soffitto. «Certo, naturale. Qui il folle, psicopatico e malato di turno sono io. Sono io che non vedo l'ora di fiondarmi in un crimine astruso mettendo a repentaglio la mia vita e quella di chi mi sta attorno. Sono io che non apprezzo gli sforzi degli altri, che tentano di capirmi e di starmi accanto. Sono io l'ingrato che non prova un accidente nei confronti di chi mi--» S'interruppe e a Sherlock parve che stesse deglutendo a forza un boccone troppo grosso. «Sono io, giusto, Sherlock?»
Non gli diede alcuna risposta e John neanche la stava aspettando. Il notebook era rimasto in equilibrio perfetto sulle sue gambe ferme. Sherlock non sembrava nemmeno minimamente sconvolto o adirato. Era semplicemente incuriosito; lo fissava come se con gli occhi volesse trapanargli una tempia per entrargli nella testa e leggere il motivo di tanta rabbia. Era certo che John si fosse trattenuto per tutto quel tempo: aveva tentato di soffocare il turbamento nella forte speranza di digerirlo, di dimenticarlo o almeno di etichettarlo come una sciocchezza insignificante. E Sherlock non voleva. Era necessario che scoprisse quello che stava succedendo, che lo analizzasse e lo scomponesse, perché il loro rapporto stava letteralmente andando a puttane e non voleva. Si chiese se la ragione di tutto fossero davvero i rischi cui lo esponeva – ma era John, per l'amor del cielo, John Watson, e con lui più il rischio era maggiore, più era certa la sua presenza. Non poteva essere quello il motivo, non--
«Sarah e io stiamo ufficialmente insieme.»
Sherlock non riuscì a reprimere lo stupore. Spalancò gli occhi e tornò a guardarlo, ma John fissava insistentemente il pavimento.
«Ci siamo fidanzati tre giorni dopo che mi hanno dimesso dall'ospedale. Ieri mi ha proposto di andare a vivere da lei e credo che sia una fantastica idea.»
«È una magnifica idea.»
«Ho bisogno di cambiare aria, di avere più serenità.»
«Non c'è bisogno di fornire spiegazioni.»
«Non lo sto facendo.»
«È un'ottima idea.»
«Sì. Lo è. Questo finesettimana impaccherò la mia roba.» John esitò un momento. «Pensi di riuscire a pagare l'affitto da solo?»
«Mi è rimasto ancora qualcosa degli ultimi casi che abbiamo risolto e Mrs Hudson sarà clemente almeno fino a quando non sarò totalmente guarito.»
«Bene. Perfetto.»
John si leccò nervosamente le labbra e deglutì. Sherlock posò gli occhi sullo schermo del notebook.
«Con una menzogna ti ho spinto a dirmi la verità. Divertente, vero, John?»
John sbuffò dal naso. «Tu già sapevi. Hai visto l'anello sul suo anulare sinistro, la sera in cui sei tornato.»
Affermazione esatta.
Lo aveva visto brillare alla luce del televisore prima ancora di notare il cuscino sotto alla schiena di Sarah, la poltrona sulla quale stava seduta e la tazza di tè fumante fra le sue mani affusolate. Un brillante piccolissimo, quasi microscopico. Tutto quello che John poteva permettersi – John aveva speso i suoi risparmi per quell'anello, per quell'avventatezza, per stare con Sarah – John li usava per fare la spesa, per comprare il latte, alle volte anche per un biglietto della lotteria, quando si sentiva in vena di tentare la fortuna; li usava per loro – per John e Sherlock, non per John e Sarah.
«L'hai conquistata con una miseria» affermò malignamente, mentre batteva alla tastiera.
Dal silenzio che proveniva dal punto in cui stava John, avrebbe detto che si era fermato per guardarlo con astio.
«Vaffanculo, Sherlock.»
Gli diede le spalle e stava per uscire dalla stanza, quando Sherlock attirò la sua attenzione sussurrando il suo nome.
«Dimmi.»
«Vorrei che fossi tu a controllare la mia ferita finché non sarà guarita. Non mi piacciono gli ospedali e non mi fido di altri medici. Te lo chiedo come cortesia, come – se vuoi chiamarlo così – ultimo favore per un amico.»
Finì di parlare senza nemmeno staccare lo sguardo dal computer. Negli occhi asciutti, grandi, brillava la fioca luce dello schermo. John restò un momento a osservargli il volto, soppesando le sue parole.
«Certo» disse infine. «Non c'è problema.» Poi uscì dal salotto e salì le scale per andare in camera.
Alla fine, anche il dottor Watson si era stancato di lui.

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N/A.
Prima parte di una shot che ho preferito dividere in due (l'altra parte dovrei ancora concluderla xD). È, come ovviamente avrete notato, una post prima stagione e siccome mi piace farmi del male scrivendo robetta angst, ho deciso di lanciarmi in questo piccolo progetto nel bel mezzo della mia sessione d'esami (e poi diamo dell'idiota a John; almeno lui s'è laureato). In questi giorni dovrebbe arrivare la seconda e ultima parte, magari anche domani, visto che se mi fisso con una cosa, è meglio togliermela subito di torno o non concluderò nulla xD
Il titolo è preso da "Oceano mare" di A. Baricco. 
   
 
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