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Autore: Ciribiricoccola    15/09/2011    0 recensioni
27/07/1977.
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Is this the end or just begin?



Rispose al telefono con la voce impastata dal sonno e dall’alcol. E con il maggior autocontrollo possibile, perché odiava essere svegliata da quegli squilli tanto acuti.

“Pronto…”
Attese una riposta al di là della cornetta, ma ricevette solo silenzio, così iniziò velocemente ad innervosirsi.
“Pronto. Chi è.” Lo disse in tono secco e deciso, scacciando via il torpore mentre piegava un gomito per tirarsi su.
Stavolta sentì una specie di singhiozzo sussurrato, quasi come se la persona dall’altro capo del filo non trovasse il coraggio di parlare.
Le venne il dubbio che potesse essere qualche povero cretino in cerca di rogne che in chissà quale modo aveva ottenuto il numero della tua stanza.
“Se scopro chi sei vengo lì e-“
“Lo. Sono io.”
Si gelò, spaventata.
Non lo aveva riconosciuto.
Stentava a credere che fosse lui.
Quasi senza pensare, balbettò: “S-scusami, Percy, non riuscivo a sentirti! Hai bisogno di qualcosa?”
Per due secondi interminabili le rispose ancora una volta in silenzio, poi al suo orecchio arrivò quella che forse voleva essere una risatina nervosa, ma che invece sembrava un rantolo amareggiato.
Strinse la cornetta più forte e fece per chiamare il suo nome, quello vero, ma lui l’anticipò.

“E’ morto mio figlio.”

Spontaneamente, si portò una mano alla bocca semiaperta e spalancò gli occhi arrossati dalla sonnolenza; cominciò a tremare subito dopo, dalla punta del naso fino alle dita dei piedi, come se le avessero tirato una secchiata d’acqua gelida.
Ebbe la prontezza di trattenere le solite banalità, come “Che cosa?”, “Non è possibile!”, “Dici davvero?”, “Andrà tutto bene”.

“Aspetta. Sto arrivando.”

Riattaccò, il telefono sembrava scottare.
Poi si vestì in fretta e furia, si schiaffò due o tre manate d’acqua fresca in viso e si precipitò fuori dalla propria stanza; alcune ciocche bagnate le ricadevano sul viso, infastidendola terribilmente, ma senza fermarla.

Nella suite trovò John, probabilmente il primo ad aver saputo della tragedia; al suo arrivo, le aprì la porta e la fissò preoccupato borbottando confusamente: “Merda, questa è grossa, questa è davvero grossa…”
“Dov’è? Non sarà uscito?” gli domandò immediatamente Loraine, col fiatone per aver corso su per le scale: si stava guardando intorno, ma non riusciva a vederlo.
Il ragazzo le indicò la camera da letto oltre il piccolo corridoio alle loro spalle e disse a bassa voce: “Non si muove, Lo, sembra-“
“Provo a parlarci. Aspetta qui, cerca di stare tranquillo…”
Lo fece sedere con gentilezza sul divano e gli fece segno di aspettare, così che potesse rimanere sola con lui.
Attraversò l’ingresso alla stanza con i piedi che sembravano fatti di piombo e dopo pochi passi intravide gradualmente tutto l’ambiente…
Il pavimento disseminato di ogni sorta di oggetto e macchia, come al solito.
Il letto sfatto, normale amministrazione.
Lui steso tra le lenzuola, vestito, spettinato, la cornetta del telefono ancora tra le dita, lo sguardo perso nel soffitto macchiato di brandy.
Aveva lo sguardo così vitreo che per un attimo le venne da ripensare a Bonzo, alla sua faccia spaventata, alle sue parole esagerate che non gli aveva lasciato pronunciare – “Sembra morto” - , e rabbrividì dentro di sé, cercando all’esterno di apparire calma e premurosa come sempre.
Si avvicinò cauta facendo il giro del letto e, una volta al suo fianco, si chinò per rimettere la cornetta al suo posto.
Doveva toccarlo, assolutamente. Doveva riportarlo nel mondo dei vivi in qualche modo.
“Robert…” gli strinse le dita con la mano libera e si lasciò sfuggire istintivamente in un sussurro: “Ci sono io…”

Fanculo lei, fanculo tutti quanti, fanculo l’universo intero. Lui voleva solo il suo bambino.

Sentendosi immediatamente in colpa, si morse il labbro inferiore e sentì un nodo stringerle la gola; ebbe seriamente paura quando l’altro si voltò a guardarla, totalmente inespressivo, fatta eccezione per gli occhi: le ricordarono quelli di Jimmy dopo l’eroina, anche se quelli di Robert erano più grandi e chiari… lucenti, con le pupille ridotte a capocchie di spillo, vuoti nel loro colore annebbiato.
Sentì le sue falangi affusolate e ingioiellate stringere le sue e trattenne il respiro, ansiosa di sentirlo dire qualcosa, qualsiasi cosa.
Sbatté lentamente le palpebre, riacquistando una parvenza di vigore nel volto, e gemette con quella sua voce singolare: “Lo. Mio figlio è morto.”
Sentirglielo dire la prima volta l’aveva scioccata; ma in quel momento, senza che neanche lei se lo aspettasse, il suo autocontrollo si disintegrò in un istante e le lacrime cominciarono a sgorgare senza alcun ritegno, neanche quel povero piccino fosse stato suo.
Robert la seguì a ruota, ma mentre il pianto di Loraine era incredulo e affranto, il suo risultò quasi stoico: lasciava scendere le lacrime in lunghe linee irregolari lungo le guance, la bocca tremava senza aprirsi in nessun singhiozzo liberatorio, e la sua mano aveva iniziato a stringere con forza dolorosa quella della sua amica, mentre tutto il corpo si contorceva in scatti piccoli e furiosi, facendo risuonare in modo sordo e sinistro il materasso sotto i suoi pugni e calci.

Solitamente, aveva un unico metodo veramente efficace per tranquillizzarlo: lo faceva sedere o inginocchiare, poi si appostava dietro la sua schiena e semplicemente gliela circondava con un braccio, mentre una mano finiva sulla sua fronte, generalmente sudaticcia e sovrastata dai boccoli spettinati nei momenti di nervosismo o di ansia; lo stringeva forte in quel suo abbraccio che quasi sembrava una mossa da arti marziali, e gli diceva che tutto era sotto controllo, non c’era bisogno di agitarsi per niente, i problemi al mondo erano ben altri e lui era abbastanza intelligente da capirlo da solo, la paura era una buona cosa, ma non doveva trasformarsi in panico, perché altrimenti lo avrebbe ridotto ad uno schiavo, cosa inammissibile per lui, il Dio Dorato, quello in cima al mondo, quello con grandi responsabilità, ma anche quello che non sarebbe mai stato lasciato solo, sicuramente non da lei, né dai suoi migliori amici…
Ogni volta si stupiva delle sue fragilità, del suo essere tanto gigantesco quanto indifeso, le sembrava di essere una madre con il figlioletto impaurito dal primo giorno di scuola o dal buio della sua cameretta. Ma quando sentiva la sua larga schiena smettere di tremare contro il petto, allora sapeva di poter tornare a pensare a lui come a Percy, l’altissimo ed irraggiungibile spaccone che sapeva farsi voler bene nonostante tutto.

Lo abbracciò con fare protettivo anche quella mattina. Un braccio intorno al suo busto ricurvo e una mano sulla fronte; lo raddrizzò delicatamente, come se stesse sostenendo un paraplegico, e senza dire una sola parola se lo appoggiò contro il seno, adagiando a sua volta il mento sulla sua nuca. Continuarono entrambi a piangere ininterrottamente e in assoluto silenzio, come inebetiti. Fu lui a rompere il silenzio per primo dopo chissà quanto tempo.
“Ieri il dottore mi ha chiamato dicendomi che stava male. E stamani ha richiamato Maureen per dirmi che era morto. Prima stava male e poi… è morto.”
Loraine tirò su con il naso e ricacciò un gola un singhiozzo per poi domandare tremante: “Quanti…. Quanti anni aveva?”
L’altro rispose con un principio di risata isterica: “Cinque! Aveva cinque anni, il mio piccolo Austin!”

Sapeva del soprannome di Karac, glielo aveva sentito canticchiare al telefono una volta, probabilmente stava parlando proprio con lui, Baby Austin, il bimbo senza paura, sprezzante del pericolo nella sua allegra ingenuità.
Non lo aveva mai visto, se non in qualche foto sfocata su qualche rivista, ma all’improvviso lo vide chiaramente nella sua testa: biondo, tanti riccioli, occhi piccoli e svegli, tutto suo padre, ma in miniatura. Le sembrò il bambino più bello del mondo e questo la fece piangere ancora di più, malgrado stesse tentando di darsi un freno.
Morto a cinque anni.

“E Maureen?” s’informò ancora, stavolta non riuscendo a trattenere quel singhiozzo ormai diventato indomabile.
Robert scosse piano la testa e rispose con un sospiro stanco: “Lei è a pezzi, lei è… stava piangendo, non lo so, ma io non ero con lei… Non c’ero tre giorni fa, non c’ero prima…”
In risposta al suo tono confuso, ribatté decisa, seppur dolorante: “Non parlare così! non pensarlo neppure! Non darti colpe che non esistono, è stata una disgrazia!”
Un po’ per egoismo, un po’ per tentare di proteggerlo, lo strinse più forte, sentendolo divincolarsi debolmente mentre replicava, sempre più abbattuto: “Io non gli ho mai detto quant’ero felice il giorno in cui è nato, lui è morto senza saperlo, è morto e io non ero accanto a lui come quel giorno, Loraine, io non c’ero, non c’ero, non ci sono mai stato, n-“
Lo lasciò andare con uno scatto, spingendolo in avanti, e per poco non lo fece cadere dal letto; dopodiché lo affiancò e lo afferrò per la mandibola con la stessa mano che poco prima gli aveva retto la fronte in modo materno.
“Piantala. Maledizione, piantala” gli intimò a denti stretti, il viso contratto in una smorfia di dolore represso a fatica “Sei già in fondo, Robert, cazzo. Non scavare. Non ce n’è bisogno. Sei in fondo. Basta così.”
Robert replicò rabbiosamente alzando la voce: “Era mio figlio e io non sono stato capace di prendermene cura!”
“Chi lo dice?! CHI LO DICE?!” urlò di rimando la ragazza, noncurante dell’atmosfera sempre più tesa e bellicosa “Te l’ha detto lui?! Ti ha preso da parte e ti ha detto Papà, fai schifo, non ti voglio più bene, eh?! Ti ha detto questo, Robert?!”
Non avrebbe voluto essere tanto melodrammatica, anzi, avrebbe preferito avere più tatto, ma ormai le era scappata quell’uscita e ne stava osservando gli effetti: Robert aveva lasciato da parte la rabbia per un attimo, stava per scoppiare di nuovo a piangere, stavolta più forte, ne era certa.
Cercò di soffocarlo nelle parole, sperando di non dargli la possibilità di pensare.
“Karac ti voleva bene! Lo sai che te ne voleva, lo sanno tutti, perché ti abbiamo sentito al telefono con lui, abbiamo visto le fotografie, quello non era un bambino che odiava suo padre, Robert, lui ti adorava!”
Lasciandogli andare la mascella, gli diede modo di ribattere, confuso e straziato: “Ma l’ultima volta che l’ho abbracciato, Cristo, quasi non me la ricordo…”
“Sì invece” lo esortò lei, prendendogli entrambi le mani “Te lo ricordi perché sei il suo papà, e perché hai il dovere di conservare tutti i momenti più belli che hai passato con lui. Non puoi pensare a cosa avresti potuto fare e non hai fatto, a quando non sei stato presente, a tutti i secondi in cui non gli sei stato accanto!”
L’altro parve quasi risvegliarsi – almeno in parte – da un brutto incubo: una scintilla gli aveva attraversato gli occhi, rendendoli di colpo meno spenti e rassegnati.
“… M-mi manca tanto, Lo” balbettò, portandosi una mano tremante tra i capelli mentre con lo sguardo girovagava per la stanza “Saranno passate neanche due ore dalla sua morte e mi manca da impazzire… Cosa può succedere se vado avanti così?”
Loraine si asciugò le lacrime, tirò un’ultima volta su con il naso e gli parlò dolcemente, lasciandolo vagare con gli occhi alla ricerca del fantasma di suo figlio: “Devi lasciare che il dolore ti attraversi, senza fare resistenza. Ti ripulirà, credimi. Dopo ti rimarranno solo le cose più belle…”
Robert abbozzò un sorriso triste: “La cosa più bella però era lui…”
La ragazza rispose con una smorfia piena di compassione e gli accarezzò un braccio con gli occhi abbassati sul lenzuolo: “Quando partirai per… il funerale e il resto?”
“Bonzo” rispose subito lui, quasi come se avesse avuto paura che qualcun altro lo anticipasse “Mi accompagnerà Bonzo. Partiamo subito, il tempo di… alzarmi da qui…”
Loraine annuì ed alzò lo sguardo: le sembrò sempre più cosciente, consapevole, e se ne rincuorò, per quanto vederlo in quello stato le facesse venire voglia di piangere fino al giorno successivo.
“Vieni anche tu?” le propose timidamente, intimorito da quella che, lo sapeva, sarebbe stata la sua risposta.
“No, Robert, no” disse lei infatti, in tono comprensivo “E’ un momento tutto vostro. Tu, Maureen e Carmen. E poi ci sarà John con te, non devi aver paura… ok?”
Lo vide scuotere il capo, scoraggiato. “Non ho… paura…” mormorò, quasi assorto “E’ che…”
Tornò a stringere la mano della ragazza, una stretta brusca e disperata, contrastante con la sua espressione anestetizzata dal dolore.
“Non ci dovrebbe essere nessun funerale  per nessun bambino…” sputò infine, chiudendo gli occhi in un battito di palpebre stanco.
Loraine asserì tristemente: “Sono d’accordo, caro. Sono davvero d’accordo…”
In quel momento fece capolino John, raramente tanto discreto come in quelle circostanze: bussò lievemente sulla porta aperta ed entrò dopo che lei aveva alzato lo sguardo per notare la sua presenza; goffo ma volenteroso, si sedette accanto a Robert e nel suo brontolio inconfondibile gli disse, appoggiando una mano sul suo ginocchio: “Ti accompagno io, amico. Ci andremo insieme e… faremo questa cosa. Non sarai solo. Ti starò accanto, lo sai. Capito?”
L’altro, visibilmente commosso, si distrasse per qualche momento dai pensieri tetri del proprio lutto e sorrise all’amico.
“Va bene, Bonzo. Grazie. Partiamo adesso, per favore.”



Richard le passò davanti all’entrata del crematorio; il suo passo era così spedito che per poco non la ignorò.
“Eccoti!” esclamò vedendola “Sono tutti dentro, cioè, nel prato…”
Con un mazzolino di fiori comprati apposta per Karac, Loraine ribatté: “Com’è andata, Rich?”
L’uomo scosse la testa con un’espressione scossa, nascosta a fatica persino dietro ai suoi occhiali da sole: “Tremendo, bella, tremendo. C’era tutta questa gente intorno a lui e… io l’ho intravisto solo per un attimo, poco prima che lo portassero via. Non voglio mai più vedere una cosa simile, mai più…”
Deglutendo a fatica, la ragazza s’informò: “E… Robert e Maureen?”
“Lei era distrutta, figurati, a fatica si alzava dalla sedia!... E Robert… potrei dire lo stesso, ma… Bonzo è stato bravo, gli ha fatto da spalla e… credo abbia reagito piuttosto bene, alla fine!”
Lei annuì e si lasciò guidare da Richard verso il grande cortile del crematorio, luminoso e deserto alle sei di sera.
“Dove sono tutti adesso?”
“A casa” le spiegò lui “Il ricevimento, gli ospiti, e poi Maureen voleva stare un po’ con la bambina. Io, Percy e Bonzo siamo rimasti qui…”
“Per fortuna” aggiunse l’altra “Non volevo farmi vedere a casa loro…”
“Perché, che hai fatto?”
“Niente, ma non volevo disturbarli… e poi Maureen avrebbe dato di matto, ti pare?”
Richard dovette ammettere che Loraine aveva ragione: da anni ormai la moglie di Robert si lasciava alle spalle i tradimenti del consorte, e con meno fatica di quanto ci si aspettasse, poiché lei non sapeva mai davvero tutto. Ma sapeva abbastanza da vedere in ogni donna vicina a suo marito una potenziale nemica, e Loraine non voleva procurare guai né a se stessa, né a lei, tantomeno nel giorno del funerale di Karac.

All’ombra di un grande albero, Bonzo e Robert se ne stavano sdraiati a fissare il ricamo confusionario e mai uguale delle foglie intrecciate nella chioma verde e luccicante sopra le loro teste; Richard sedette accanto a Bonzo, che salutò Loraine con un cenno della testa; la ragazza si accomodò accanto a Robert, che pur non sapendo niente del suo arrivo improvviso, si limitò a sorridere stancamente per poi dire: “Adesso va… un po’ meno peggio”.
Lei gli accarezzò amorevolmente una guancia e gli sfiorò i riccioli, sollevando poi il mazzo di fiori: “L’ho preso per il bambino. Pensi che dopo potrei…?”
“Certo” concordò serenamente il papà di Karac “Gli piaceranno sicuramente…”
Soddisfatta e commossa, la ragazza annuì e rimase in silenzio insieme agli altri.

Il piccolo Karac – ne era più che convinta – stava giocando a nascondino con tutti loro dietro al tronco di quell’albero.
Era quella brezza tiepida di fine pomeriggio estivo, era il sole che attraverso le fronde degli alberi illuminava i loro corpi come fossero tanti pezzi di molteplici puzzle, era l’erba morbida su cui si lasciavano cullare dallo scorrere lento del tempo.
Le piaceva pensarla così, voleva fermamente crederci, e sperò che anche Robert avesse la stessa opinione.

“Comunque” esordì Bonzo rivolto a Robert, rompendo il silenzio con la sua voce bassa e tonante per natura “Jason e Zoe ti abbracciano. Gliel’ho spiegato cos’è successo e anche se Zoe è piccola… credo abbia capito…”
L’amico rispose con una risata sincera e commentò: “Ricambiali. Che carini…”
“Vedrai che starai meglio, Percy” lo incoraggiò Richard, acendendosi una sigaretta con cipiglio da gangster “Tuo figlio vorrebbe la tua felicità, giusto?”
“Suppongo di sì…”
“E allora fallo per lui, bello, non mollare. Ok? Non lasciarti andare. Prenditi del tempo, fai passare tutto il male e… sii felice. Ok?”
“Ok… ci proverò…”
“E non ti scordare che hai ancora tua moglie, quella santa di tua moglie, e una splendida bambina. E poi potranno sempre arrivare altri figli, eventualmente…”
“Richard!” lo ammonì severamente Loraine, sentendosi offesa come se avesse parlato con lei.
L’altro si difese alzando le braccia al cielo e Robert lo giustificò: “Sta solo provando a consolarmi a modo suo, Lo, non prendertela…”
La ragazza lo fissò perplessa per un attimo, poi sospirò e tornò a guardare davanti a sé, meditabonda…
Una parte di lei, minuscola ma insistente, si augurò che Richard potesse avere ragione.

Al tramonto, tutti si alzarono fiaccamente in piedi, decidendo di farsi finalmente vivi al ricevimento, sempre che non fosse già finito; Loraine si allontanò di qualche metro per chiamare un taxi da una cabina, voleva tornare in albergo per fare i bagagli e tornare a casa, in Texas: senz’altro, i Led Zeppelin si sarebbero obbligatoriamente presi una pausa; lei sarebbe tornata appena Richard l’avrebbe chiamata.
Incrociò i due amici di Robert fuori dal crematorio, poi lo scorse, ancora nel prato, in piedi, con le mani in tasca.
Si guardava intorno con l’aria di chi vuole controllare che tutto sia come deve essere.
Quando si accorse dello sguardo della ragazza, lo ricambiò e sorrise.
“E’ che… adesso è immenso. È dappertutto” si giustificò, vagamente disorientato, andandole incontro.
Loraine lo prese gentilmente sottobraccio e camminò al suo fianco al di là del cancello.
“Come ti senti?”
L’altro ridacchiò piano: “Come se fossi tra… la fine di qualcosa… e l’inizio di qualcos’altro…”.



***

Tutte le informazioni su luoghi, tempi e circostanze riguardanti la morte di Karac Pendragon Plant (affettuosamente detto Baby Austin; 1972-1977) sono state liberamente tratte dal volume di Stephen Davis "Il martello degli dèi" (1985) e da Internet; ogni riferimento a persone reali ed esistite è stato effettuato senza alcuno scopo di lucro.

Loraine è un personaggio fittizio, mentre Richard rappresenta il road manager dei Led Zeppelin, l'onnipresente Richard Cole.
Ancora non so quanto credito si possa dare allo scritto di Stephen Davis, in tutta franchezza sono convinta che molte righe non siano veritiere, ma voglio sperare che almeno sulla morte di questo bambino sia stato onesto.

Il titolo della one-shot è tratto dalla canzone "All my love" - Led Zeppelin, dall'album "In through the outdoor", 1979. Il pezzo è dedicato a Karac. Nessuno scopo di lucro neanche in questo caso.



   
 
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