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Autore: madychan    16/09/2011    3 recensioni
Anni passati a far violenza su sé stessi, pur di non accettare la propria omosessualità; e poi la decisione di prendere e dire “va bene, sono così” e di dirlo ai propri genitori.
Marco si ritrova per strada, per questo; quattro giorni passati a Milano, a dormire nei vicoli, perché i suoi genitori non hanno preso bene il suo coming out e suo padre ha deciso, dopo mesi di discussioni, di cacciarlo di casa.
Ed è a Milano, che Marco incontra Erica – conosciuta perché entrambi si erano avvicinati al banchetto dell’associazione LGBT e LGBT-friendly dell’università, all’inizio dell’anno.
Basta poco, perché Erica capisca e lo inviti a casa propria, in attesa di risolvere la situazione.
E lì Marco conosce meglio Erica, la coinquilina Giada (che ha una passione spassionata per i gay ma non stravede per le lesbiche), e Adele, la “quasi ragazza” di Erica.
[Le recensioni sono più che ben accette, soprattutto per farmi capire cosa vi ho trasmesso, cosa ne pensate e cosa ritenete giusto/sbagliato :)]
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash, Shonen-ai, Shoujo-ai, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Born to love you Disclaimer: le persone e i fatti presenti in questa storia sono di pura fantasia, ma comunque verosimili. Le associazioni e i luoghi nominati sono realmente esistenti per dare verosimilità alla storia.
ps: il Pride nominato alla fine di questa storia è il realmente avvenuto Pride GLBTQ (Gay, Lesbian, Bisexual, Transexual, Queer; altresì noto semplicemente come "Gay Pride") del 25 giugno 2011, a Milano, partito da Corso Buenos Aires e terminato in Piazzale Cairoli, poco distante dal Castello Sforzesco.

AVVERTENZE PER L'USO: Questa storia ha come comparse un paio di coppie eterosessuali. Qualora la cosa rischiasse di turbarvi (nel profondo e non) siete pregati di lasciare la pagina ed evitare di lasciare commenti che potrebbero risultare offensivi.
Oppure, se volete, leggete e ricredetevi (che è meglio).
Grazie per l'attenzione, e buona lettura :)
madychan





~ Born to love you ~






Marco si strinse nelle spalle, rannicchiandosi nel giubbotto nel tentativo di ottenere un po' di caldo.
Solo in quel momento Milano gli apparve per quello che realmente era: grande, piena zeppa di gente, e di certo non la città migliore per cercare una casa in cui abitare nel giro di pochi giorni e con pochi soldi in tasca.
Estrasse il cellulare, tentato di comporre il numero di telefono di sua madre e chiederle se poteva tornare a casa, se si poteva risolvere la questione in qualche modo; se lei avrebbe potuto intercedere per lui presso suo padre, e chiedergli di chiudere la questione, e dirgli che non c’era niente di male ad avere un figlio gay, e che cacciare di casa un figlio – l’unico figlio, tra l’altro – solo perché omosessuale era qualcosa che facevano al massimo all’inizio del Novecento, e non nel ventunesimo secolo.
Sospirò, e si limitò invece a guardare l’orario: sette e mezzo di sera.
Sua madre non l’aveva chiamato in tutti quei giorni in cui era stato fuori casa e aveva dormito una volta sotto i portici, una volta in un parco in cui si era dovuto nascondere dai drogati che circolavano, e una volta in un vicolo; a rigor di logica, non l’avrebbe chiamato nemmeno quella sera. E neanche suo padre l’avrebbe fatto. Da quando aveva fatto quel maledetto coming out, sei mesi prima, nessuno dei due genitori lo guardava più con gli occhi con cui lo aveva guardato il giorno, il minuto, e a dirla tutta, anche il secondo precedente.
Sua madre si era chiesta perché non l’avesse capito prima; aveva negato, aveva detto che una madre certe cose le capiva subito, da certi atteggiamenti, da certi modi di fare; e chi era Marco, per dirle che sia lei, che suo padre, erano sempre stati troppo impegnati col lavoro, per non accorgersi delle tendenze che erano andate sempre più evidenziandosi nell’adolescenza – età che lui aveva passato per la maggior parte del tempo in casa da solo fino a quando i suoi non tornavano per cena e poi andavano a letto, o in compagnia di amici il sabato sera –?
Marco non si era sentito di farglielo notare; ma ciò non toglieva che non era un mistero per nessuno, il perché sua madre non se ne fosse accorta. E lo stesso valeva per suo padre che, contemporaneamente, aveva negato, aveva detto che un figlio frocio non lo poteva avere perché nessuno nella famiglia era così, e aveva concluso che lui era semplicemente confuso.
Confuso. Sì, lo era stato, quando era entrato nell’adolescenza e in qualche modo aveva capito che le curve delle ragazze, i seni, i capelli e le scollature non lo attiravano più di tanto. Si era chiesto perché – ma alla fine non ne aveva fatto un dramma; era impegnato con lo studio, con lo sport, e si diceva sempre che prima o poi una ragazza l’avrebbe trovata. Qualcuna di cui innamorarsi davvero. Qualcuna che gli avrebbe fatto battere il cuore. E, insomma, tutte quelle cavolate sull’amore che si dicono ai bambini.
E poi era arrivato Federico, nella squadra di pallacanestro. Federico, coi capelli biondi e un fisico dietro cui qualunque ragazza etero avrebbe sbavato. E lui l’aveva fatto. Si era incantato, a guardare quel fisico; aveva sognato più di una volta di toccarlo, di farci sesso, di godere per mano sua.
Il fatto che Federico fosse etero e fidanzato con una ragazza non aveva fatto che peggiorare la situazione; Marco aveva scosso la testa a sé stesso per due anni, cercando di farsi passare quella fissa, cercando di pensare che se si svegliava eccitato non era perché aveva sognato di fare sesso con Federico, ma perché doveva esserci qualche sogno di cui lui non si ricordava; aveva detto che Federico era, e doveva rimanere, un amico. Un semplicissimo amico.
Eppure, gli piaceva guardarlo. Gli piaceva guardare il suo fisico, davanti e dietro. Immaginare di toccarlo e di sentirselo addosso gli faceva andare in tilt il cervello.
Alla fine, Federico era rimasto, effettivamente, un amico; Marco aveva incontrato un altro ragazzo, una sera in cui aveva preso il coraggio a quattro mani ed era andato per la prima volta in una discoteca gay. Erano finiti a casa sua senza che Marco nemmeno si rendesse bene conto di quello che stava succedendo: troppo alcol? Troppa eccitazione? Troppi ragazzi? Troppi ormoni? Non lo sapeva.
Ma gli era piaciuto. Al punto che gli aveva chiesto il numero di telefono perché voleva riprovarci. E ci aveva effettivamente riprovato.
Ci era caduto di nuovo. E di nuovo. E di nuovo. Per un numero non meglio definito di volte, probabilmente.
Al contempo, per lui l’idea di essere gay si faceva sempre più consistente, e con essa anche la paura: era cresciuto e viveva in un paese in cui i gay erano trattati come appestati da evitare. Appena si nominava la parola “gay” si scatenavano polemiche sul fatto che fosse qualcosa di innaturale; che due uomini che scopavano tra di loro facessero abbastanza ribrezzo; qualcuno – e non solo esterni alla sua famiglia, ma anche proprio tra i suoi parenti – aveva tirato in ballo storie come quella di Sodoma, e la Bibbia, e il Levitico, e Dante, e punizioni divine varie.
Marco si rendeva conto che se era gay, doveva prendere un buon momento, per dirlo ai suoi senza che si scandalizzassero troppo; doveva trattenersi dal dirlo durante i litigi, o scoppiare durante qualche polemica contro l’omosessualità che ogni tanto saltava fuori; doveva nascondere fino al momento opportuno ai suoi che non aveva trovato la ragazza della sua vita, ma che un ragazzo che gli piaceva e con cui si incontrava – all’inizio solo per fare sesso; ma ultimamente aveva preso anche ad uscirci nel vero senso della parola – c’era, e abitava a pochi chilometri di distanza da loro. Che la persona di cui si stava innamorando non si chiamava Gabriella, ma Gabriele, e che era un ragazzo fatto e finito – e che gli piaceva proprio perché era un ragazzo e non una ragazza.
Marco se l’era tenuto dentro. Se l’era tenuto dentro per otto mesi; poi, durante una cena, aveva deciso di sputare il rospo e di fare coming out.
Il risultato era stato un’escalation di dubbi da parte dei suoi genitori; uno psicologo che lo facesse ricredere su quello che era – e che invece si limitò a fare spallucce e a dirgli che se era gay poco c’era di male, e a farlo parlare per sfogare la propria rabbia e frustrazione verso dei genitori che non lo capivano –; la pressione quando parlavano coi parenti, perché lui non saltasse fuori con quella storia davanti a loro e non li facesse sfigurare; i litigi e le discussioni su una sua presunta confusione sessuale che iniziavano ogniqualvolta lui esprimesse un qualche interesse per un qualsivoglia uomo, e che sembravano non finire più; e alla fine c’era stato quello che l’aveva portato lì – il litigio che altro non era stato la goccia che aveva fatto traboccare il vaso: una discussione particolarmente accesa che aveva portato suo padre a dirgli di prendere ed uscire di casa, seduta stante, perché lui un figlio frocio non lo voleva.
Se qualcosa si era rotto nel rapporto con sua madre, che non riusciva più a parlargli come prima ma esitava in continuazione, e con suo padre, che non gli parlava se non attraverso urla, Marco l’aveva sentito, ma di un dolore di quelli che crescono giorno per giorno.
Quell’invito ad andarsene, invece, era stata una stilettata in pieno petto che gli aveva rotto il cuore a metà. Che gli aveva mozzato il fiato al punto da non lasciargli modo di rispondere. Che gli aveva fatto male al punto da spingerlo ad obbedire, andare nella propria , raccattare qualche quaderno per l’università, qualche libro e qualche vestito, l’mp3, il portafogli e il telefono cellulare, e uscire di casa senza nemmeno prendere le chiavi e dire una sola parola.
Istintivamente, si era rintanato nel primo vagone del treno, dove a quell’ora – erano le nove di sera ormai – non c’era nessuno; e lì era scoppiato a piangere, e aveva continuato per tutti i tre quarti d’ora di viaggio verso Milano.
Non sapeva molto bene perché era andato lì: tra una cosa e l’altra, poi, non aveva nemmeno avuto la forza di presentarsi a lezione. La prima notte aveva dormito sotto i portici, poco distante dalla sede centrale della Statale di Milano, in cui lui andava; il giorno dopo l’aveva passato ad ascoltare la musica di un mp3 che con le ore si era scaricato, e ad aspettare una chiamata da parte dei suoi che non era arrivata.
La seconda notte l’aveva passata nel parco. Aveva dormito lì, cercando di nascondersi in qualche modo da dei ragazzi che parevano iniettarsi qualcosa con delle siringhe; appena li aveva visti andarsene – verso le quattro del mattino – era tornato alla sede centrale dell’università, e si era accoccolato in un vicolo, a dormire lì, con un sacco di gente che gli passava di fianco e nessuno che lo vedeva davvero.
E ora era ancora lì. Sarebbe stata la quarta notte passata fuori di casa.
Ormai aveva anche perso le speranze che i suoi lo chiamassero e gli chiedessero di tornare, che c’era un pasto caldo per lui, e una doccia, e il suo letto e la sua camera – la sua quotidianità – ad aspettarlo.
Sospirò di nuovo, rigirandosi il cellulare tra le mani; si stava scaricando anche quello.
L’impulso fu quello di piangere, di nuovo. Eppure, s’impose di trattenersi: la stoffa del giubbotto non era adatta per asciugarsi gli occhi.
Sollevò lo sguardo verso l’entrata dell’università, e la fissò per qualche istante – fino a quando non notò che c’era una ragazza che lo stava guardando, con la testa inclinata come a voler capire chi lui fosse.
Sobbalzò, riconoscendola all’istante: aveva una buona memoria fisiognomica e lei gli era rimasta particolarmente impressa perché era stata una delle poche ragazze che si erano avvicinate al banchetto dell’associazione Gay Statale all’inizio dell’anno, durante la festa d’inizio università. Si erano avvicinati in contemporanea; solo che lui aveva preso semplicemente un volantino con i contatti dell’associazione e aveva biascicato un flebile “ciao”, senza dire null’altro; lei invece si era messa a parlare con i rappresentanti del gruppo, come se li conoscesse, e poi si era voltata verso di lui e gli aveva consigliato quali film andare a vedere tra quelli proposti in quel momento dall’associazione. Sembrava che lei li avesse già visti tutti.
Le sorrise debolmente, e poi abbassò lo sguardo, un po’ intimorito dall’essere stato riconosciuto: lui non frequentava i corsi lì in sede, ma nella zona di Lambrate; e aveva evitato di andare a dormire in quella zona anche per evitare di farsi riconoscere dai compagni di corso, oltre che perché era più pericolosa, dato che era spostata verso la periferia di Milano.
Quando sollevò di nuovo lo sguardo, lei lo stava fissando dall’alto, con lo zaino su una spalla e l’espressione perplessa.
«Mi pare che noi due ci conosciamo.» commentò.
Marco si strinse nelle spalle, senza sapere cosa dire. Biascicò un “più o meno…” prima di riabbassare lo sguardo sul cellulare, non trovando altro con cui intrattenersi e far capire a quella ragazza che voleva che lei se ne andasse, e che lo lasciasse in pace.
«È la seconda volta che ti vedo qui a quest’ora.» insistette lei. «Tutto a posto?»
Marco sollevò gli occhi verso di lei – solo in quel momento si decise a guardarla per bene.
Aveva i capelli neri, lunghi fino alla metà del collo; un orecchio destro pieno di orecchini; gli occhi marroni che si esprimevano in quella che doveva essere preoccupazione. Sulla fronte, per via delle sopracciglia aggrottate, le erano comparse un paio di righe simili a rughe.
«La seconda volta?» domandò Marco. «No, mi avrai confuso con qualcun altro.»
«Eri qui anche ieri.» replicò lei, inarcando un sopracciglio. «E adesso che ci penso, ti ho visto qui anche qualche giorno fa, mentre venivo in facoltà.»
«E quindi?» domandò Marco, mettendosi istintivamente sulla difensiva. «Che vuoi?»
Lei fece spallucce. «Solo sapere se va tutto bene.» replicò, accigliandosi leggermente. «Ma se non vuoi parlarne, va bene, non preoccuparti. Me ne vado.»
Non appena accennò ad andarsene, Marco si sollevò in piedi, quasi rovesciando lo zaino e il cellulare a terra. Lei si voltò, sorpresa. E lo fissò, in attesa che dicesse qualcosa.
Marco però non seppe cosa dire; non seppe in che modo spiccicare parola con lei. Non sapeva da dove cominciare; dove finire; se raccontarle veramente tutto quanto.
«Posso… farti una domanda?» chiese, a bassa voce. «Perché… eri al banchetto del Gay Statale, all’inizio dell’anno?»
Lei inarcò un sopracciglio. Ma parlò chiaramente.
«Sono bisessuale e ho una ragazza. Più o meno.» disse.
Marco abbassò lo sguardo, arrossendo e sentendo le orecchie scaldarsi nel giro di pochi secondi, per la vergogna della domanda che le aveva fatto.
«C’entra con quello, il fatto che sei qui?» domandò lei.
Lui annuì, intercettando con gli occhi lo zaino a terra e decidendo che raccattare le cose che erano scivolate fuori da esso sarebbe stato un buon diversivo, pur di non dover affrontare la vergogna di parlare di quello che gli era successo a una che sembrava così sicura di sé.
«Ti va di parlarne?» domandò lei. «Magari davanti a un caffè. Offro io.»
Marco alzò lo sguardo, sorpreso. Ma quando la vide sorridere, non poté fare a meno di accettare: per la prima volta, si sentì con qualcuno che lo considerava proprio pari.


Erica – così si presentò la ragazza, non appena ebbero raggiunto un bar – ci mise poco, a capire la situazione; ancora meno, chiedere a Marco perché non avesse chiamato Gabriele e non gli avesse chiesto se poteva stare per qualche tempo da lui, in attesa che le cose si sistemassero.
Era una soluzione logica – sarebbe stata a dir poco perfetta, in un altro momento; ma in quel periodo Gabriele era andato in Francia per un paio di mesi per uno stage lavorativo in un ristorante francese (frequentava la scuola per cuochi) con un paio di compagni di classe, e Marco aveva preferito evitare di chiamare il suo numero fisso e chiedere ai suoi se poteva stare lì: ci sarebbero state troppe cose da spiegare, senza che lui nemmeno sapesse se Gabriele aveva già fatto coming out coi suoi genitori o no. Avrebbe rischiato di metterlo in difficoltà, più o meno come era lui in quel momento, e non voleva.
Erica ci aveva messo dieci secondi, e forse anche di meno, a invitarlo a casa propria.
«Condivido un appartamento con un’altra ragazza, in realtà.» aveva precisato.
«Però non ho niente con cui pagare…» aveva ribattuto Marco.
«Come hai mangiato fino ad adesso?»
Marco le aveva spiegato che nel portafogli aveva una carta di credito che i suoi gli avevano caricato mesi prima, in vista di una vacanza con gli amici che poi era andata a monte; i soldi erano rimasti lì, e lui li aveva prelevati tutti appena aveva avuto l’occasione, preferendo evitare che gli bloccassero anche la carta. Fortunatamente, non era successo. Aveva trecento euro buoni per mangiare; fino a quel momento, ne aveva spesi venti scarsi.
Erica aveva annuito, e aveva convenuto con lui che ai pasti, alla spesa e alle faccende di casa avrebbe contribuito anche lui; per il resto, si sarebbero arrangiati: la casa aveva due letti (di cui uno occupato dalla coinquilina di Erica) e un divano. Dormire sull’uno o sull’altro non sarebbe stato un problema per nessuno dei due.
Ed era stato così, che Marco si era ritrovato di nuovo nella zona di Lambrate, in un palazzo di otto piani, davanti alla porta dell’appartamento di Erica, sul sesto pianerottolo.
Davanti alla coinquilina di Erica, una ragazza dai capelli biondi e gli occhi scuri, al confronto della quale Erica non aveva un filo di trucco – e in effetti era proprio così, costatò Marco non appena ci fece caso.
«Erica, lo spieghi tu ad Adele che questa non è casa sua?» disse lei, non appena aprì.
Marco notò che lo sguardo della ragazza era caduto immediatamente su di lui. Arrossì lievemente e abbassò la testa, imbarazzato, mentre Erica lo prendeva per un polso e lo trascinava dentro, e contemporaneamente parlava con la coinquilina.
«Adele è la mia ragazza, quindi fai il piacere di non chiamarla così, e di trattarla come se fosse una tua amica che entra in questa casa. O il tuo ragazzo. È uguale.» disse. «Marco, lei è Giada. Giada, Marco.» li presentò, frettolosamente; Marco fece un cenno del capo a Giada, imbarazzato e un po’ frastornato dalla situazione. Non appena sollevò lo sguardo davanti a sé, notò che Erica gli aveva lasciato il polso, ed era andata verso un’altra ragazza, coi capelli castani, riccia, e con gli occhi chiari.
Arrossì di nuovo; aveva alzato lo sguardo proprio mentre Erica la baciava. Affondò di nuovo gli occhi e prese a fissare il pavimento, rassegnandosi che a stare con Erica avrebbe avuto quel tipo di momenti di imbarazzo – non che gli desse fastidio, comunque: in realtà si imbarazzava a guardare qualunque coppia si baciasse in pubblico.
«Erica, non mi pare il caso, se a Giada dà fastidio…» sentì biascicare Adele. Sembrava imbarazzata tanto quanto lui.
«Oh, che palle! Io non faccio tante storie quando viene qui il suo ragazzo, non capisco perché lei possa farne su me e te!» considerò Erica, con tono scocciato. Marco alzò gli occhi, ammirato dalla franchezza e dalla naturalezza con cui aveva detto quelle parole; e poi Erica sospirò, e gli fece cenno di avvicinarsi. «Marco, lei è Adele, la…» la vide esitare per un secondo, davanti allo sguardo di Adele alzato nel suo. «…la ragazza che sto frequentando. Giusto?» completò Erica.
Adele annuì, e poi si voltò verso Marco, guardandolo in maniera perplessa e, a quanto lui poté capire dall’espressione, dichiaratamente diffidente.
«Lui è Marco.» disse Erica. «È un mio amico. Gli ho proposto di stare per qualche tempo qui.»
«Senza chiedermi niente?!» esclamò Giada, indispettita. «E poi, cazzo, Erica! È un maschio!»
«È gay.» ribatté immediatamente Erica, senza farsi troppi problemi.
Marco avvampò – sì, decisamente Erica sembrava fatta apposta per metterlo in imbarazzo; spostò lo sguardo da Adele, che lo stava guardando sempre più stranita, a Giada, che si era bloccata con ancora la mano a mezz’aria a puntare lui.
«Oh.» disse Giada, abbassando la mano incriminata e guardando lui. «Allora va bene.»
«Non ne dubitavo.» considerò Erica, annuendo, per poi voltarsi verso Marco. «La doccia è tutta tua.» disse, indicandogli una porta sulla parete di fronte a lui. «Mettici tutto il tempo che vuoi, poi mangiamo e sistemiamo le tue cose e la questione del letto.»
Marco annuì, sorridendo di gratitudine; non seppe che altro dirle, per ringraziarla a dovere. Si limitò ad abbozzare un “grazie” a voce forse fin troppo bassa, e ad avviarsi verso il bagno.


«Ho letto il tuo racconto.»
Erica non distolse lo sguardo dalla carne che stava preparando; più che altro, perché ci teneva a cucinare bene per tutti – tanto più che quella sera erano il doppio del solito, a mangiare al tavolo di quella cucina.
«Sei venuta qui per parlarmi di quello o per vedermi?» domandò, lanciando un’occhiata veloce ad Adele, condita di un sorriso lievemente ironico – ma come sempre intenerito, quando guardava lei e pensava alla sua situazione – o anche quando guardava lei e basta.
Adele probabilmente si era stretta nelle spalle, e aveva tenuto le mani in grembo e lo sguardo fisso sulle venature del tavolo; Erica ormai la conosceva, e in qualche modo sapeva prevedere i suoi modi di fare. Dopo tre anni di università insieme, di cui due passati a guardarla da lontano senza avere molte speranze di una relazione con lei, e uno passato a stare con lei ogni momento possibile e a cercare di avere una storia tranquilla con la ragazza di cui si era innamorata dopo poche settimane dall’averla conosciuta, ormai poteva dire di conoscere a grandi linee le sue reazioni alle sue domande, e alle sue provocazioni.
Adele non era a posto con la propria omosessualità – per niente; viveva in un contesto famigliare simile a quello in cui Erica aveva vissuto per diciannove anni, prima di trasferirsi a Milano per l’università (e in cui aveva vissuto anche Marco, da quel poco che aveva capito dal suo racconto), tale da impedirle di vivere tranquillamente il fatto che amasse una ragazza e non un ragazzo. A contribuire, c’era anche il fatto che Adele aveva scoperto la propria omosessualità con lei, e prima di lei non aveva avuto nessun’altra ragazza, ma solo ragazzi; questo comportava un continuo nascondersi agli occhi dei propri genitori e dei propri famigliari, e l’ossessione, quando erano fuori, che qualcuno le vedesse insieme e potesse riferire qualcosa ai suoi.
Erica conosceva bene la situazione: aveva vissuto anche lei sedici anni buoni della propria vita contornata da quell’alone di eterosessualità che propinano a chiunque non appena questi nasce, con i media, con i libri, con le favole della buonanotte, con la religione e coi luoghi comuni; e anche lei aveva quasi diciassette anni, quando aveva visto per la prima volta una scena tra due donne e aveva capito che non le sarebbe dispiaciuto essere al posto di una delle due. Non poteva dire di rifiutare completamente l’idea di stare con un uomo; ma preferiva le donne – e senza dubbio ora era di lei che era innamorata: di Adele, quella ragazza fragile che preferiva nascondersi e che aveva bisogno del suo supporto per stare tranquilla con sé stessa.
«Entrambe le cose.» disse Adele, distogliendola dai propri pensieri.
Erica tornò alla questione del racconto: aveva scritto una storiella non troppo impegnativa, come faceva spesso, per poi pubblicarla su un sito di fanfiction; e non era la prima volta che propinava una di queste ad Adele, perché la leggesse prima della pubblicazione.
«E come ti è sembrato?» domandò, incuriosita.
«Pieno di lesbiche.» commentò Adele. Erica sogghignò lievemente, ma non disse nulla: sapeva che c’era dell’altro. «Una coppia etero non la potevi fare, no?»
«Licenza poetica.» disse Erica, sorridendo sarcasticamente mentre girava la carne per vedere se era cotta. «Sai quante persone pubblicano storie piene di uomini gay, e magari poche o nessuna coppia etero? Io mi prendo la licenza poetica di dire “viva le lesbiche”.»
Sentì Adele sospirare; immaginò che avesse anche scosso la testa.
«Il troppo stroppia, però.» commentò.
Erica ridacchiò. «E dài, non dirmi che ti è dispiaciuta! Proprio tu no!» esclamò.
Il rumore di una sedia che si spostava – chiaro segno del fatto che Adele si era alzata di scatto – la spinse a distogliere lo sguardo dalla carne e a voltarsi verso di lei, cogliendo all’istante il messaggio: aveva oltrepassato la linea di confine.
Dopotutto, c’era un motivo, per cui Adele diceva che “si stavano frequentando”, malgrado l’imminente anniversario della loro relazione.
«Che vuol dire quel “proprio tu”?» domandò Adele, con il chiaro intento di incenerirla con le parole. Erica si voltò verso i fornelli, e decise che la carne era sufficientemente cotta; spense il fuoco e mise un coperchio sopra la padella.
La discussione si prospettava lunga, anche se era la solita di sempre; persino Giada la sapeva quasi a memoria.
«Nel senso che… mi importa la tua opinione.» disse Erica, puntellandosi con le mani sul ripiano della cucina, anche se sapeva che così non avrebbe avuto molte vie di scampo.
«O nel senso che pensi che mi dovrebbe piacere automaticamente, dato che per te sono lesbica?» ribatté Adele, con un tono che voleva essere apertamente velenoso.
Erica rotolò gli occhi indietro, esasperata. «L’ho detto perché ci tengo alla tua opinione.» replicò, alzando le mani come in segno di resa. «Le altre interpretazioni le hai date tu. Anche se, sì, forse dato che sei lesbica e hai una relazione con me, avrebbe dovuto piacerti.»
Quando Adele si comportava a quel modo, e negava anche l’evidenza, le faceva uscire cose che normalmente avrebbe detto in maniera più delicata; cose che dovevano stare sotterrate, forse solo appena sotto la superficie del terreno, in procinto di uscire da un momento all’altro – ma comunque sotto.
Erica in qualche modo la capiva: nel paese piemontese in cui era cresciuta, il livello di mentalità comune non era molto diverso da tanti altri paesi chiusi e bigotti che prendevano l’omosessualità come una malattia o qualcosa da guardare con sufficienza, sospetto, superiorità. Anche lei aveva vissuto male la scoperta della propria bisessualità: si era fatta domande, aveva vissuto col pallino di essere solamente etero, per un intero anno; ci pensava tutti i giorni senza arrivare a una conclusione – perché la sua testa ci arrivava, ma lei non voleva arrivarci.
Finché era arrivata ad avere quasi un esaurimento nervoso, e aveva preferito non pensarci più: che andasse come andasse, lei non voleva più pensarci e non voleva più farsi problemi.
Nel contempo, non aveva avuto né ragazzi né ragazze; Adele era stata la prima dopo un sacco di anni, ma nel frattempo lei si era dovuta sorbire le disquisizioni di zii tanto radicali e disinformati da dire che vent’anni prima, quando loro erano giovani, l’omosessualità non esisteva. Era vissuta preferendo non fare nessun coming out con i propri genitori, se non ce ne fosse stato il bisogno; era vissuta parlando della propria bisessualità solo sul net, attraverso le proprie storie, e con le poche amicizie che si ritrovava e che, grazie a Dio, riuscivano a capirla senza storcere minimamente il naso, ma volendole bene indipendentemente dal fatto che lei fosse lesbica, bisessuale, transessuale, eterosessuale o qualunque altra orientamento sessuale lei avesse – bastava che fosse lei.
Adele era stato il punto di non ritorno: quando Erica aveva capito di essersi innamorata di lei, aveva coming out in famiglia – senza nemmeno stare ancora con lei – e da lì erano saltate fuori discussioni su discussioni. Sua madre diceva che era confusa, e le aveva proposto anche di andare da uno psicologo; suo padre non l’aveva presa bene, ma non diceva granché: mutismi si alternavano a risposte monosillabiche e a discussioni con la madre – da cui era separato da un paio d’anni.
Erica aveva ringraziato di essersi già trasferita a Milano, in modo da vivere in modo più tranquillo quella storia e non avere sempre la tensione dei genitori e dei parenti (perché ovviamente erano venuti a saperlo anche loro, dato che sua madre l’aveva fatto saltare fuori; ed erano state risate interne per Erica, quando aveva visto la faccia di quegli zii che avevano disquisito sull’omosessualità in maniera così malevola fino a poco tempo prima); e fortunatamente Giada era sì poco tollerante, ma non rompeva più di tanto – a lei semplicemente non faceva impazzire vedere due donne che si baciavano, tutto qua.
Adele non era nella stessa situazione: aveva avuto i suoi stessi dubbi, ma non la forza di alzare le spalle e dire “vada come vada”. E ovviamente non aveva ancora fatto coming out coi genitori; non ne aveva parlato con gli amici, perché si vergognava; anzi, a dire il vero non ne aveva parlato con nessuno se non con lei, e nessuno dei compagni di corso, ovviamente, sapeva della loro relazione – tutti sapevano solo che erano molto amiche e avevano legato molto, in quei tre anni di università.
Era quello, il motivo per cui Adele diceva sempre che si stavano ancora “frequentando” e non “stavano insieme”, come sarebbe stato normalissimo dire dopo un anno di relazione.
«Io non ho una relazione con te!» protestò Adele. «Ci stiamo…»
«…ancora frequentando, nonostante sia passato un anno. Lo sappiamo, Adele.»
Erica sgranò gli occhi, e vide Adele fare lo stesso; si voltarono in contemporanea verso Giada, che si era affacciata alla cucina e aveva fatto il suo ingresso a sorpresa – non il primo, dato che in quel periodo aveva preso a intromettersi nelle loro discussioni; ma comunque era successo talmente poche volte che aveva colto entrambe alla sprovvista.
«Lo sai, Adele.» proseguì Giada, appoggiandosi allo stipite della porta, e incrociando le braccia. «Io se il mio ragazzo, dopo un anno, dopo che ci siamo baciati un numero incalcolabile di volte, che siamo andati a letto insieme e stiamo bene insieme ed è palese ad entrambi che è così, mi dicesse che ci stiamo ancora frequentando, non esiterei un secondo a mandarlo a fanculo
Erica socchiuse la bocca per la sorpresa. Un intervento da parte di Giada – un intervento di quel tipo – proprio non se l’aspettava.
Giada era la classica ragazza che guardava le lesbiche un po’ dall’alto in basso; che storceva un po’ il naso, a dimostrazioni di amore tra due ragazze; che non concepiva moltissimo che due ragazze stessero insieme e avessero una relazione stabile – o più o meno stabile, nel caso di Erica e Adele; era, insomma, la classica etero convinta che dice “a me i gay stanno tutti simpatici” senza capire che c’è gay e gay come c’è etero ed etero.
Era quello, il motivo per cui aveva dato subito l’ok alla condivisione dell’appartamento con Marco, non appena aveva saputo che era gay.
Ed era per quello, che sia Erica, sia verosimilmente anche Adele, si aspettavano tutto, tranne che quelle parole d’intervento nella loro discussione: siccome le aveva sempre guardate con una chiara sufficienza, il fatto che paragonasse la loro relazione a quella che lei aveva con il suo ragazzo poteva essere segnato sul calendario come evento più unico che raro.
Adele fu la prima a reagire. Prese il maglione che aveva appoggiato sullo schienale della sedia e se lo mise addosso, più velocemente che poté; ne venne fuori un gesto piuttosto frenetico e confuso che Erica fissò senza sapere che diavolo le fosse passato per la testa, quella volta.
«Visto che mi pare che tu non mi voglia qui, Giada, e visto che non ho voglia di discutere, me ne vado.» chiarì immediatamente dopo lei, avviandosi verso la porta. Giada non batté ciglio, e si scostò per lasciarla passare.
«Adele, guarda che io non ti ho mandato a fanculo!» disse Erica, rincorrendola. «Lasciala perdere, non era quello che volevo dire io!»
«Non ho voglia di litigare.» replicò Adele, cercando di darsi una controllata; ma Erica lo vide chiaramente, che stava tremando, mentre si metteva il cappotto. «Ne parliamo con più calma un’altra volta, Erica. Stasera è meglio che io vada a casa, tanto più che avete un altro ospite.»
«Ma che cazzo c’entra?» ribatté Erica, mettendole una mano sulla spalla. «Dài, rimani qui…»
Adele scostò la spalla dalla sua mano. «No. Torno a casa.» disse.
Quel tono fece capire a Erica che non avrebbe avuto molte speranze di convincerla a rimanere lì: se tutto andava bene, aveva l’1% di possibilità di farle cambiare idea.
«Per favore… rimani qui. Parliamo di altro, promesso.» disse, cercando di nuovo di metterle una mano sulla spalla e di farsi ascoltare.
Adele si scostò prima che riuscisse nel suo intento, e scosse la testa. «Ne dubito, col vostro nuovo coinquilino gay.» disse, facendo un cenno col mento alla porta del bagno – ed Erica non poté fare a meno di notare che avesse pronunciato l’ultima parola con una lieve smorfia in viso. «Lasciamo stare.» aggiunse, scuotendo la testa e tornando ad allacciarsi l’ultimo bottone del cappotto. «Ci vediamo in facoltà domani, forse. Non so se vengo, ho quell’esame da preparare.»
Erica sospirò; non aveva giocato una buona carta nel provare a convincerla. Abbassò la mano, mentre Adele abbassava la maniglia della porta e usciva. Era chiaro a tutti che se Erica le avesse chiesto se voleva essere accompagnata, avrebbe risposto con un categorico no.
Erica chiuse la porta di scatto non appena la sentì prendere l’ascensore, e fu quasi tentata di dare un pugno alla parete, in un raptus d’ira; poi, fu tentata di urlare contro Giada e picchiarla, per quell’intervento decisamente poco opportuno; ma alla fine, si diresse ad ampie falcate verso la propria camera, limitandosi a informare ad alta voce Giada (e forse anche Marco) che non avrebbe mangiato, e si chiuse la porta alle spalle – per poi accasciarsi sulla sedia più vicina, distrutta.


*****



Dalla sera in cui era arrivato, Marco aveva avuto modo di ristabilire, in qualche maniera provvisoria, la propria vita: era tornato in università, aveva ripreso a studiare, e cercava sempre di non pensare che i suoi genitori ancora non l’avevano chiamato per chiedergli di tornare a casa e per scusarsi con lui; ormai, in realtà, aveva perso quasi del tutto le speranze che succedesse.
Erano passate quasi due settimane, e aveva avuto modo di conoscere meglio anche le sue due nuove coinquiline (oltre che di appropriarsi del loro divano per dormire; Erica aveva insistito per prestargli il proprio letto almeno per i primi giorni, ma lui aveva vinto nella gara di insistenza e preso alloggio sul divano sin dalla prima notte).
Giada era quasi un libro aperto – non era difficile capire come ragionasse, dato che era molto loquace e le piaceva parlare di tutto e di più; da quando poi aveva realizzato di avere un coinquilino con cui condivideva i gusti sessuali (e le ci era voluto davvero poco), aveva preso a considerarlo alla stregua di un’amica del cuore, confidente, e a raccontargli tutte le proprie uscite col suo ragazzo – gli aveva persino chiesto consiglio su smalti e abbigliamento da mettere agli appuntamenti, senza considerare che Marco se ne intendeva ben poco, di abbigliamento femminile, dato che era una di quelle persone che mettono su le prime cose che capitano la mattina.
Alla fine, era dovuta arrivare Erica a interrompere Giada, dopo giorni di richieste di aiuto nell’abbinare capi di vestiario che Marco aveva saputo a malapena fronteggiare: per Erica non era stato difficile, evidentemente, capire che lui si sentiva in imbarazzo a essere considerato un esperto di vestiti solo perché gay. Si era anche offerta di aiutare Giada al posto suo, ma lei aveva rifiutato – asserendo come motivo il fatto che l'armadio di Erica fosse pieno di camicie tendenzialmente maschili, di , di t-shirt e di scarpe da ginnastica (il che non era del tutto falso, effettivamente), e che lei di abbigliamento se ne intendeva ben poco; Erica inizialmente non aveva obiettato – solo dopo aveva detto a Marco che lei di abbigliamento femminile se ne intendeva abbastanza, ma metteva quel tipo di vestiti semplicemente perché voleva essere comoda ed era un tipo pratico.
Erica, confronto a Giada, era più enigmatica e stuzzicava di più la curiosità di Marco: era un tipo riservato, taciturno, che difficilmente si scioglieva a parlare – e solo quando gli argomenti la interessavano particolarmente. Per il resto del tempo, stava a fare le faccende di casa – a quanto Marco aveva potuto vedere, era una specie di factotum –, a studiacchiare e a scrivere al pc quelli che lei chiamava semplicemente “racconti”.
Con dispiacere di Marco, che era praticamente sicuro che generalmente Erica fosse più loquace, in quelle due settimane lei non aveva quasi sorriso ed era stata “più taciturna del solito”, a quanto aveva detto Giada: e Marco non aveva impiegato molto tempo, per capire che quel silenzio, e tutto quel tempo passato sul pc, fossero dovuti al fatto che Adele non si era più ripresentata, dopo quella sera.
«È quasi la norma, ultimamente.» aveva detto Giada una sera. «Adele non vuole ammettere di essere innamorata di lei, e fa di tutto per dimenticarla. Cerca di tornare a essere etero.» aveva aggiunto, rotolando gli occhi indietro con fare esasperato. «E non riesce a capire che se sono state insieme per un anno nonostante tutto, un motivo c’è.»
Erica in quelle due settimane era sempre stata l’ultima ad andare a letto: quando lui e Giada le davano la buonanotte, lei era sempre appiccicata al computer, a scrivere come una dannata qualcosa di cui Marco ancora non aveva capito l’entità.
E lo stesso valeva per quella sera, in cui era riuscito, finalmente, a scoprire che avesse fatto Erica per tutto quel tempo.
Marco aprì la porta della sua camera, sporgendosi verso l’interno; la prima cosa che notò, oltre al fatto che Erica ancora non si fosse fatta la doccia malgrado fossero le otto e mezzo di sera – lui da quando era stato per strada ci teneva in particolar modo alla pulizia – fu che per una volta non stava scrivendo, ma sembrava leggere e battere qualcosa sulla tastiera solo di tanto in tanto. Quando le disse che la cena era pronta, lei si voltò, e Marco non poté fare a meno di notare la sua espressione che trasudava sorpresa da tutti i pori.
«Di già?» domandò lei, voltandosi verso il computer. «Cacchio, sono già le otto e mezza!»
Marco sospirò, ed entrò nella stanza. «Se non sono indiscreto, posso sapere da cosa sei così presa, al punto da non avere più nemmeno la cognizione del tempo?»
Erica fece spallucce. «Niente.» replicò. «Scrivo. Giada non te l’ha detto, che scrivo?»
«Questo l’avevo capito. Ma non mi pare proprio niente, da come sei presa.» commentò Marco, avvicinandosi al computer, ma trattenendosi dallo sbirciare. «Guarda che occhiaie che hai.»
«Davvero?» domandò Erica, sfiorandosi istintivamente le palpebre inferiori. Poi, emise un suono a metà tra il sospiro e la risata. «È il regalo per Adele.»
«Oh.» fece Marco, sorpreso, voltandosi verso lo schermo. «Una storia?»
Erica annuì – e Marco non poté fare a meno di sorridere, al vedere la sua espressione intenerita e un po’ stanca. «Spero che stavolta l’apprezzi. È una fanfiction su Il Diavolo veste Prada, lei adora quel film.»
«Una fanfiction?» domandò Marco, perplesso.
«È un racconto amatoriale.» spiegò Erica, sollevando gli occhi verso di lui. «Lo puoi scrivere su fumetti, cartoni animati, film, gruppi musicali, libri, quello che vuoi. In qualche modo ti diverti a stravolgerli. Anche se qua ho solamente dato la mia interpretazione di come vedo il rapporto tra Miranda Priestly e Andy*…»
Marco rise. «Immagino in che chiave.» commentò, tornando a guardare lo schermo. «Adele non se la prenderà, se le smonti così un film che a lei piace così tanto?»
Erica fece di nuovo spallucce. «Spero di no!» considerò, ridacchiando. «In fondo è solo una mia interpretazione. Però spero che le piaccia. E magari che le faccia capire qualcosa, se c’è ancora qualcosa da capire…» Poi si alzò, avviandosi verso la porta. «Dài, andiamo a mangiare, che poi mi faccio la doccia e finisco di correggerla, così la pubblico sul sito. Ho ancora una dozzina di pagine da leggere.»
«Quante ne hai fatte?» domandò Marco, voltandosi verso di lei.
Erica si strinse nelle spalle. «Non lo so… quando mi prendo bene a scrivere diventano un sacco senza che io nemmeno me ne accorga.» disse. «A occhio e croce, saranno una cinquantina. Scritte grandi, però!»
Marco spalancò gli occhi, sorpreso – e poi si voltò verso lo schermo, ammirato che lei fosse riuscita a scrivere cinquanta pagine in meno di due settimane; lui ci avrebbe messo una vita.
L’occhio gli cadde istintivamente sulla dedica iniziale che Erica aveva messo – chissà perché, quando era entrato nella stanza, lei aveva preso a far scorrere le pagine fino a quella iniziale; forse per il nervosismo.
Sorrise, dopo aver letto quelle tre righe.
Se Adele non avesse apprezzato quelle poche parole, avrebbe avuto seri dubbi sulla sua buona vista, oltre che sul suo buonsenso.


Ad Adele,
la donna più bella del mondo;
buon compleanno.
Aishiteru.**

Adele rilesse quella dedica per un numero di volte che non le importò calcolare.
Erica le aveva scritto un sms quasi un’ora prima, poco dopo la mezzanotte – in qualche modo, aveva capito che era ancora sveglia.
L’sms recitava semplicemente “Buon compleanno! Il tuo primo regalo l’ho pubblicato sul solito sito a mezzanotte precisa :)”
Erica non era mai stata di molte parole, specie quando doveva fare gli auguri: le aveva sempre detto che non sapeva mai come esprimersi a dovere.
Però, Adele in quel messaggio e in quella dedica riuscì a leggere tutto il rispetto che aveva per la sua riservatezza sulla questione della relazione con lei.
Non aveva detto una sola volta “la mia ragazza” nella dedica; non aveva detto “buon compleanno, amore”, ma solo “buon compleanno”. Erica sapeva esprimersi bene con poche parole; lei sapeva capire al volo quello che le sue poche parole volevano dire. Le era venuto naturale farlo, sin da quando si erano conosciute: sapeva che quello che Erica diceva, lo diceva sempre per un motivo; che il più delle volte ponderava accuratamente le parole ed era proprio perché pensava (anche troppo, forse) prima di parlare, che era così poco loquace; che riusciva ad esprimersi meglio scrivendo, che parlando, perché in quel modo non rischiava di mettere qualche punto fuori posto, qualche parola di troppo, quale pausa non voluta.
Eppure, con poche parole, Erica riusciva sempre ad esprimere tanto.
Sospirò – aveva letto la storia nel giro di poco, malgrado fossero più di 50 pagine, su word; e abbassò lo sguardo, pensando a quello che Erica aveva voluto regalarle con quella storia.
Il Diavolo veste Prada era uno dei film che le piacevano di più; ed Erica aveva avuto la capacità di analizzare i sentimenti di Andy e Miranda in una chiave diversa da quella del film – una chiave decisamente lesbica – senza però stravolgerlo. Era come se si fosse limitata a sviscerare quelli che erano per lei i veri sentimenti delle due protagoniste, senza però cambiare nulla – nessun finale, nessuna scena, nessuna parola. Alla fine della sua storia, Miranda ed Andy si erano separate, proprio come nel film; eppure rimaneva quel sorriso di Miranda, e quel sorriso di Andy, che faceva capire in qualche modo la loro complicità – che faceva chiedere se fosse realmente finita, in caso che la storia che Erica aveva descritto fosse stata quella vera.
Adele sospirò di nuovo, e chiuse il file, rigirandosi il cellulare tra le mani – la schermata riportava ancora il testo del messaggio che Erica le aveva mandato: ne era rimasta talmente sorpresa che aveva subito connesso internet e aveva scaricato la sua storia.
Sarebbe andata a finire così anche tra loro? Si sarebbero separate anche loro?
Alzò lo sguardo verso lo schermo, e riaprì il file, quasi crogiolandosi in quella dedica che Erica le aveva mandato.
Aishiteru.
Perché Erica non aveva paura di dire al mondo intero che era innamorata di lei?
Perché lei, invece, doveva averla?
Chiuse gli occhi per un attimo, e poi rilesse l’sms.
Mancava qualcosa.
Mancavano troppe cose.
Mancava quell’ “amore” che avrebbe voluto sentirle dire, o scritto in quel messaggio; in quella dedica, mancava quel “la mia ragazza”, mascherato in qualche modo da quella “donna”; nelle reazioni di Erica quando Adele le diceva che non stavano insieme ma si frequentavano soltanto, mancavano le arrabbiature, i nervosismi da parte di Erica – c’erano solo facce abbattute, tristi, ma che la sembravano capirla, e accettare, anche se a malincuore.
Perché la capiva? Perché non le urlava contro? Perché non dava di matto, e alle sue provocazioni non si innervosiva? Perché non l’aveva ancora lasciata, dopo tutto quello che le aveva fatto passare – dopo averla fatta soffrire a quel modo, come le vedeva ogni volta in faccia?
E poi… e poi…
E poi mancava quell’augurio di “buon anniversario” da parte di Erica, in quell’sms.
E Adele sapeva che non poteva essersene dimenticata: si erano messe insieme esattamente un anno prima, il giorno del suo compleanno, e sia Giada, sia Erica, lo sapevano bene.
Adele lo sapeva, che Erica avrebbe voluto farle anche gli auguri di buon anniversario, ma non l’aveva fatto perché lei – razza di stupida – diceva sempre che non stavano insieme: l'affermare che stavano insieme avrebbe, innanzitutto, definitivamente confermato la sua appartenenza al mondo dei gay; e poi, di conseguenza, il dover fare coming out coi suoi genitori, col rischio di avere una reazione non proprio positiva nella maggior parte dei casi prospettati dalla sua mente.
Si voltò indietro, verso la porta della propria camera – fu una reazione istintiva, quando si chiese cos’avrebbe dovuto dire ai propri genitori in caso di coming out e come loro avrebbero reagito.
Scuotendo la testa, si chiese come avrebbe fatto: i suoi le erano sempre parsi di mentalità chiusa, esattamente come gli zii e gli amici; Erica per loro era solo un’amica cui era particolarmente affezionata; e lei era semplicemente troppo presa dallo studio, ultimamente, per avere il tempo di mettersi con un ragazzo.
I suoi avevano conosciuto i suoi ex ragazzi; non avrebbero capito come lei poteva essere omosessuale, dato che prima dei diciannove anni aveva avuto tre ragazzi con cui aveva intrapreso delle storie che erano state relativamente durature. Avrebbero considerato lei solo confusa; ed Erica una specie di strega che aveva circuito la loro bambina, e che andava assolutamente allontanata.
A dire il vero, nemmeno lei capiva bene come potesse essere omosessuale; seppe solo che le sue dita si mossero istintivamente, sul cellulare, a digitare quel messaggio e ad inviarlo.
“Grazie per il regalo, la storia era bellissima. Aishiteru.”
Non lo rilesse nemmeno; in quel momento preferiva non ragionare.
Appoggiò il cellulare sul tavolo, e gettò un’occhiata alla scatoletta rossa poco distante sul ripiano di legno.
La fissò, sorridendo lievemente, e sentendo la tristezza pesarle addosso, compagna della consapevolezza di essere stata una stronza per tutto quel tempo verso la persona che amava e che l’amava; consapevole di essersi fatta del male, negando la propria natura, negando i sentimenti che nutriva per Erica, negando ad entrambe la felicità, e negando pure la verità ai propri genitori.
Si alzò, decidendo che quella stessa sera sarebbe andata a chiedere scusa ad Erica per la propria assenza per quelle due settimane, per il non essersi fatta sentire, per tutto quel tempo passato a farle del male, per il proprio comportamento; e le avrebbe dato il regalo, con la speranza che lo accettasse.
E poi avrebbe fatto coming out coi propri genitori, nel giro di poco. Bastava… bastava solo pensare a cosa dire, e azzeccare il momento giusto.


La prima cosa che Adele pensò, quando sua madre la chiamò alla porta perché c’era qualcuno che la cercava, ed ebbe raggiunto l’ingresso di casa propria e visto quel mazzo di rose rosse, fu che era stata una cretina. O troppo assonnata per leggere bene il messaggio di Erica, quella notte. O troppo confusa su sé stessa, su quello che avrebbe dovuto fare. O troppo impaurita nel prospettare le possibili (secondo il suo pensiero) conseguenze a quel gesto.
Probabilmente, era stata quante tutte le cose messe insieme.
Ma non aveva recepito bene quel “il tuo primo regalo” – che ricordò vividamente solo una volta viste le rose che un fattorino del fiorista le aveva portato.
Era rimasta a casa con la scusa che doveva studiare; in realtà, era uscita e aveva fatto aggiungere una cosa al regalo per Erica. Avrebbe dovuto passare a ritirarlo verso le sei, quando poi si sarebbe avviata verso casa sua e avrebbe, nelle sue più rosee aspettative, passato il compleanno e l’anniversario insieme a lei; in quel momento, erano solo le quattro del pomeriggio.
Spalancò gli occhi, davanti al mazzo di rose che si ritrovò si fronte, condito dal sorriso del fattorino che le aveva portate.
Se sua madre era stupita, lei faticò a trattenere le lacrime per la commozione e per l’aver realizzato all’istante che Erica, nonostante tutto, non smetteva di amarla.
Ringraziò il fattorino, e fece per chiedergli quanto voleva di mancia – ma lui scosse la testa, e disse semplicemente che gliene avevano già data una piuttosto cospicua, per quella consegna; lo vide fare l’occhiolino, prima di andarsene a bordo del motorino.
Adele prese allora il biglietto, attaccato con una molletta rossa alla carta in cui il mazzo di rose era avvolto.
Alla donna più bella del mondo,
per un anniversario,
scelga lei quale.
Ti amo.

Adele sentì una lacrima scivolarle fuori dall’occhio, ma non la fermò; lasciò scorrere tutte le altre che uscirono, senza azzardarsi a fermarle.
«Che bello, Adele!» commentò sua madre, accanto a lei, mentre esaminava il mazzo di fiori. «Non mi avevi detto di avere un ragazzo! O è un tuo ammiratore segreto?» domandò, ammiccando.
Adele, nonostante tutto – nonostante il fatto che dopo quella frase ebbe realizzato che il suo coming out l’avrebbe fatto lì, e in quel momento; nonostante il fatto che stesse piangendo, e non sapeva più se dalla gioia o dalla commozione o dalla pesantezza datale dal fatto che aveva trattato letteralmente di merda una persona come Erica – sorrise, quando scosse la testa, in risposta alla domanda della madre.
«Sono…» azzardò. Chiuse gli occhi, e deglutì – ma nonostante tutta la paura, non riuscì a non sorridere. Tremava da capo a piedi per quello che sua madre avrebbe detto, o per come suo padre avrebbe reagito; aveva lo stomaco stretto in una morsa, e le parole faticavano ad uscirle, tanto che quel “sono” l’aveva solamente mormorato.
Eppure, sorrideva. Sorrideva, e scuoteva la testa.
«Sono della mia ragazza.» mormorò.
Non guardò sua madre: in quel momento gli occhi erano solo per quei fiori, e per la scatoletta rossa che avrebbe dovuto ritirare di lì a poco.
Però l’attimo di silenzio lo sentì eccome.
Fu come un taglio che andava piano piano affondandole nella carne dello stomaco.
Sua madre non sapeva cosa dire, evidentemente. E lei aveva già detto tutto ciò che doveva.
Solo dopo quello che doveva essere stato un minuto buono, a occhio e croce – ma che ad Adele sembrò un’eternità – sua madre parlò.
«Scusa?» domandò, voltando lievemente la testa da una parte – quello era il gesto che lei faceva quando aveva capito qualcosa, ma esigeva che quel qualcosa le fosse spiegato più nel dettaglio. «La tua ragazza?»
Adele sentì il cuore batterle persino nelle orecchie. Chiuse gli occhi, e prese un profondo respiro, accentuando lievemente di più la presa sul mazzo di fiori.
«Sì.» disse, in un soffio, senza guardarla.
Fu solo dopo qualche istante – di nuovo di silenzio – che si decise a voltarsi, e a guardarla negli occhi.
«Mi... sono innamorata di una ragazza, mamma.» replicò. «Ho una relazione con lei da un anno. Questi fiori sono per il nostro anniversario, da parte sua.»
Adele non riuscì a capire se la reazione di sua madre fosse stata prevista, dalla sua mente, o no; però la vide spalancare gli occhi, e la bocca, in cerca chissà se di aria o di parole da dire, di urla da sbatterle contro, di perplessità e domande da chiarire.
Continuò a guardarla negli occhi, aspettando che dicesse qualcosa.
Ma sua madre non disse nulla.
La colse anzi alla sprovvista, prendendole i fiori dalle mani e sbattendoli a terra, rovinando non solo la composizione, ma i fiori stessi – che, Adele li aveva visti, non avevano un solo petalo fuori posto.
Adele li fissò; rimase a guardare i petali che si staccavano dalle corolle, e i gambi che uscivano dalla carta trasparente in cui erano avvolti, spargendosi sul pavimento di casa sua.
Per un attimo, trattenne il fiato e le lacrime, davanti a quella scena. E sentì qualcosa spezzarsi, dentro di sé.
Quando rialzò gli occhi verso quelli di sua madre – furenti, e che la fissavano, in attesa di una discussione – capì che quello che aveva sentito rompersi era stato il nodo allo stomaco che aveva avuto fino a quel momento. E che anche il nodo alla gola si era sciolto di colpo – come se fosse stato brutalmente tranciato, da quel gesto.
Assottigliò gli occhi, tremando – stavolta per la rabbia.
«Perché cazzo l’hai fatto?!» urlò.
«Perché non è vero!» urlò sua madre. «Tu non puoi essere… lesbica
Adele ebbe voglia di indietreggiare, per non essere colpita dal modo velenoso con cui sua madre aveva sputato quell’ultima parola. Ma rimase sul proprio posto, ferma; fissò la madre per qualche secondo, cercando le parole adatte da dire.
E concluse che di parole adatte non ce n’erano.
Chiuse gli occhi, e raccolse l’unica rosa intatta che riuscì a trovare, in quel mazzo di almeno dieci rose, e il biglietto di Erica. Quando si rialzò, guardò in faccia la madre – le si avvicinò col proprio viso fino ad arrivare quasi a sfiorare il suo.
«Io sono lesbica.» ribatté, senza urlare. «Non è una cosa che decido, o che posso, o che voglio essere. Ma sono felice di esserlo, se questo significa stare con una ragazza come Erica.»
«Piantala di fare la cretina.» replicò sua madre. «Piantala di dire stronzate.»
Adele in quel momento ebbe un flash. Il cellulare che stava ancora sulla sua scrivania, di sopra.
Indietreggiò di un passo, senza scomporsi. «Aspetta qui solo un secondo.»
Salì le scale e prese velocemente il cellulare, un paio di magliette, un maglione, un paio di jeans, il libro su cui stava preparando l’esame, il caricatore del cellulare, e li sbatté dentro lo zaino dell’università con la rabbia che per troppo tempo aveva represso verso sé stessa e verso la propria famiglia. Afferrò il cappotto: lì dentro c’era già il portafogli. Se lo mise addosso, mise in una tasca il cellulare che le era rimasto in mano, e in spalla lo zaino; poi riprese la rosa ancora intatta e il biglietto di Erica, e scese di nuovo le scale, ritrovandosi nel giro di pochi secondi ancora davanti a sua madre – che, forse per capire che diavolo avesse in mente di fare Adele, era rimasta lì ad aspettarla.
«Dato che ho fatto stronzate per un anno e sono stata cretina, ora la smetto.» disse, annuendo. «Hai ragione. Meglio che vada a scusarmi con lei seduta stante e che vada a darle il mio regalo per l’anniversario, subito
Oltrepassò sua madre, che era rimasta impietrita, ferma sul posto; e abbassò la maniglia della porta, voltandosi solo per un momento a guardarla.
Attese solo per un attimo qualche parola da parte sua.
Ma lei parlò solo quando Adele si voltò per uscire.
«Se esci da lì guarda che non rientri.» disse sua madre. «Giuro, Adele. Faccio cambiare la serratura.»
Adele chiuse gli occhi, e scosse la testa, mentre faceva un respiro profondo. «Non sprecarti. Non prendo le chiavi.» disse poi. «Ciao, mamma. Salutami papà.»
Adele si chiuse la porta dietro, e osservò la strada davanti a sé, su cui dava la villetta in cui abitava.
Le persone camminavano, parlavano, ridevano, come se non fosse successo niente.
Solo dentro di lei c’era qualcosa che si muoveva.
Era qualcosa di indefinito – pensieri che correvano talmente velocemente, nella sua testa, per poter essere captati per intero: vide passare il desiderio di essere riammessa in quella casa, di sentirla di nuovo come propria e di poter riprendere le chiavi come faceva sempre; il desiderio di vedere uscire sua madre in quello stesso momento, scusandosi per le parole che aveva detto e per il gesto che aveva fatto; e vide passare la reazione di suo padre nella propria testa (lui che si paralizzava sul posto, che diceva che non era possibile, esattamente come aveva fatto sua madre); e poi la reazione di Erica a quello che le avrebbe detto; la domanda “dove avrebbe dormito quella notte?” accompagnata da un “dove avrebbe vissuto da quel momento?”.
E si chiese perché – perché doveva essere così difficile? Perché sua madre non riusciva ad accettarlo? Perché c’erano genitori che dicevano ai figli omosessuali che l’avevano già capito, e altri che dicevano che andava bene così, e per lei non era stato così? Era stata colpa sua? Era stata colpa della cattiva informazione dei suoi genitori?
C’era un motivo, poi?
Inspirò a fondo l’aria ancora fredda di fine marzo; e sollevò la rosa che aveva in mano all’altezza degli occhi.
Scosse la testa – forse in quel momento era meglio non pensarci. Forse l’avrebbero richiamata e le avrebbero detto che in fondo andava bene così, poco male se aveva gli stessi gusti di suo padre invece che di sua madre; forse le avrebbero chiesto scusa, le avrebbero detto di tornare a casa. Forse. Prima o poi. Forse.
Per quel momento, decise di pensare solo al regalo per Erica.


Erica si era ritrovata alla sprovvista Adele sulla soglia di casa, quando era andata ad aprire.
Anzi, in un certo senso si era aspettata che Adele le facesse visita, quel giorno; ma non si aspettava di vederla così; – con uno zaino in spalla, una rosa e il suo biglietto in una mano e una scatoletta nell’altra, e le lacrime agli occhi e che le avevano bagnato metà del viso.
Non le ci era voluto molto, tuttavia, per capire il perché di tutto quello; a dire la verità, bastava un’occhiata.
Aveva spalancato la porta, e si era scostata per lasciarla passare; ma Adele le si era buttata addosso, abbracciandola e baciandola – stavolta cogliendola davvero alla sprovvista.
«Buon anniversario, amore.» disse Adele, una volta che si fu scostata.
Erica non seppe bene se il suo cuore avesse fatto un triplo salto mortale all’indietro, o se si fosse fermato di colpo; forse tutt’e due.
Di certo ci fu il sorriso (forse un po’ ebete; ma in fondo che diavolo importava, in quel momento?) che fece non appena ebbe realizzato quelle parole.
Chiuse la porta, e tolse il cappotto ad Adele, e fece per prenderle lo zaino; ma Adele scosse la testa, e prima che potesse insistere le porse la scatoletta che teneva in mano.
Rossa, come le rose.
Erica sorrise, un po’ incerta – era la prima volta che riceveva un regalo di anniversario – e la prese tra le mani, esitando talmente tanto, prima di aprirla, che Adele dovette incitarla.
«Dài, aprila!» disse, sorridendo a propria volta. «Voglio vedere se ti piace!»
Erica soffocò una risata nervosa in uno sbuffo condito da sorriso, e obbedì, aprendola lentamente.
Che era una di quelle scatolette da gioielleria l’aveva capito fin dal primo momento: era ovvio, e poi riportava il nome della gioielleria, in dorato, su un angolo del coperchio.
Ma non si aspettava quello che vide al suo interno.
All’interno c’era un ciondolo, piccolo, circolare: un portafoto che dentro aveva una foto di loro due – scattata da Giada, una volta, mentre erano in casa tutt’e tre.
Sorridevano entrambe.
Quella volta fu sicura: il cuore le fece un salto mortale triplo. Forse quadruplo.
«Ho…» azzardò Adele, grattandosi una guancia; Erica sollevò gli occhi verso di lei, per un attimo sorpresa. «Ho fatto fare oggi una piccola modifica…» disse, prendendo il ciondolo e voltandolo.
Erica sbarrò gli occhi, al leggere quelle quattro parole.
Born to love you.
Per un attimo nella sua testa ci fu il vuoto; fu quasi sicura che Adele stesse parlando, ma lei non riuscì ad ascoltarla. Nella sua testa rimbombavano quelle parole.
Born to love you.
Nata per amarti.
Quando sollevò lo sguardo – senza sapere cosa dire; senza sapere cosa fare; senza nemmeno riuscire ad ascoltare Adele che sembrava essere stata presa da una vena logorroica, per quanto stava parlando – non riuscì a fare altro che baciarla.
Ed era certa che Giada e Marco le stessero guardando; ma entrambi ebbero il buonsenso di non dire nulla, nel momento più bello della sua vita.
Della loro vita.
«Non so cosa fare di altro per contraccambiare…» commentò poi, imbarazzata.
Adele rise, e inarcò un sopracciglio. «Niente.» disse. «O meglio, forse un altro di quelli non mi dispiacerebbe…»
Erica rise a propria volta, e la baciò di nuovo.
Davanti a Giada. Senza che Adele si preoccupasse per quello che pensava lei.
Probabilmente di lì a poco il cuore le avrebbe sfondato la gabbia toracica, se lo sentiva.


Qualche mese dopo, Adele sarebbe venuta a sapere l’effettiva reazione di suo padre alla notizia.
Suo padre quella sera avrebbe semplicemente alzato le spalle, chiedendo alla moglie che ci fosse di male nell’avere una figlia lesbica.
Al che, la moglie avrebbe ribattuto che le donne non erano fatte per amare le donne, e che non riusciva a concepire un rapporto tra due donne che potesse andare oltre l’amicizia per quanto stretta, e che non riusciva nemmeno a immaginarsi sua figlia che faceva sesso con un’altra donna (e chissà com’era questa donna!); avrebbe asserito che quella donna aveva fatto il lavaggio del cervello ad Adele, che l’aveva irretita con chissà quali frasi e che l’aveva molestata; avrebbe urlato, chiesto ad alta voce al marito come facesse a rimanere così tranquillo alla notizia; avrebbe scosso la testa, pestato i piedi, gli avrebbe urlato che era un egoista, che non si curava della famiglia, che non gli importava davvero nulla; si sarebbe chiesta che cos’avrebbero pensato i parenti, al sapere di avere una lesbica in casa, se davvero Adele era lesbica; avrebbe proposto di mandare la figlia da una psicologa che le facesse capire che quella era solo una fase passeggera, che non era nulla, ma solo una costruzione che lei si era fatta in testa per colpa di quella Erica.
Adele però quella sera aveva ricevuto un messaggio di suo padre, poco prima della mezzanotte, che recitava poche semplici parole: “Buon compleanno, piccola. Spero che sia stato bello, ma sono sicuro che il fatto che l’hai passato con una persona così importante abbia avuto la sua parte, nonostante tutto.”
Adele aveva sorriso tra le lacrime che aveva versato, una volta realizzato che aveva fatto coming out, che era consapevolmente uscita di casa rischiando di non rientrarci più, e che aveva raccontato tutto ad Erica; e poi aveva appoggiato la fronte alla sua spalla, scuotendo la testa e abbracciandola.


*****



Il 25 giugno, Corso Buenos Aires era affollato già dalle quattro del pomeriggio, per la partenza del Pride.
Marco sorrise, stringendo la mano a Gabriele, che appena era tornato dalla Francia lo aveva rassicurato che avrebbe potuto stare da lui, perché coming out coi suoi genitori l’aveva fatto già da tempo – e per quanto suo padre all’inizio non l’avesse presa bene, sua madre era riuscita a mitigare il tutto asserendo che l’aveva già capito, e che non c’era poi nulla di male, ad avere un figlio gay – men che meno ad ospitare il suo ragazzo.
Sentire il calore di una famiglia composta da madre, padre, Gabriele e suo fratello Michele non era riuscito a cancellare del tutto il calore che Marco aveva provato stando a casa di Erica, Giada e Adele; aveva finito per iscriversi davvero al forum su internet del Gay Statale, e stava anche pensando di iscriversi ad Arcigay. Fatto stava che andava un giorno sì e uno no, con Gabriele, a fare visita a quelle tre, e che Erica l’aveva persino convinto a iscriversi a quel sito su cui pubblicava le storie, e a disquisire con lui su quelle che scriveva – sorprendentemente, scriveva anche su coppie gay e su coppie etero, e non scriveva nemmeno così male – prima di pubblicarle.
Marco ogni tanto su quel sito ci faceva un giro; ed era stato inevitabile, per lui, fare una smorfia, quando aveva sentito digressioni che Erica ogni tanto faceva sul fatto che inizialmente le scene gay e lesbiche fossero messe come avvertimento, quasi fossero qualcosa che poteva risultare un po’ fuori dal mondo; aveva rotolato gli occhi dall’esasperazione, a leggere certe storie quasi troppo melense su uomini gay che si amavano; e lo stesso aveva fatto quando vedeva avvertimenti che dicevano cose del tipo “questa storia contiene amore omosessuale, chi non gradisse questo tipo di relazione è pregato di lasciare la pagina”.
Da una parte non capiva perché l’amore omosessuale doveva essere ritenuto diverso da quello eterosessuale – dato che avvertimenti analoghi non li aveva trovati, nelle storie etero di cui aveva sbirciato l’inizio –; dall’altra, si chiedeva perché gli autori o le autrici di quegli avvertimenti, invece di invitare i lettori che non gradivano il genere a lasciare la pagina, non li invitassero a leggere e a ricredersi, per far avere loro dei ripensamenti sulla propria omofobia.
Ma sia lui che Erica avevano alzato le spalle, e avevano scosso la testa; di strada per combattere l’omofobia ce n’era ancora da fare; ed era lunga, tortuosa, piena di ostacoli, e senza scorciatoie. Richiedeva solo tanta pazienza e istruzione.
La cosa positiva che Marco vedeva era che era riuscito a fare coming out con gli amici che si era fatto nel corso di laurea, e loro non l’avevano presa poi così male; forse qualcosa poteva veramente cambiare, alla fine. Forse qualcosa sarebbe cambiato, lentamente.
Forse qualcosa stava già cambiando.
Sorrise, al vedere il padre di Adele che stava parlando con Erica; sorrise, al vedere i genitori – entrambi, nonostante fossero separati – di Erica parlare con Adele; sorrise, al vedere Giada e il suo ragazzo lì, entrambi a ridere e scherzare.
Sorrise, al vedere già in lontananza il braccio di Erica che circondava la schiena di Adele – finalmente, liberamente.
La madre di Gabriele sarebbe venuta, ma gestiva un negozio e doveva lavorare anche il sabato; ma aveva lasciato loro via libera, limitandosi a dire di stare attenta alle persone che avrebbero potuto scatenare casini, e di tenersi lontani; Michele e il padre di Gabriele, invece, avevano preferito stare a casa.
Marco sorrise, e si avviò verso Erica e gli altri, stringendo la mano di Gabriele.
E ritrovandosi a pensare che, sì, forse qualcosa stava già cambiando.



Note
*Miranda Priestly e Andy: sono le due protagoniste de Il Diavolo veste Prada. Miranda Priestly è un’impegnatissima direttrice di una rivista di moda, e Andy è una delle sue due assistenti (la seconda), cui Miranda demanda compiti difficili spesso proprio sul mondo della moda, di cui Andy è quasi del tutto ignorante (altri compiti sono, ad esempio, andarle a prendere il caffè della mattina e farglielo trovare sulla scrivania prima del suo arrivo, o andare a prenderle il pranzo su sua richiesta e assistere alla scena di Miranda che dice che mangerà fuori dopo che lei ha fatto i salti mortali per farle trovare il pranzo sulla scrivania all’orario giusto).
**Aishiteru: dal giapponese, “ti amo”.





L'angolo di madychan

Ok, come prima cosa direi di spiegare il perchè della nota a inizio storia (XD): si tratta in realtà di una specie di campagna che stiamo lanciando io e RuinNoYuki (cui forse collaborerà anche niebo) a sfondo ironico. Se avete letto la storia, è chiaro il perchè, no?
Se volete aderire alla campagna, siete liberissimi/e di farlo: cerchiamo adepti/e  :P Magari se precisate che la cosa è ironica è anche meglio (anche se penso che sia ovvio XD)
Al di là di questo, spero che i fan di tutte le altre storie che pubblico su EFP (e che sono long) non me ne vogliano, ma questa storia ha una genesi particolare: è nata per un tentativo di collaborazione con altre autrici sul tema dell'omofobia, di cui si sarebbe dovuto scrivere un racconto di massimo 15 pagine (se la trovate un po' stringata, è per questo ^^") che poi, passate tutte le fasi di selezione e di editing, avrebbe potuto essere pubblicata in un libro insieme alle altre, almeno a quanto ho capito io.
Mi pare chiaro che, se l'ho pubblicata qui, la mia è stata bocciata (purtroppo) ^^"
Motivo per il quale, se state leggendo le note (ma anche se non le state leggendo, eh) vi chiedo di lasciarmi un commento e dirmi che ne pensate. D'altronde, io sto qui per migliorare. :D
Al di là di tutto ciò, spero che vi sia piaciuta: ho voluto mettere diversi tipi di omofobia, e non solo quella verso sè stessi (di cui i tre protagonisti parlano comunque chiaramente): c'è il pensiero comune del fatto che i gay sono esperti nel vestirsi e nei trucchi (e non sempre è così ù.ù), c'è l'omofobia dei genitori, c'è persino un velo di discriminazione negli avvertimenti che si vedono in giro sulle storie.
Ma il messaggio che voglio lanciare è che basta informarsi, e basta capire che è solo amore. Che sia tra due persone di sesso diverso, o tra due persone dello stesso sesso, è indifferente. Si tratta di amore. Bona. E che una volta capito questo, il mondo può assumere un altro colore (ma anche tutti i colori dell'arcobaleno ;D ).
Altro... beh, mia madre ha accettato di leggerla, vedendo come comunque mi ero presa bene con questo progetto (miracolosamente, non ha detto nulla nemmeno quando le ho detto che avevo dormito due ore per finirla, dato che sono stata su fino alle 5 e mi sono dovuta alzare alle 7 e mezza perchè era il primo giorno di scuola di mia sorella e per tradizione ci andiamo sia io che lei, ad accompagnarla...), motivo per il quale ho praticamente fatto i salti di gioia e mi sono messa a piangere per la commozione, e ora aspetto con impazienza un suo parere (ovviamente sperando che sia positivo!). Intanto, chiedo anche il vostro :) Per favore, datemelo (*occhioni dolci mode*... no, non ci riesco XD).
Spero che vi sia piaciuta, per quanto possa essere corta e un po' stringata ^^
Un bacio a tutti quanti! (e un inchino di ringraziamento se avete letto anche le note :D)
xxx
madychan
  
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