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Autore: rosieposie    16/05/2006    7 recensioni
un piacevole scambio di persona tra una ragazza e un divo famoso, nella Hollywood a pochi giorni dalla consegna degli Oscar...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PRIMO GIORNO

PRIMO GIORNO

 

“Finirai per mangiartelo con gli occhi, Francesca”. La voce squillante di Loretta mi aveva ridestato dai miei pensieri. Mi si erano asciugate le labbra a forza di guardare a bocca leggermente aperta e con uno sguardo da pesce lesso il gruppetto di giornalisti che aveva assalito come un branco di avvoltoi il signor Russell Crowe appena aveva messo il naso fuori dall’ascensore. “Oh…”, seppi solo ribattere. Mi lasciai andare nella poltrona di pelle nella hall dell’hotel Hollywood Roosevelt e sospirai.

“Non lo stavo mangiando con gli occhi, come dici tu. È solo una celebrità e le celebrità suscitano sempre attenzione”; “Sì certo, come no?”, fu il suo commendo, chinando di nuovo il capo sulla sua copia di Rolling Stones. Ripresi anch’io la mia rivista e, nascosta dietro una pagina, sbirciai ancora Russell che rispondeva freddamente ad altre domande dei giornalisti, al fianco della moglie Danielle, che tradiva tutta la sua impazienza. Non potevo negarlo, la mia amica Loretta aveva ragione: lo divoravo con gli occhi.

 

Ero arrivata nella Città degli Angeli da qualche giorno per una vacanza all’insegna del “cerchiamo di dimenticare le delusioni d’amore”. Ero venuta a trovare la mia ex compagna di liceo, che abitava lì dopo essersi sposata con un americano di origini spagnole. E solo dal giorno prima il noto attore australiano aveva messo piede nel mio stesso hotel, teatro delle prime cerimonie dell’Oscar. Da subito avevo cercato in tutti i modi di avere di lui anche il più piccolo scorcio.

 

Non riuscivo a togliere lo sguardo da Russell, pur non avendo nulla del mio Principe Azzurro ideale. Ma tanto… che importanza aveva?

Probabilmente i giornalisti lo stavano bersagliando di domande sul suo arresto, avvenuto qualche mese prima per aver aggredito un receptionist in un hotel lanciandogli dietro un telefono. Lo vidi fare un gesto di saluto con la mano verso i giornalisti prima di allontanarsi con la moglie. Sicuramente era in città per la consegna degli Oscar, che si sarebbe tenuta dopo pochi giorni al Kodak Theater, sull’altro lato della strada. Sospirai. Possedevo tutti i suoi cd (che voce meravigliosa e sensuale!) e avevo visto quasi tutti i suoi film. Mi chiedevo spesso che persona fosse in realtà. Dubitavo che fosse realmente come lo dipingevano i giornalisti. “È arrivata la nostra guida, Fran. Esci dal mondo dei sogni… Beverly Hills, here we come!”.

 

Nel pomeriggio, rientrate dal tour delle case delle star e salutata Loretta, mi fermai a prendere una bottiglietta d’acqua in un negozio di alimentari gestito da una famiglia di filippini. Avevo appena messo il piede in ascensore e schiacciato il pulsante per la chiusura delle porte che un “La prego, lo fermi!” mi costrinse a mettere una mano di fronte alla fotocellula per riaprire le porte. “Sale o scende?”, chiesi senza guardare troppo bene la donna che era salita. “Salgo”. Solo allora la riconobbi. Era Danielle, la signora Crowe, elegantissima nel suo tailleur blu. Io stavo scendendo (la mia camera era una cabana, vicino alla piscina), ma non seppi resistere. “Che piano?”, “Ultimo”, “Anche il mio”, mentii.

 

Non seppi trattenermi, volevo sapere quale fosse la loro camera. Danielle appariva imbronciata e impaziente. La consideravo una bella donna. Vedendola nelle foto sui giornali, avevo sempre pensato che avessimo un profilo molto simile, ma il colore dei capelli (lei bionda, io mora) ci distingueva nettamente.

 

Danielle appariva imbronciata e impaziente. L’ascensore aveva fatto appena un paio di piani che sentimmo un forte scossone. Ci bloccammo. “No, non è possibile! Anche questa!”, sbottò Danielle. Io cercavo di non pensarci, pur soffrendo di claustrofobia. Schiacciammo il pulsante di allarme. Una voce ci avvisò di stare calme, i soccorsi sarebbero arrivati al più presto. “Calme? Ma come è possibile calme?”. E Danielle prese a prendere nervosamente a pugni la pulsantiera. “Non credo che questo sia il modo migliore per…”, “Non ne posso più!”, sbottò. Eravamo bloccate solo da un paio di minuti, dopotutto.

 

Per la prima volta si voltò a guardarmi, anzi, per la verità mi squadrò da capo a piedi. “Noi due ci assomigliamo”. Prese il mio viso tra le mani e lo girò prima a destra e poi a sinistra. “Ehi, cosa sta facendo?”, “Senti… ti farebbero comodo duemila dollari?”.

 

Ero seduta sullo sgabello di un parrucchiere. La ragazza stava raccogliendo i miei capelli neri sparsi sul pavimento. Guardai la mia immagine riflessa nello specchio. Di lì a poco mi sarei vista bionda. “dobbiamo fare anche un giretto dalla mia estetista. Quelle sopracciglia fanno davvero schifo! Ovviamente a lei dovrò accennare qualcosa ma è una ragazza fidata”. Era stata Danielle a parlare, seduta su una poltrona, mentre sfogliava una rivista. Ancora non mi capacitavo dell’accaduto. Avevo accettato la proposta di quella donna di prendere il suo posto per qualche giorno in cambio di soldi. Beh, per dirla tutta avrei accettato anche gratis, piuttosto di conoscere Russell. Dubitavo che la cosa potesse funzionare, in realtà. Anche con un altro look, Russell si sarebbe accorto della differenza, ma Danielle mi aveva assicurato che lei e il marito erano in rotta da un po’. E Loretta era fuori città per qualche giorno. “Ormai ci parliamo molto poco”, si era giustificata Danielle. E nella penthouse al Roosevelt che era stata di Gable e la Lombard dormivano in letti separati. Non si sarebbe mai accorto dello scambio, mi aveva rassicurata. E poi si trattava solo di pochi giorni. Mi aveva dato l’impressione che ci fosse un altro uomo. Pazza, sei una pazza, continuavo a ripetermi. “Per i vestiti non c’è problema, portiamo la stessa taglia!”.

 

Nell’ascensore, sola, salii fino all’ultimo piano, guardandomi allo specchio, cercando di capire chi fosse quella donna riflessa. Ero io? Oppure no? Pazza, pazza. Presi dalla borsetta la chiave magnetica ed entrai. Mi schiarii la voce. “Sono tornata!”, dissi, con un tono di voce deliberatamente basso. Nessuna risposta. Meglio così! Avevo un po’ paura di incontrarlo. Paura mista a desiderio. Iniziai a guardarmi intorno per prendere confidenza con l’appartamento. Due camere da letto si affacciavano su un salotto comune. Aprii l’armadio della prima camera e vidi alcuni completi da uomo scuri, tute altrettanto scure e altri abiti sportivi. Sorrisi vedendo la felpa bianca con la scritta North Bergen che avevo visto indosso a Russell in molte fotografie apparse sui giornali.

 

Richiusi subito l’armadio. Mi sentivo in colpa a violare così la sua intimità. Mi recai nell’altra camera. Mi buttai sul letto e dopo un’esitazione iniziale accesi il televisore. Su un canale a pagamento trasmettevano uno dei suoi ultimi film e mi misi a guardarlo. “Ah, sei già tornata”. Ero così presa dalla trama che non udii Russell entrare. Mi sorprese la sua calda voce profonda, che questa volta non proveniva dal TV di fronte a me ma dalle mie spalle. Mi voltai e, vedendolo, mi sentii in preda al panico. Lasciai cadere il telecomando, con un’agitazione tipica di un ladro colto in flagrante. Ci chinammo entrambi simultaneamente per prenderlo. Le nostre mani si sfiorarono e io istintivamente mi ritrassi.

“Credevo non ti piacessero più i miei film”, disse Russell, gettando uno sguardo allo schermo. Il mio cuore batteva all’impazzata. “Non c’era nient’altro”, ribattei, cercando di indovinare cosa avrebbe risposto la moglie. Russell aprì la bocca per dire qualcosa ma la richiuse subito. Annuì e uscì dalla camera. Rimasta sola mi guardai attorno. Non sapevo cosa fare. Sentii la TV accendersi in salotto. Sbirciai fuori dalla porta senza farmi vedere. Russell era seduto in poltrona, di fronte al televisore. Indossava pantaloni scuri e una camicia azzurra, portata fuori dai pantaloni. Trovavo che l’azzurro lo facesse apparire ancora più bello. Io suo sguardo però era perso nel vuoto, triste. Ero combattuta. Quel suo sguardo mi invitava a raggiungerlo per fargli compagnia, stimolarlo in una conversazione, ma temevo che stando a stretto contatto potesse capire che non ero Danielle.

 

Bussarono alla porta. Sussultai. Russell si voltò di colpo e mi vide. “Vado io”, dissi, imbarazzata. Mi ritrovai davanti un uomo sulla cinquantina, non tanto alto, stempiato. “Ah, ciao Dany. Lui c’è?”. Chissà chi era! “Sì”, mormorai. Mi scostai per lasciarlo entrare, poi mi chiesi subito se avessi fatto bene, se Russell avesse davvero voluto vederlo. Tornai nella mia camera, ma mi nascosi dietro la porta per ascoltare la conversazione. Non volevo essere curiosa, cercavo solo un modo per conoscere meglio la situazione e il mio ruolo. L’uomo doveva essere il suo manager o qualcosa del genere. Parlarono del film, degli Oscar e del famoso lancio del telefono.

 

“Non preoccuparti. Una pubblicità negativa è sempre meglio di nessuna pubblicità”. Lo sguardo di Russell era sempre vago e triste. “Ci vieni stasera al party, Russ?”, “No, Mickey. Non ho voglia di vedere nessuno”; “Ehi, ma che ti prende campione? Questo non è certo il momento per eclissarsi!”, “Va tutto bene, il lavoro va alla grande. È solo che… non sono in vena, tutto qui”. Per la prima volta si voltò a guardare quel Mickey negli occhi, che appariva rassegnato. “Ok, come vuoi. Ma domani sera devi assolutamente venire al party della Universal”, disse, avviandosi verso la porta d’uscita. “Anche tu, Dany”, disse, indicandomi. Cavoli! Mi aveva vista! Divenni rossa come un peperone quando Russell si voltò e mi vide. “Scusatemi, volevo bere qualcosa”, farfugliai e tossii. “Questo mal di gola non mi dà tregua”. “Domani voglio vedervi assieme, non accetto scuse”, continuò prima di uscire. Rimasi lì, un po’ impacciata, senza sapere che fare. “Non avevi sete?”, mi disse Russell. “Ah, sì”. Mi avvicinai al frigobar e presi una bottiglietta d’acqua. “come mai non esci stasera?”, mi chiese. Mi bloccai. Forese Danielle aveva qualche appuntamento che io avrei dovuto sapere? “Perché dovrei uscire”, ribattei, bevendo dalla bottiglia come amavo fare. “Perché sei sempre fuori la sera. E non so nemmeno dove vai…”, aggiunse, con voce sempre più bassa.

 

Scolai velocemente più di metà bottiglia. “Non ti avevo mai vista bere a canna. Quando lo faccio io mi rimproveri sempre!”. Divenni rossa come un peperone. Evitai di rispondere. “E tu perché non esci?”. Che bella conversazione che stavamo facendo, pensai. Così interessante! “Non ne ho voglia”, fu la sua risposta. Annuii. Non era certo un uomo di molte parole. “Beh io ho fame. Scendo al ristorante a mangiare qualcosa”. Russell fece un gesto con la mano. “Fa pure, io ordinerò qualcosa al room service”. Tornai in camera mia, presi la borsetta, pi cambiai idea e la rimisi sul comodino. Tornai di là. “Ripensandoci non ho voglia di scendere. Ordinerò qualcosa anch’io al room service”. Non so cosa mi fece cambiare idea. Semplicemente non volevo lasciarlo solo, desideravo stargli vicino, fargli compagnia, sperando che me ne desse la possibilità. Mi avvicinai al telefono, presi il menu del ristorante e gli diedi un’occhiata veloce. Ormai lo conoscevo a memoria. “Un double texan burger con patata al forno. E una Bud. E tu?”, chiesi porgendogli il menu. Lui mi guardò con occhi stralunati. “Sei sicura? E la tua dieta?”. Ecco, avevo commesso già due errori in meno di cinque minuti. Inizio promettente! “Oh, beh, sai com’è. Si cambia a volte!”. Presi in mano il telefono. “Allora?”. Per lui ordinai un quarter pound, patatine e una birra.

 

Cenammo davanti alla TV. Io seduta per terra, incollata allo schermo a guardare Chi vuole essere milionario, lui sulla poltrona, da cui non si era più mosso. A volte sentivo i suoi profondi occhi azzurri su di me e allora il mio cuore iniziava a correre dentro il mio petto. “Non ricordo di averti mai vista ordinare una cena in camera”. Mi voltai verso di lui. Era piegato leggermente in avanti, con le braccia appoggiate alle gambe. Osservai il suo viso, i suoi occhi, il suo labbro superiore un po’ nascosto dalla barba. “A volte…”, iniziai, reprimendo un brivido. “Sì, lo so. Si cambia”, mi interruppe, con il tono di chi non ci credeva. Si alzò. “Io vado a dormire. Vieni anche tu domani?”, “Alla cena? Sì certo”, “Intendevo alla cerimonia”. Cerimonia? Che cerimonia? Non potevo chiederglielo, altrimenti sarei scesa ancora nella scala delle sue simpatie! “Ma certo! A che ora?”, “Alle 14. dopo ci sarà un piccolo rinfresco al chiuso. Buonanotte”. Me ne andai poco dopo in camera mia e finii di guardare la TV nel mio letto.

 

SECONDO GIORNO

 

Mi svegliai l’indomani con i raggi del sole che facevano capolino da dietro la tenda. Mi stiracchiai, beata. Poi mi riaffiorarono alla mente gli avvenimenti del giorno prima e provai di nuovo un senso di colpa. Forse dovevo alzarmi, andare da Russell e raccontargli tutto. Se la sarebbe poi vista sua moglie. Ma non fui capace di farlo. Quegli occhioni tristi della sera prima mi avevano teneramente colpito. Pensai che, se avesse saputo, il gesto di Danielle lo avrebbe ulteriormente ferito e forse per il suo bene era meglio continuare a fingere.

 

Mi alzai e, con ancora indosso il pigiama, andai in salotto. Notai il carrello del room service e piatti per due, ma non quelli della sera prima. Mi guardai attorno, accesi la TV e udii subito dei passi che si avvicinarono. “Bene sveglia. Dormito bene?”. Il tono di Russell tradiva dell’imbarazzo. Annuii. “Sì e tu?”, “Non molto. Troppo agitato. Ti va un french toast?”, chiese, scoperchiando i piatti. “Oh, sì, con tanta panna”. Ci sedemmo al tavolino. Riempimmo i nostri piatti, in silenzio. Tenevo il capo chino sulla mia colazione, ma di tanto in tanto lo alzavo per guardare di sottecchi l’uomo di fronte a me. Mi perdevo nel colore caldo dei suoi capelli e nei suoi piccoli occhi azzurri, nelle ruchette attorno agli occhi e nel profilo delle labbra. A un certo punto i nostri sguardi si incrociarono e io arrossii. Mi sentivo come Kevin Klein in Dave. Chissà se avrebbe capito che non ero sua moglie ammirandomi le gambe o guardandomi fare la doccia!

 

“Coraggio, non ti devi agitare troppo. Devi solo presentare agli Oscar. Non sei candidato!”, scherzai. “Lo sai cosa mi dà da pensare”. Mi sentii un verme, proprio come se fossi stata davvero sua moglie. Avrei tanto voluto chiedergli di più, domandargli di più, raccontargli di me. “Ho un appuntamento con Mickey”, disse all’improvviso. “Mi prenderà tutta la mattinata. Vengo a prenderti alle 14, per andare alla cerimonia. Va bene?”, “Ma certo!”. Annuii sorridendo. “Come mi consigli di impegnare il tempo stamattina?”. Non avevo voglia di lasciarlo andare via, volevo continuare a parlare con lui. “Cosa?”. La mia richiesta lo aveva colto di sorpresa. Non sapevo come comportarmi, non sapevo nulla di com’era Danielle. “Non ti va di fare shopping?”, “Naaah. Ne ho fatto già abbastanza. Me ne starei volentieri in piscina a leggere un buon libro, ma ho finito la mia scorta”, “Leggere?”. Altra gaffe. Forse a Danielle non piaceva la lettura. “Aspetta un attimo”. Corse in camera sua e ne uscì poco dopo con un libro. Me lo porse. “Il profeta. Ho appena finito di leggerlo e mi ha colpito molto. Dà da pensare”. Mi sorrise e io gli sorrisi di rimando. Era la prima volta che lo vedevo sorridere, rivelando i suoi denti bianchi. Era splendido vederlo più sereno. Il mio cuore si allargò. “Allora…”, “Allora…”, feci eco io. “Ti vengo a prendere nel primo pomeriggio. Buona lettura”, disse, prima di andarsene.

 

Dopo pranzo passai al setaccio l’armadio di Danielle, cercando qualcosa che fosse adatto. Ma adatto per cosa? Una cerimonia all’aperto per chi sa che cosa. Scelsi un tubino glicine e un giacchino di jeans. Scesi ad aspettare Russell nella hall. Arrivò con 10 minuti di ritardo. Il mio cuore iniziò a battere forte quando lo vidi. Era ancora vestito come la mattina, completo scuro e tshirt a girocollo di una tonalità più chiara. “Sei in ritardo”, lo rimproverai, scherzosa. “Hai ragione. Si erano affezionati a me, non volevano lasciarmi andare! Per fortuna non dobbiamo andare lontano. Vieni, l’auto ci aspetta nel parcheggio”. Scendemmo le scale e uscimmo nel parcheggio, dove trovammo ad attenderci una limousine bianca. “Adoro le limo bianche!”, commentai. Ero salita in limousine una volta sola e non l’avevo più scordato. Mi sorrise. “Anche a me”. Il valletto aprì la portiera e ci fece salire. L’auto partì, uscì dal parcheggio dell’hotel e girò a destra. Fece il giro dell’isolato e, svoltando ancora a destra, si immise nuovamente sull’Hollywood Boulevard.

 

Percorremmo il viale fino quasi a metà e ci fermammo, nei pressi di una piccola folla. “La stella”, mormorai, capendo per la prima volta di quale cerimonia si trattasse. Scendemmo dall’auto. Mi sentivo emozionata per lui, ma ero contenta. Russell si avvicinò alle sue fan per un piccolo bagno di folla. Ci furono un paio di discorsi seguiti dalla deposizione della stella. Russell sorrideva e io mi sentivo fiera di lui, come una madre oppure proprio come una moglie. “Una foto con sua moglie, prego”, gridarono dei giornalisti. Mi sentivo tra l’imbarazzo e l’orgoglio. “Vieni, cara”, mi sussurrò all’orecchio. Sentii un fremito quando, pronunciando quelle parole, mi sfiorò il viso con la sua barba. Mi chinai accanto a lui e Russell mi cinse delicatamente la vita. Il mio cuore riprese a martellare dentro il mio petto. Ero così vicina a lui che, in mezzo a tutta quella confusione, riuscivo a sentire il suo caldo respiro. E la cosa mi piaceva da morire.

 

Dopo le foto, Russell fu accerchiato dai giornalisti. Poche domande riguardavano il suo ultimo film, molte l’uomo che aveva cercato di aggredire col telefono. Da qualche parte mi arrivava l’eco delle parole di Madonna in Sorry. Sentivo la rabbia crescere dentro di me. Perché quella gente non lo lasciava in pace? Poi un rappresentante della stampa si rivolse a me. “Signora Crowe, come giudica il gesto di suo marito?”. Non ne potevo più, cercai di trattenermi… Sbottai. “Come lo giudico?”. Allargai le braccia. “Ma guardatevi! È tutto questo che sapete fare? È solo questo che per voi fa notizia? Mio marito diventa interessante solo quando lancia un telefono contro qualcuno, non si presenta alle interviste o ruba la moglie a qualcun altro? Non vi interessa l’uomo che c’è dietro? L’amore per la sua famiglia e per le cose semplici? Questo no, non fa notizia vero?”.

 

Avevo riversato queste parole tutte d’un fiato, presa dalla rabbia, che ora si era spenta dentro di me. Guardai Russell che mi osservava con dolcezza. Sentivo le mie gote in fiamme. Gli sfiorai la mano. “Io me ne vado”, sussurrai. Mi allontanai tra la folla verso l’hotel. Attraversai gli incroci a kamikaze ed, entrata in albergo, mi sedetti a riprendere fiato sulla panchina nell’ingresso secondario sul Boulevard. “Cosa ho fatto, eh Charlie?”, dissi alla statua di Chaplin, seduta accanto a me. Mi sorrideva e io mi misi a ridere. Ma dove l’avevo trovato quel coraggio? Io , di solito sempre riservata e schiva. Forse nello stesso posto dove avevo trovato quello di prendere il posto di un’altra persona. In fondo al mio cuore. Rimasi seduta lì fin quando vidi arrivare l’ascensore e uscire Russell dalle sue porte. Si guardò attorno nella hall poi mi vide. Mi mancava il respiro mentre lo vidi avvicinarsi a me.

 

“Ero salito in camera ma non c’eri”. Il modo in cui lo disse mi ricordò quello che aveva avuto mio padre dopo che aveva ritrovato il mio cane quando era scappato, il giorno del mio tredicesimo compleanno. “Ero qui, con Charlie”, gli sorrisi e lui si sedette accanto a me, appoggiando i gomiti sulle gambe e chinando la testa in avanti. Rimanemmo in silenzio. Anche se non parlava, mi piaceva averlo accanto, mi confortava. “Allora Charlie, hai tenuto degna compagnia a questa signora?”, chiese alla statua, intavolando una finta conversazione. “Dice che ha fatto del suo meglio e vuole sapere come si sente la signora adesso”. Risi. Non me l’aspettavo. Si preoccupava per me quando era lui a essere stato bersagliato. “Digli che sto bene, che sto meglio”. Un’altra pausa di silenzio. “Ti va sempre di venire a cena?”. Annuii. “Dove si va?”, chiesi, senza timore di destare dubbi. “Da Spago”.

 

Pensai che la Universal avesse riservato tutto il ristorante per festeggiare l’ingresso di Russell nella Walk of Fame perché quando arrivammo persi il conto delle persone che lui salutò e a cui strinse la mano. Prendemmo posto a un tavolo da quattro assieme a Mickey e consorte nella sala interna, da cui potevo benissimo vedere i cuochi al lavoro dietro la vetrata. Le luci erano basse e facevo fatica a esaminare la lista dei vini, che poteva benissimo fare concorrenza alla Bibbia. “Preferenze?”, “Vorrei un bicchiere di Zinfandel”, “Solo un bicchiere?”, ammiccò Russell. “È anche uno dei miei preferiti, ottima scelta”. Gli sorrisi e lui ricambiò. Mi sentivo quasi felice. Cenammo con antipasto di mare, garganelli all’aragosta e salmone dell’Alaska al forno. “Scusatemi, ma il dovere mi chiama”, fece Russell, prendendo il pacchetto di sigarette dalla tasca interna della giacca. “Avvisatemi quando arriva il dolce”.

 

“Allora Dany, come trovi la Città degli Angeli in questa stagione?”, mi chiese Mickey. “Sorprendente”, risposi. Non avevo voglia di parlare con lui. Mi scusai e mi alzai. Raggiungi Russell fuori dal ristorante. Fumava da solo. Era così strano non vederlo in compagnia. Mi sorrise e si avvicinò. Sentii le piacevoli note di Crazy in love di Byoncè uscire da un’auto che i valletti stavano parcheggiando in quel momento. So crazy in love…

 

“Hanno già portato il dessert?”, “No, ma avevo bisogno anch’io di una boccata d’aria”, “Io avevo bisogno invece di una boccata di fumo”, scherzò. “Ti stai divertendo?”, continuò. “È una serata piacevole”. Buttò la cicca per terra, la schiacciò col piede e se ne accese un’altra. “Grazie, per oggi”, “Di cosa?”, “Di aver preso le mie parti”, “Non ho fatto nulla di speciale, ho solo espresso i miei pensieri”, “Ma è stata la prima volta che i tuoi pensieri erano pieni d’amore nei miei confronti” e così dicendo mi sfiorò una mano. Le sue mani erano calde e forti, potevo vedere le vene in evidenza, così mascoline. Provai un brivido. Mi sentivo così attratta da quell’uomo e provai un impulso irresistibile di dirgli chi fossi in realtà, di smettere con le bugie. “È amore che ti meriti”, sussurrai. Mi sfiorò la guancia con un dito. “Stai tremando, piccola”. Piccola, com’era sensuale quel termine pronunciato dalle sue labbra. “Ho freddo… forse è meglio che rientri”, “Io finisco la mia sigaretta”.

 

Di ritorno da Beverly Hills, in auto, non parlammo. La mia mente andava al brivido che avevo provato quando mi aveva sfiorato la guancia. Lo guardai di sottecchi e notai che mi stava guardando le gambe. Ripensai a Kevin Klein. Sorrisi.

 

“Balla con me, ora”, fu la prima cosa che mi disse quando entrammo nella penthouse. “Come?”, “Balla con me”, ripeté. La sua voce mielosa mi fece rabbrividire. Si avvicinò all’impianto stereo, scelse un CD dal tavolino e lo fece partire. Poi si avvicinò di nuovo a me e mi sfilò la giacca jeans, mentre nella stanza iniziavano a riecheggiare le note di Dream a little dream of me. La giacca cadde per terra e le sue caldi mani possenti mi accarezzarono le spalle. “Aspetta…”. Corsi verso la finestra e chiusi gli scuri, in un tentativo imbarazzato di celargli i dettagli del mio viso e del mio corpo. “Vieni qui”. Mi aprì la lampo dell’abito. Un brivido attraversò il mio corpo quando sentii le sue mani virili sulla mia schiena. Il vestito scivolò per terra e andò a fare compagnia alla giacca. Poi mi prese le mani e le guidò sulla sua camicia, sbottonando i primi bottoni. Mi lasciò le mani e finii di aprirgli la camicia. Mi baciò, con le labbra leggermente aperte. Sapeva ancora di buon vino. Mi piaceva il contatto con la sua saliva. Mi prese il labbro inferiore con le sue e me lo mordicchiò leggermente. Poi mi prese in braccio e mi condusse in camera sua. Non avevo più paura, né più voglia di dirgli la verità. Desideravo solamente amarlo. Anima e corpo. Più di ogni altra cosa.

 

Mi adagiò sul letto. Sentii le sue mani armeggiare con il reggiseno. Mi sfilò le mutandine e mi dette un affettuoso bacio sull’ombelico. Russell mi guardò con tenerezza e ammirazione. Quasi potevo sentire il suo sguardo accarezzarmi i lineamenti del mio corpo. Poi mi si avvicinò e mi strinse a sé. Cercai di assaporare la sensazione dei miei seni premuti contro il suo petto, mentre Russell prese a baciarmi teneramente la spalla destra, l’interno del collo e più su verso l’orecchio. Mi accarezzò la schiena, scese verso i fianchi e seguì la rotondità delle mie natiche. “Quanto sei bella!”, mormorò, non smettendo di accarezzarmi il collo con piccoli e affettuosi baci. A quelle parole, ogni più piccola resistenza che avevo avuto fino a quel momento scomparve del tutto per abbandonarmi completamente, ma consciamente. Cercai la sua mano e la guidai fino al mio seno, invitandolo ad accarezzarmi anche lì. Poi sentii la sua bocca mordicchiarmi il lobo e la sua lingua affondare nell’orecchio. Mi lasciai andare a un gemito di piacere e mi strinsi di più a lui. Con un po’ di inesperienza e goffaggine, gli sfilai i pantaloni e presto ci trovammo nudi l’uno nelle braccia dell’altra, coperti solo da una molteplicità di emozioni e sensazioni. “Ti voglio, piccola, fa l’amore con me”, mi sussurrò all’orecchio. Premetti il mio corpo contro il suo, accarezzandolo dolcemente in ogni dove, le spalle, la schiena, le natiche, cercando di prendere confidenza con la sua virilità. Le labbra di Russell esploravano intanto il mio corpo, dapprima con piccoli e teneri baci, poi con sempre più passione. “Sei così bella”, mi disse, con voce strozzata dal desiderio, mentre con la bocca scendeva piano verso il mio seno, il ventre e le cosce. Russell mi accarezzò i capelli teneramente e posò una mano sulla mia gola, premendola leggermente. Poteva così sentire il mio cuore battere all’impazzata. E quando entrò in me, mi parve quasi di morire, travolta da un turbine di emozioni che mi si avvicendavano dentro come in un’esplosione. E l’esplosione ci fu, così travolgente, per entrambi. Dopo, rimanemmo così abbracciati, fin quando sentii le palpebre pesanti e pian piano scivolai in un calmo e dolce sonno.

 

 

TERZO GIORNO

 

Mi svegliai con i primi raggi del sole che filtravano dagli scuri. Russell era già sveglio, accanto a me, e mi sorrideva. Ricambiai il sorriso e mi avvicinai per baciarlo. “Buongiorno. Come è stato il risveglio?”, “Uno dei più belli della mia vita”, risposi. Misi la testa sul suo forte petto e glielo accarezzai. Adoravo il petto negli uomini. Potevo sentire il suo cuore e per un attimo feci finta che stesse battendo per me. “Cosa ti va di fare oggi?”. Appoggiai il capo alla mano sinistra e iniziai a guardarmi intorno, pensierosa. “Mi piacerebbe andare al mare… e anche al luna park”. Russell prese a tracciare il contorno delle mie labbra con un dito. “Possiamo fare tutte e due le cose”. Mi mordicchiò teneramente un capezzolo, facendomi il solletico. Risi.

 

Noleggiamo un’auto al concierge, una Pontiac Vibe decappottabile. Adoravo le Pontiac. Guardavo Russell mentre guidava al mio fianco verso l’oceano. I capelli scompigliati dal vento e gli occhi coperti da occhiali da sole scuri. “Sei sexy con gli occhiali”, “Quando non lo sono per te?”, “Domanda retorica!”. Lasciammo l’auto nel parcheggio sotto il pier di Santa Monica. Ci togliemmo le scarpe e iniziammo a camminare in riva all’oceano. A volte dovevamo correre precipitosamente verso l’interno per non farci bagnare le gambe dalle onde. Altre, dovevamo schivare dei bambini intenti a giocare con la sabbia o a pallone. La spiaggia era tranquilla, qualcuno che prendeva il sole, qualcun altro che faceva surf. Russell mi avvolgeva le spalle con un braccio. Com’era bello in jeans e camicia bianca! Continuano ad ammirare il suo profilo. “Mi canti una canzone?”. Mi baciò sui capelli. “Ma certo! Faccia una selezione dal jukebox, signora!”, “Other ways of speaking. Tra le tue canzoni è quella che amo di più”.

 

You know there’s other ways of speaking

Words are just the deep end

I’m not good at keeping your secrets from you

 

Sussurrava quelle parole al mio orecchio, mentre eravamo abbracciati. Le fresche onde che ci accarezzavano i piedi, le sue calde labbra che a volte sfioravano la mia pelle. “Ti va di fare un giro sulla ruota panoramica?”. Alzai lo sguardo sull’enorme ruota che troneggiava nel luna park sopra il pier. “Mi piacerebbe ma…”, “Ma?”, “Ho paura di soffrire di vertigini”, “Non ti preoccupare. È meno alta di quel che sembra. Eppoi ci sono io”. Mi prese per mano e risalimmo sul molo. Russell acquistò due biglietti e prendemmo posto sulla ruota. “Dovresti tenere gli occhi aperti. Così ti perdi il paesaggio”, disse Russell quando la ruota partì.

 

Mi strinse la mano e io timidamente aprii un occhio. Quando presi coraggio aprii anche l’altro. L’oceano appariva di fronte a me in tutta la sua bellezza. “Visto? Non c’è niente di cui avere paura”, “E’ perché tu sei al mio fianco”. Mi dette un bacio sui capelli. “Domenica sera mi accompagni alla cerimonia?”. Questa volta sapevo di quale cerimonia stesse parlando! “Come potrei non essere al tuo fianco?”. Sorrise.

 

“Mi piacerebbe avere un peluche”, dissi quando tornai coi piedi per terra. “Agli ordini mia signora! Quale bancarella preferisce?”, “L’ultima in fondo. Ho visto che hanno Winnie the Pooh. Sempre che il mio cavaliere sappia sparare col fucile!”, ammiccai. Russell totalizzò quasi il massimo del punteggio, regalandomi un peluche che facevo fatica a tenere in braccio, ma di cui andavo terribilmente fiera mentre passeggiavamo sul molo.

 

Quella notte dormimmo ancora assieme. In verità, riuscii a dormire ben poco. Osservato nella penombra il corpo di quell’uomo che dormiva tranquillamente di fianco a me. Non era il mio uomo, dovevo farmene una ragione. Presto sarei tornata alla mia vita. Il fatto era che me ne stavo innamorando. Dopotutto, c’era crisi tra lui e sua moglie, quindi perché no… “Coraggio, dormi”, mi dissi.

 

QUARTO GIORNO

 

“Martini con ghiaccio, signora”, mi disse il cameriere, porgendomi il mio drink in piscina. Lo pagai in contanti. “Non desidera caricarlo sulla camera?”. No, non volevo. Quello che riuscivo volevo pagarlo coi miei soldi. Russell era andato a fare jogging, avevo appuntamento con lui nella penthouse alle 11.30. Finii il mio drink e salii. “Tesoro, un signore in piscina mi ha detto che…”. Finii la frase a metà, trovandomi di fronte a un’altra me appena entrata in salotto. Danielle stava fumando nervosamente accanto alla finestra e Russell era appoggiato al mobile del televisore.

“Volevo fare un salto al teatro per vedere come procedevano i preparativi per domani sera, quando ho visto mia moglie da Gucci… con un altro uomo…”.

 

Guardò Danielle, poi me. “Pensavo di averla lasciata in piscina”. Mi si avvicinò. “Solo che quella non era mia moglie…”, sussurrò al mio orecchio. “Ma guardati, Russell! Sei patetico”, sibilò Danielle, con fare sprezzante. “Fuori!”, gridò lui. “Fuori di qui, tutte e due!”. Corsi in camera mia e, senza dire una parola, raccattai quelle poche cose che mi appartenevano. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime. Russell mi raggiunse mentre mettevo la mia roba in una borsa. Ci guardammo ma non aprimmo bocca. Mi lasciò uscire dalla sua vita silenziosamente. Abbandonai lì il mio Winnie, assieme ai miei ricordi. Assieme al mio amore.

 

QUINTO GIORNO

 

Loretta entrò nella caffetteria guardandosi attorno con aria spaesata. Poi mi notò a un tavolino accanto alla vetrata e mi raggiunse. “Man, Fran. Quasi non ti riconoscevo con i capelli così corti”. Prese posto di fronte a me. Io le donai un sorriso triste. “Dovevi vedermi fino a ieri, coi capelli biondi. Oggi non ce la facevo più”. Gli occhi mi si riempirono di lacrime e scoppiai a piangere. Veri e propri singhiozzi smossero il mio corpo. “Oh, tesoro. Hai preso proprio una bella batosta, non è vero?”. Cambiò posto e si sedette accanto a me. Mi abbracciò. “Non posso lasciarti sola qualche giorno e guarda che mi combini!”

 

“Io lo amo”, piagnucolai. Era la prima volta che lo dicevo ad alta voce e la cosa mi fece uno strano effetto. Loretta mi sorrise ancora. “Sembri una liceale alla sua prima cotta!”. Quell’associazione mi fece divertire e risi. Piangevo e ridevo come una bambina. Non riuscivo a parlare, tra i singhiozzi e le risate. Poi finalmente le parole uscirono dalla mia bocca. “Gli ho mentito e l’ho tradito, esattamente come sua moglie. La fedeltà non è solo andare con un altro uomo, ma anche venire meno alla fiducia riposta nell’altro e all’amore su tutti i livelli. Mi sono resa complice di un inganno. Con me aveva ritrovato il sorriso e per colpa mia l’ha riperso. Se solo non avessi accettato…”. Scoppiai di nuovo a piangere. Loretta mi abbracciò. “Se tu non avessi accettato, non l’avrebbe più ritrovato”.

 

Alzai lo sguardo verso il televisore agganciato sopra il bancone del bar. Una coppia sorridente di presentatori vestiti in abiti supereleganti stava intervistando i primi arrivati sul red carpet. Al di là della strada… I miei occhi si riempirono di nuovo la lacrime. Pensai a Russell, a come avrei voluto essere al suo fianco, quella sera, come promesso. Ma più di tutto volevo averlo accanto a me, udire la sua calda voce avvolgente, sentire il suo respiro sul mio collo, accarezzare i suoi forti capelli, saggiare la sua bocca con la mia.

 

Quella sera nemmeno cenai. Mi infilai sotto le coperte senza accendere il televisore nemmeno una volta. C’era una parte di me che avrebbe voluto vederlo, anche solo sullo schermo, ma prevalse quella razionale, che riteneva fosse meglio non soffrire oltre. Dopo pochi giorni sarei di nuovo salita sull’aereo per tornare a casa, dove forse, riprendendo la vita di tutti i giorni, sarebbe stato più semplice dimenticare quell’avventura nella Città degli Angeli.

 

SESTO GIORNO

 

Quando mi svegliai l’indomani avevo mal di testa, gli occhi ancora gonfi dal pianto. Mi stiracchiai. Avevo sognato di essere al mare e di nuotare. Avevo proprio voglia di fare una bella nuotata, di sguazzare sul dorso, osservando il cielo infinito sopra di me, lasciandomi cullare dalle onde. Mi accontentai di una doccia calda, che mi parve interminabile. Il piacevole contatto con l’acqua mi ricordava Russell. Era calda, ma protettiva. Vigorosa, ma vellutata. Mi infilai l’accappatoio e, senza asciugarmi i capelli, uscii sul balcone. Era presto ma in piscina c’era già molta gente. Forse potevo accontentarmi di quella vasca, pensai.

 

Sentii bussare timidamente alla porta. Indugiai. Forse era la camera accanto. Dopotutto avevo messo fuori il cartello Non disturbare. Tornai a guardare la piscina, assorta. Bussarono di nuovo. Mi alzai, stringendomi l’accappatoio al petto. Guardai nello spioncino, come è buona norma in tutti gli alberghi americani prima di aprire. Corrugai la fronte. Guardai una seconda volta. E una terza.

 

Dallo spioncino vidi il mio Winnie the Pooh, che muoveva una zampa, in segno di saluto. Mi sentii il cuore in gola. Aprii la porta. Russell scostò il pupazzo dal suo viso e mi guardò con occhi tranquilli. Anzi, quasi sereni. “Buongiorno… Francesca. Giusto?”. Il suo tono era esitante. “Fran, preferisco. Buongiorno”, “Fran”, ripeté. Imbarazzo. “Posso entrare?”. Annuii e mi scostai per lasciarlo entrare. Seguì una pausa di silenzio che a me parve interminabile. Perché era venuto da me? Io volevo solo dimenticarlo.

 

“Hai lasciato… hai lasciato questo”, disse porgendomi Winnie. Lo presi in mano. Non sapevo cosa dire. “E’ tuo, l’ho vinto per te”, “L’hai vinto per tua moglie”, ribattei. Sapevo che stavo entrando in un campo minato. “No, Fran. L’ho vinto per te”, ribadì. Mi guardò dritto negli occhi, ma io non fui capace di reggere il suo sguardo e abbassai il capo. “Avevo capito che non eri Danielle”. Fu come una doccia fredda. Sgranai gli occhi e lo guardai. Ma certo! Come avrebbe potuto funzionare quel piano strampalato?

“Non sapevo chi fossi, né perché fossi lì, ma mi andava bene. Solo che, quando ho incontrato per caso Danielle e lei mi ha detto la verità, non ci ho visto più… sapendo che si era trattata solo di una questione di soldi”, “Oh, Russ. Mi sento così meschina per averti ingannato. Non merito il tuo perdono, né la tua comprensione e nemmeno la tua amicizia. Ma sappi solo che non l’ho fatto per denaro. Non ho preso un solo centesimo da tua moglie”, sbottai. Non sapevo per quanto ancora sarei riuscita a trattenere le lacrime. Sentivo di avere gli occhi lucidi. “Ora lo so. Me l’ha detto in seguito. È per questo che sono qui. Vorrei sapere perché l’hai fatto”. Le gambe mi tremavano. Mi sedetti sul letto.

 

“Io… sentivo che dovevo farlo, che dovevo incontrarti”. Lo guardai fisso negli occhi. “E mi perdoni Dio, ma non rimpiango nemmeno un minuto dei giorni trascorsi assieme”. Russell si sedette accanto a me e mi prese una mano. “Nemmeno io, piccola, nemmeno io”. Mi sorrise e io mi sentii sciogliere in un brivido, proprio come mi capitava tutte le volte che vedevo il suo sorriso. “Quando l’hai capito?”, “Sul Boulevard, quando hai preso le mie difese con i giornalisti”. Mi strinse di più la mano. “Siamo partiti con il piede sbagliato. Ma tu in questi giorni non sei stata mia moglie. Sei stata Francesca, una donna stupenda e interessante, che mi ha regalato splendidi momento. E vorrei stare ancora con questa donna, conoscerla di più, se lei è d’accordo”.

 

Sentii le lacrime rigarmi le guance. “Ehi, è una proposta così brutta?”. Risi asciugandomi una lacrima con il dorso della mano. Russell si chinò su di me e baciò la mia guancia, asciugandomi così le altre lacrime. Eravamo così vicini da poter sentire l’odore della sua pelle. Scese di più fino ad arrivare alla mia bocca. Mi baciò e io ricambiai quel bacio con passione, con desiderio. Con amore.

 

“Accetto volentieri la sua proposta, mio signore”. Lui mi sorrise e mi baciò il collo, facendomi provare un brivido. “Cosa ti va di fare oggi?”, “Mi piacerebbe andare al mare… e restare per sempre al tuo fianco”, risposi, baciandogli le piccole rughe attorno ai suoi occhi. “Possiamo fare tutte e due le cose, piccola”.

THE END

 

  
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