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Autore: miseichan    20/09/2011    3 recensioni
Ma sarà troppo tardi.
E me ne andrò in silenzio... con il mio segreto.
Genere: Dark, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Allo scadere del tempo

 

Ma sarà troppo tardi;

ed io me ne andrò zitto… con il mio segreto.

 

Fra giusto e sbagliato il confine è labile.

Mi sono sempre considerato una persona a modo. Una persona capace di riconoscere quel confine.

Credevo di non essere in grado di superarlo, eppure, ancora oggi, non saprei dire con certezza se l’ho fatto oppure no. E’ una linea sottile, quel maledetto confine; non si trova sempre nello stesso punto: cambia, di tanto in tanto, lasciandoti intravedere un margine diverso. Non è possibile dire con certezza se una cosa è bene o male: ci sarà sempre il dubbio di essersi sbagliati, di aver dato un giudizio sbagliato.

I rimorsi rimangono: tornano ad assalirmi alle volte, prepotenti. Penetranti come il profumo dei gigli.

Difficilmente però, potendo tornare indietro, mi comporterei diversamente da come feci.

 

 

- Sicura che ti piaccia? -

Serena sorrise con aria condiscendente, trattenendo a stento un sospiro prima di rispondermi pacata:

- L’ho già detto e lo ripeto – mormorò – Non abbiamo altra scelta, Paolo -

Mi oscurai in volto, pronto a tornare indietro, quando lei aggiunse:

- E poi mi piace: è carino; particolare, diciamo così -

Sorrisi a mia volta, stringendole la mano e aprendo il portone in legno.

Aveva ragione lei, come sempre: non avevamo altra scelta che prendere una stanza in quell’albergo. Per quanto malandato, sperduto e sconosciuto che fosse. Tempesta in avvicinamento, così avevano ribadito le previsioni della radio: avventurarsi oltre, in quel momento, sarebbe stata una pazzia. Perciò avevamo fermato la macchina in vista del primo riparo: un alberghetto ben nascosto dalla vegetazione, vicinissimo al lago ma al tempo stesso ben protetto. Esattamente ciò che ci occorreva.

Non avevamo intenzione di fermarci a lungo: un giorno, massimo due… Avremmo aspettato che la tempesta si allontanasse e poi via, di nuovo in macchina, pronti a continuare la vacanza.

- Ci vorranno più di due giorni temo, signori -

Sollevai lo sguardo, incontrando subito quello perplesso e deluso di Serena.

- Co… come? – balbettai, non certo di aver capito bene.

- Mi duole dirle che una tempesta di questa portata, solitamente, dura per più di due giorni – ripeté l’uomo dietro il bancone, porgendoci una chiave arrugginita.

- Oh – mormorai, assorbendo il colpo. Non me lo aspettavo.

Presi la chiave, avvolgendo con il braccio i fianchi di Serena per rassicurarla:

- Fa niente, vero? – cercai di sorridere – Ci divertiremo ugualmente -

Lei non annuì. Lo fece Silvestro, premuroso, guardandomi con aria affabile e disponibile.

Silvestro era il proprietario dell’hotel: vicino ai cinquant’anni, stempiato e con parecchi capelli grigi a far capolino fra i ricci corvini; gli occhi scuri, ingranditi da un paio di occhiali neri, sembravano spenti.

- Non abbiamo molti ospiti in questo periodo dell’anno – iniziò, leggermente a disagio – Solo due, per la verità – continuò, sorridendo ancora – Vi ho dato una stanza sul loro stesso piano, le camere sono adiacenti. Nel caso però che preferiate una diversa ubicazione… -

- No, no – lo interruppe Serena, rapida – Meglio così. Ci sentiremmo troppo soli altrimenti –

- Come volete – acconsentì Silvestro, annuendo con il capo.

Gli feci un rapido cenno, avviandomi già verso le scale più vicine, quando la mano di Serena mi bloccò. Mi voltai, incuriosito dalle sue parole:

- Come mai si chiama Candela? – aveva chiesto, riferendosi all’albergo.

- Per via delle candele – rispose l’uomo con ovvietà, indicando con la testa tutto attorno a sé – Succede spesso che se ne vada la corrente, da queste parti; così ovunque sono posizionate innumerevoli candele, pronte all’occorrenza - 

Serena annuì, ricominciando a camminare. Quattro rampe di scale ed eravamo arrivati al piano giusto: per tutto il tragitto non avevo fatto altro che guardarmi attorno. Mi piaceva quel posto, inutile negarlo: che fosse l’aria antica, l’aspetto malandato, il legno… era tutto in legno, scuro, chiaro, di qualunque tipo. E mi affascinava: era spettacolare. Certo, come mi fece subito notare Serena, sotto un certo punto di vista ricordava il film Shining, ma per il resto era perfetto. Romantico, inquietante volendo, ma unico.

Non intendevamo trascorrerci più di un paio di giorni, ci avevano detto che ve ne avremmo passati di più e invece, alla fine, alloggiammo all’hotel Candela soltanto quella notte.

La stanza era carina, l’ultima nel corridoio: un letto matrimoniale, una cassettiera, un armadio e un bagno. Niente di speciale, certo, ma il meglio era la finestra: occupava quasi un’intera parete e aveva un terrazzo. Uscendo, cosa che non facemmo per via della pioggia scrosciante, ci si affacciava direttamente sul lago.

Spettacolare. Un panorama da mozzare il fiato.

- Ehm… è permesso? -

Sussultammo entrambi, colti di sorpresa da quella richiesta inaspettata.

Un uomo sulla trentina era poggiato allo stipite della porta socchiusa, le nocche della mano che bussavano aritmicamente sul legno. Era alto, occhi azzurri, una corta zazzera bionda. Sorrideva, teneramente.

Aveva un sorriso che incantava. Due fossette ai lati della bocca, cordiale, aprì lentamente la porta.

- Spero di non disturbare – mormorò, affabile – Ho sentito delle voci e stentavo a crederlo vero – rise – ma siete qui, quindi immagino di dovermene fare una ragione -

- Le spiace? – chiese Serena, avvicinandosi di un passo, già conquistata dall’uomo.

- Tutt’altro – sorrise lui, scuotendo appena il capo – Mi sembrava troppo bello per essere vero –

Sorrisi a mia volta, incapace di resistere. Gli porsi la mano che lui prontamente strinse.

Una stretta calorosa: mi trascinò verso di sé, dandomi anche una pacca sulla spalla.

- E’ un piacere avervi qua – disse, entusiasta – Io sono Gianluca, onorato di conoscervi –

- Paolo - mi presentai – E lei è la mia fidanzata, Serena –

Gianluca annuì, scoccando due baci sulle guance di un’emozionata Serena. Ripiegò le maniche della camicia fino ai gomiti e poi, con noncuranza, poggiò i pollici nei passanti dei jeans. Sempre sorridendo.

- Cenate giù, stasera? – chiese, lanciando un’occhiata all’orologio – Vi andrebbe per caso di unirvi a me? -

Non risposi subito, aspettando un cenno da parte di Serena e guardando a mia volta l’ora per prendere tempo. La risposta, tuttavia, la diede lei:

- Certo – ridacchiò, contenta – Sarebbe bellissimo. E almeno saremo in compagnia -

- Proprio così – approvai, tanto per darmi un tono mentre aspettavamo la replica dell’uomo. Non tardò ad arrivare, solare come sempre:

- Scendiamo allora – disse, facendoci strada con destrezza – La cena è calda fino alle otto, siamo ancora in orario - 

Lo seguimmo condiscendenti, provati dal viaggio e scombussolati da quella sosta di emergenza.

Il mio senso dell’orientamento è sempre stato pessimo, ne sono consapevole. Oggi come allora, non sarei capace di dire che strada percorremmo: i corridoi come le rampe di scale sembravano tutti uguali, si susseguivano davanti ai miei occhi senza alcun ordine logico. Ci lasciammo guidare, già rapiti da lui.

Gianluca era bravo. Aveva carisma, inutile dirlo, e sapeva perfettamente come sfruttarlo.

La sala in cui ci fu servita la cena era completamente vuota: una serie disordinata di tavoli di tutte le dimensioni occupavano il poco spazio a disposizione, ma la vista, ancora, era magnifica. Due pareti su quattro erano occupate da finestre: mostravano la notte, in tutta la sua eleganza e magia.

La tempesta infuriava, eppure quasi non ce ne accorgemmo. Non ci facemmo caso, persi nei racconti offertici dal nostro commensale: Gianluca fu un perfetto intrattenitore, abile nel giostrare qualsiasi conversazione; non si stancava mai, la risata sempre pronta, gli occhi vivaci. Offrì lui la cena: ottima e calda, servita al lume di candela; per far onore all’hotel, infatti, la corrente era già andata via diverse volte, spingendoci a chiedere di spegnere direttamente la luce e accendere invece qualche candela.

Il chiarore nella sala, così, proveniva unicamente dalle numerose, piccole fiammelle e dal grande camino alle nostre spalle. Il tempo volò: le otto passarono, seguite subito dalle nove. Un’altra mezz’ora e sarebbero state le dieci, per quanto strano fosse. Non oso immaginare come sarebbe stato il nostro soggiorno senza Gianluca: era lui l’anima della serata. Ci parlò di sé, del suo lavoro: si definiva una specie di piccione viaggiatore. Si spostava, in continuazione, stentando a restare fermo in un posto. Era sposato da diversi anni: la sua ragazza del liceo; amava i cavalli, i film in bianco e nero e le arance… anche le notizie più futili e banali, se dette da lui, sembravano segreti di stato. Avrebbe potuto e dovuto fare il politico, credevo allora e continuo ancora a esserne persuaso.

- E quanto ti tratterrai? –

Non ricordo se a chiederglielo fui io oppure Serena: rammento solo la domanda e l’espressione pacata di Gianluca. Bevve un ultimo sorso di caffè prima di rispondere, inclinando appena la testa:

- Parto domattina – disse, telegrafico.

Annuii, leggermente spaesato per il tono serio di lui.

- Mi spiace – mormorai, sincero, subito imitato da una contrita Serena – Avevamo appena trovato una valida compagnia – aggiunsi, facendo per alzarmi.

La manina bianca di Serena mi bloccò, arpionandomi il braccio: - Dove vai? – chiese, allarmata.

- Ho bisogno di una sigaretta – risposi, sorridendo – Mi accompagni sopra? -

- Certo, ma… - si girò verso Gianluca, speranzosa – Ci rivediamo dopo? Parliamo ancora un po’ o giochiamo un po’ a carte, non saprei… -

Scossi la testa, divertito da quella scenetta. Gianluca dovette trovarla spassosa almeno quanto me perché ridacchiò, prima di affrettarsi a rispondere, nuovamente cortese:

- Naturalmente, la notte è giovane, no?  -

Fu solo merito di Serena, lo dico senza peli sulla lingua, se raggiungemmo il nostro piano in tempi brevi. Fosse stato per me, vi avrei impiegato metà della non così lunga notte. E il restante tempo per trovare la camera. La voce di lei mi fece compagnia per l’intero tragitto: elogi su lodi, tutti per Gianluca.

- E’ educato, vero? – chiedeva, senza aspettarsi alcuna risposta – E gentile, simpatico, oltre che molto affascinante, ovviamente – continuava, instancabile – La sua voce, poi… - mugolò - … Dio, se è sexi: farebbe sciogliere chiunque, vero? Ho ragione, vero? -

All’ultima domanda eravamo ormai di fronte alla nostra stanza. Serena si girò verso di me, le spalle alla porta: fu a quel punto che mi chiesi se per caso non stesse aspettando una risposta. Come al solito, però, mi sbagliavo. Preso in contropiede, decisi di deviare il discorso, scherzando appena un po’:

- Non vorrai mica lasciarmi per lui? – chiesi, sarcastico.

Attesi una replica altrettanto velenosa che, tuttavia, non arrivò: mi accorsi solo in quel momento dei cenni che Serena mi stava rivolgendo; inclinava di tanto in tanto il capo verso destra, in direzione del corridoio. Istintivamente mi voltai, trasalendo come una ragazzina: c’era un ragazzo a pochi metri da noi, fermo di fronte alla terza porta del corridoio. La prima era la nostra, la seconda era di Gianluca e la terza, a quanto pareva, era sua. Il terzo ospite di cui ci eravamo completamente dimenticati.

Mi passai una mano sulla fronte, dispiaciuto per quella reazione inappropriata: mossi un passo verso il giovane ma quello non si girò, come perso nei suoi pensieri. Lo guardai meglio, sorpreso ogni attimo di più: era alto, molto, anche più di Gianluca. Eppure era come il suo opposto, la sua antitesi.

Slanciato, gracile e pallido: una barba di pochi giorni ad oscurargli le guance; i capelli erano lunghi, neri come la pece e legati in un codino. Solo gli occhi erano chiari, fin troppo. Sembravano pallidi anche loro, rifulgenti di una luce propria. Elettrici, come dotati di vita. E in perfetto contrasto, le occhiaie pronunciate.

Le braccia erano abbandonate sui fianchi, immobili, esauste.

Mossi un altro passo, facendo per allungare una mano nella sua direzione. Lui però non mi guardò, così vicino a me eppure lontanissimo. Fissava un punto indefinito di fronte a sé, le unghie che improvvisamente gli si conficcavano nei palmi. Dischiuse le labbra secche, esibendosi in quello che avrebbe dovuto essere un sorriso. Terrificante, inappropriato e, soprattutto, non rivolto a me.

- Rosi – chiamò, la voce che non sembrava appartenergli – Vieni, dobbiamo rientrare -

Ritirai la mano, seguendo il suo sguardo che vagava nel corridoio buio. In un corridoio vuoto.

- Paolo – sentii Serena chiamarmi, tirandomi per la manica della felpa – Andiamo, ti prego – mugolò, serrandomi il polso. Mi voltai, pronto a seguirla. Fu più forte di me girarmi un’ultima volta verso quel ragazzo: ma lui non c’era più, la porta che gli si chiudeva alle spalle silenziosamente.

Entrai in camera con Serena, la mano nella sua. Un silenzio irreale vagava fra di noi, apparentemente infrangibile. Non durò molto, tuttavia. Lo scatto del mio accendino fu sufficiente a risvegliare entrambi.

- La miseria – borbottò lei, lo sguardo allucinato – Sembrava un incubo – continuò, la voce tremante – Io… lui… è pazzo! -

Non dissi niente, aspirando con calma.

- Avevo i brividi, Paolo. Ho i brividi! – si accalorò Serena, imperterrita – Non era con noi, te ne rendi conto? Parlava… parlava da solo. O… o con chi diavolo stava parlando? -

- Rosi – mormorai impercettibilmente, soffiando fuori una boccata di fumo.

- Mi… mi ha spaventata – concluse, nel momento esatto in cui si aprì la porta della camera, facendola quasi gridare dalla paura. L’espressione sorpresa di Gianluca fece capolino dalla fenditura:

- Qualcosa non va? – chiese, un sopracciglio inarcato – Chi ha spaventato chi? –

Serena si lasciò cadere sul letto, facendogli segno con la mano di entrare: prese un bel respiro poi gli raccontò tutto, veloce e prorompente come un fiume in piena. Gianluca annuì, un sorrisetto saputo.

- Era Ivan – disse, sicuro – Non è pericoloso, tranquilla -

- Ivan? – chiedemmo insieme, un alone indistinto di fumo sopra di noi.

- Ivan – approvò Gianluca – E’ un po’ particolare, lo ammetto, ma non c’è da temere –

- Lui… - balbettò Serena, ma non riuscì a concludere.

- Lui non farebbe del male a una mosca –

- Ne sei certo? –

Gianluca annuì, grattandosi il mento: - Tuttavia… -

- Tuttavia? – lo incitò Serena, avida di informazioni più di quanto normalmente non fosse.

- … ce l’ha con me – continuò Gianluca, pensieroso – Non saprei dire come mai. E’ un po’ instabile il ragazzo, lo avrete notato. E nei miei confronti è sempre stato duro. Gelido. Cattivo, quasi –

- Come fai ad esserne tanto certo? – gli chiesi, confuso – Lo conosci? –

- Non è la prima volta che alloggio qui –

- E c’era ogni volta Ivan? – domandai ancora, sempre meno convinto: qualcosa non andava.

Gianluca si strinse nelle spalle, puntando gli occhi sul pacchetto di sigarette che stringevo in una mano. Gliene offrii prontamente una, incurante della conversazione che lui e Serena avevano cominciato. Con un semplice cenno del capo, quasi ignorato, uscii dalla stanza. Poggiai le spalle contro la porta, accendendomi una seconda sigaretta: non ricordavo nemmeno quando avevo finito la prima.

Mossi qualche passo per il corridoio, gli occhi socchiusi, aspirando con avidità. Fu con sorpresa che mi accorsi del labile chiarore proveniente dalla terza porta: era socchiusa, quel tanto che bastava per sbirciare all’interno. Non lo feci. Mi avvicinai, la sigaretta abbandonata fra le labbra e le nocche a pochi centimetri dalla porta: bussai una, due, tre volte. Non giunse alcuna risposta.

Ripensandoci adesso, con cognizione di causa, probabilmente avrei dovuto girare i tacchi e lasciar perdere. Sarebbe stata un’ottima decisione: avrebbe denotato un minimo di intelligenza, se non altro.

A quanto pareva, tuttavia, in quanto a quoziente intellettivo sono sempre stato carente…

Aprii ugualmente la porta, malato di un’inguaribile curiosità. Per niente scalfito dal silenzio ambiguo che aleggiava nell’aria, mossi qualche passo all’interno della stanza. Era molto simile alla mia, notai, espirando una boccata di fumo: l’unica differenza era la presenza di due letti singoli al posto di quello matrimoniale.

E il fantomatico Ivan era presente, malamente illuminato da un paio di candele.

Se ne stava fiaccamente sdraiato su uno dei materassi, le braccia piegate dietro il capo in una posizione riposata e naturale. Lo guardai per un po’ mentre la scena avvenuta prima in corridoio si ripeteva nella mia testa; immagino fu quello il motivo per cui, quando i suoi occhi si aprirono di scatto bloccandosi nei miei, sussultai penosamente. Ricambiai l’occhiata glaciale, apparentemente assente, incapace di proferir parola.

- Brutto tempo – mormorò il ragazzo, abbassando lentamente le palpebre.

La voce non sembrava la sua, o meglio, non era la stessa di prima: non era quella che avevo istintivamente associato alla sua persona. Più roca, spezzata, finalmente reale. La voce di chi sa ciò che dice.

- Sembra non voglia smettere di piovere – riuscii ad articolare dopo non so quanto tempo.

- E deve ancora venire il peggio – aggiunse Ivan, carezzandosi la barba con una mano – Non bisogna mettere fretta al tempo, giusto? –

Inarcai un sopracciglio, disorientato, ma lui non mi diede modo di rispondere:

- C’è un posacenere sulla scrivania – disse, senza accennare alcun movimento. Mi guardai attorno, individuando l’oggetto di lì a poco: vi lasciai cadere la sigaretta ormai spenta e sospirai, poggiandomi stancamente ad un muro.

- Come mai alloggia qui? – chiesi, incapace di trattenermi ancora.

La risposta, questa volta, si fece attendere:

- Aspetto – sillabò alla fine, mentre un suono grave si diffondeva attorno a noi: si ripeté per dieci volte, cadenzato. Ivan aveva sempre gli occhi chiusi, perfettamente a suo agio:

- La pendola – spiegò, apatico – Sono le dieci –

- Cos’è che aspetti? – domandai, passando senza accorgermene a dargli del tu. Mi veniva naturale.

- Che arrivi il momento giusto –

- Quale momento? –

Ivan non rispose subito. Aprì di scatto gli occhi e li fissò nei miei, i suoi si erano improvvisamente spenti:

- Sul quadrante di un orologio ci sono tre lancette – disse – Quella delle ore, quella dei minuti e l’ultima: quella dei secondi. Si rincorrono, una è sempre più indietro rispetto alle altre. E’ interessante come si muovono… - prese un bel respiro, mettendosi piano a sedere - … non si affrettano, mantengono il loro ritmo naturale. Sintomo di estrema pazienza. Aspettano, aspettano il momento giusto -

Dischiusi le labbra, tentato e già pronto a fare una nuova domanda, ma gli occhi del ragazzo si spostarono dai miei. Deviarono a sinistra, accesi nuovamente dalla luce che li aveva abbandonati:

- Come dici, Rosi? -

Fissava il letto al suo fianco. Un letto perfettamente rifatto.

- No, non conosco il signore – mormorò, assente.

Un letto vuoto.

- Sì, Rosi: manca poco, non preoccuparti -

E la voce era di nuovo lontana, irreale e alterata. La voce di chi parla con qualcuno che non c’è.

Arretrai, silenzioso, uscendo dalla stanza. Non fu per codardia, o almeno di questo mi piace convincermi.

Solo, bisogna ammetterlo: quella situazione era a dir poco inquietante. Senza mezzi termini.

Continuai a camminare all’indietro, le braccia rilasciate lungo i fianchi. Perché…?

- Ehi! -

Mi girai di scatto, maldestramente, il volto distorto da un’espressione mortificata:

- Mi scusi – cominciai, scuotendo la testa senza motivo – Io… io non volevo, davvero. Ero con la mente altrove, io… non l’ho vista – conclusi, osservando la persona con cui mi ero scontrato.

- Ci credo – disse la donna, esasperata – Camminava all’indietro, come avrebbe voluto vedermi, mi dica? –

- Mi dispiace – ripetei, incapace di dire altro.

Lei sospirò, stringendosi nelle spalle. Con le mani si lisciò la gonna: indossava una divisa dell’albergo. La guardai meglio: doveva essere vicina ai sessant’anni, i capelli grigi raccolti in una stretta acconciatura; il volto era ricoperto di rughe, le labbra sottili, estremamente sottili; ma furono gli occhi a catturare la mia attenzione: erano occhi giovani. Occhi che nonostante i molti anni passati continuavano ad essere pieni di vita. Occhi immensi, profondi: dovevano aver visto tante di quelle cose da poterci scrivere un libro.

Fu per quegli occhi se non me ne andai. Avrei potuto tornare in camera, ma non lo feci, bloccato in quel corridoio senza neanche sapere realmente il perché. Presi un’altra sigaretta e sorrisi, offrendone una anche alla donna di fronte a me. Lei l’accettò di buon grado, lasciando che l’accendessi poi ad entrambi:

- Lavora qui? - le chiesi, incominciando alla larga la conversazione.

Lei annuì, rivolgendomi un sorriso sarcastico: - Non se n’era accorto? – domandò a sua volta, accennando con il capo alla divisa. Sorrisi, annuendo e sollevando le mani. Colpito.

- Faccio le pulizie – mormorò, lisciandosi ancora la gonna.

- Da quanto tempo? –

- Molti anni – ridacchiò lei, tossicchiando appena – Come mai tanto interesse per una vecchia e noiosa cameriera, giovane? – domandò poi, guardandomi dal basso in alto.

- Semplice curiosità – sussurrai, prendendo tempo.

Lei alzò gli occhi al cielo, borbottando qualcosa di indecifrabile, alla fine si decise a lanciarmi un’occhiata:

- Chieda su, se posso… - soffiò del fumo - … risponderò -

Dischiusi le labbra, diverse volte, senza che ne uscisse alcun suono. Fu solo quando l’espressione della donna divenne ancora più esasperata, con tanto di sopracciglio inarcato, che mi decisi a parlare:

- Conosce Ivan? -

- Ivan? – sillabò, diventando improvvisamente diffidente – Perché me lo chiede? –

- Io… - sospirai, non sapendo da dove cominciare – L’ho incontrato per la prima volta in corridoio – dissi – Parlava da solo – aggiunsi, prendendo un bel respiro – Poco fa, invece, sono entrato in camera sua e… - scossi impercettibilmente il capo - … sembrava un’altra persona: ha parlato con me. E poi, di nuovo, con qualcuno che non c’era. Una certa Rosi. Capisce? –

La donna sospirò, chiudendo per qualche attimo gli occhi. Eluse il mio sguardo, ignorandomi.

- Non credo dovrei parlarne con lei – balbettò, insicura, la voce incrinata.

- Perché no? –

E lei rise. Di una risata triste, piena di rimorsi e malinconia. Dolorosamente nostalgica.

- Perché no? – mi fece il verso, sollevando due occhi umidi nei miei – Non ha tutti i torti, sa? – e sorrise.

In quel momento non riuscii a decifrarne il sorriso; oggi con cognizione di causa posso dire che sul volto di quella donna si era appena dipinto il sollievo: come se raccontando a me, sarebbe poi stata libera lei.

- Il giovane Ivan… - cominciò, schiarendosi la gola – Ivan Serico, così si chiama – continuò, incamminandosi lungo il corridoio. La seguii, le labbra cucite: ci fermammo pochi attimi dopo, in una minuscola stanzetta a mala pena illuminata; lei si spostò agilmente, il respiro accelerato, lasciandosi cadere su un divanetto rosso e facendomi segno di imitarla. Ubbidii, attendendo che riprendesse.

Non lo fece.                    

- Ivan Serico – ripetei, allora, impaziente – Da quanto tempo è qui? -

- Undici anni –

Sbattei le palpebre, convinto di aver frainteso, ma lei non mi lasciò il tempo di dire alcunché:

- E’ arrivato qui undici anni fa. Era appena diciottenne allora, sa? Un ragazzo carinissimo – sorrise, come rivedendo l’Ivan del passato – Gentile, solare, sempre sorridente e con la battuta pronta. Era il tipo in grado di far cadere una ragazza ai suoi piedi semplicemente sbattendo le ciglia, sa? -

Annuii, cercando inutilmente di immaginarlo in quel modo. Mi era difficile, quasi impossibile.

- Perché… perché undici anni? – domandai, allibito – Perché non se ne va? -

Lei scosse la testa, portando una mano davanti alla bocca.

- Non ha un posto dove andare? – chiesi ancora, provando alla cieca.

Un sospiro della donna mi fece cedere le armi. Non ero sulla strada giusta.

- Quando arrivò non era solo – mormorò con dolore lei – Prese una camera per due, quella che occupa ancora adesso. Una camera per sé e per la sorellina -

- Rosi – sussurrai, la voce roca che stentai a riconoscere.

- Già – approvò la cameriera – Rossella: otto anni di dolcezza –

Intrecciò le mani in grembo, come per impedir loro di tremare: - Un esserino minuscolo, con la pelle candida come la luna. Aveva un viso perfetto, sa? Bellissimo. I capelli erano la fine del mondo: una cascata di ricci neri che le arrivavano a metà schiena. E tutto era niente in confronto al sorriso. Quando sorrideva… poteva far sciogliere il ghiaccio, con quel sorriso. Le mancava qualche dente, sa? Dentini minuscoli, candidi come lei. E quegli occhioni, poi… -

Non mi ero nemmeno accorto di star trattenendo il respiro. Avevo il volto contratto, a tormentarmi l’immagine di quella bimba che mi sembrava di vedere. Non ne parli al passato, avrei voluto gridare.

- … Ivan l’adorava. Stravedeva per lei. Era il suo mondo e come biasimarlo? Era tutta la sua famiglia. Sarebbe morto per lei, sa? Senza pensarci su due volte -

Non ne parli come se non ci fosse più, continuavo a gridare dentro di me.

- E invece è morta -

Mi aspettavo quelle parole. Le avevo intuite, sempre sospettate.

Eppure mi colpirono ugualmente come uno schiaffo.

- Morta? – biascicai, senza neanche rendermene conto.

- Già – singhiozzò la donna, passandosi le mani sugli occhi – A trovarla fu Ivan. Le urla del ragazzo si sono sentite risuonare per l’albergo… per giorni. E’ come se riecheggiassero ancora oggi –

- Come? – non potei fare a meno di chiedere, la mascella contratta.

Lei scosse la testa, indicandomi qualcosa con gli occhi. Impiegai diversi minuti per capire che accennava ai miei pantaloni: una luce intermittente rischiarava la tasca; afferrai il cellulare senza riuscire a nascondere l’irritazione per quell’interruzione: scrutai lo schermo e vidi lampeggiare il numero di Serena.

Dovevo rispondere?

- Come è morta? – chiesi ancora, impaziente. Osservai le lacrime silenziose che scendevano sulle guance della donna e sentii una stretta allo stomaco: - E’ stato un incidente? – sussurrai, convinto di conoscere già la risposta alla domanda. Non poteva essere stato un banale errore.

- No –

- Qualcuno… - provai ancora, non riuscendo a dire altro. Era terribile.

Un assenso. Un unico, impercettibile assenso da parte della donna bastò a farmi scattare in piedi.

Accennai un saluto, veloce, desiderando solamente uscire da lì: percorrere il corridoio e raggiungere la mia camera. Tornare da Serena. Da lei, da Gianluca. Alla luce.

- Al primo piano – mormorò lei, bloccandomi un attimo prima che uscissi dalla stanza – Apra la porta 27 -

Mi voltai appena, lasciando che fosse la mia espressione a porgerle la domanda.

- E’ lì che Ivan va a dipingere – aggiunse, tirando su con il naso.

Mi strinsi nelle spalle, allungando il passo ed imboccando il corridoio. Avevo sentito anche troppo, mi dissi, lottando con il desiderio di prendere l’ennesima sigaretta. Maledetta curiosità. Perché, perché non potevo mai farmi i fatti miei? Mi riguardava forse quella storia? Conoscevo Ivan, la sorella o chiunque altro di lì? No. Non conoscevo nessuno. Non mi interessava di nessuno. O almeno non avrebbe dovuto.

- Vuoi ancora sentire quella storia? -

Rallentai, sentendo la voce del ragazzo.

- Sicura di non essertene stancata, Rosi? -

Chiusi gli occhi, pietrificandomi sul posto, imponendomi di non sbirciare nella fessura della porta.

- E va bene – sospirò Ivan, il sorriso nella voce che non gli apparteneva – Questa è la storia di Ariel… -

Ripresi a camminare, sempre più vicino alla mia camera.

Quanto mancava? Due, tre metri? Pochi attimi e sarebbe tutto finito.

- Al diavolo! – sbottai, serrando i denti.

Feci dietro front senza dar tempo al cervello di formare un nuovo pensiero logico. Una nuova sigaretta fra le dita, scesi a passo di marcia fino al primo piano. E’ difficile spiegare il perché di quell’impulso. Non era dettato dalla ragione, ma neanche dal cuore ad essere sinceri. Era niente più che un istinto.

Dovevo farlo, semplicemente. Entrare nella stanza 27.

E lo feci, dopo aver indugiato con la mano sul pomello per sì e no qualche secondo.

Lo feci, addentrandomi in quel soffuso chiarore con un coraggio che non sentivo mio.

Era una camera piccola: o forse a renderla tale era soltanto la sensazione opprimente che trasmetteva al primo impatto. Lasciai la porta socchiusa alle mie spalle, la sigaretta che mi pendeva dalle labbra.

La prima cosa ad attirare la mia attenzione fu la più bella.

Avanzai di qualche passo, avvicinandomi al cavalletto: osservai rapito la tela, l’immagine che sembrava cercare di uscirne, troppo vera per essere stata solo dipinta. Erano due volti: giovani, ridenti, luminosi.

Fissai quello femminile, il viso di una bambina: le labbra erano piene, soffici, come due petali di rosa. Dischiuse, si aprivano in un sorriso disarmante; il ragazzo, invece, rideva: la bocca spalancata, il volto appena reclinato all’indietro. Trasmettevano gioia, felicità. Eppure non riuscii neanche ad accennare un sorriso. Con dita tremanti afferrai la foto da cui era stato tratto il dipinto…

… era vecchia, i bordi ingialliti e rovinati, ma ancora chiarissima. Identica alla tela su cui era poggiata: l’unica differenza era l’inquadratura più lontana; nella foto non si vedevano solo i volti: erano visibili anche i corpi, abbracciati, avvinghiati l’uno all’altro. La bambina in braccio al ragazzo.

Immagino di aver riconosciuto subito Ivan. Per qualche motivo sapevo che era quel ragazzo, lo sentivo. Undici anni più giovane, senza barba e senza occhiaie. Abbronzato, sorridente certo, ma era lui.

Immagino di aver sempre saputo che era lui e di aver solo finto con me stesso che non fosse così.

Perché? Forse per non tornare a fissare la tela, per non lasciare agli occhi il tempo di riguardare quella bambina: Rossella. Un piccolo fantasma che sembrava tormentare il fratello. Io odiavo i fantasmi…

Li odio ancora e quelli dei bambini più di tutti. Un odio immotivato, tanto più che non ci ho mai creduto.

Ivan non parlava con un fantasma. Ivan parlava da solo.

E questo era ancora peggio.

Posai la foto, allontanandomi dal dipinto. Dovevo andarmene. Potevo, vero?

Sentii il cellulare vibrare nella tasca: un non trascurabile richiamo alla realtà; avrei potuto ascoltarlo, ubbidirgli una volta tanto, non fosse stato che i muri sembravano attirarmi inesorabilmente: li avevo scorti con la coda dell’occhio, quei ritagli che vi erano appesi. Una volta visti, tuttavia, era possibile fare finta di niente? Sorrisi, sollevando il cellulare per avere più luce: articoli di giornale.

Risalivano tutti a undici anni prima, all’assassinio avvenuto nell’albergo.

Tutte prime pagine: certe a stento leggibili. Alcune riportavano foto di Rossella altre istantanee della hall dell’hotel. Doveva essere un posto molto in voga a quel tempo: sempre affollato, con ospiti da ogni parte del mondo. O almeno era stato tale fino al ritrovamento del cadavere.

Ricordo di aver lasciato scorrere lo sguardo su quei giornali, su quelle parole lontane ed allo stesso tempo così vicine. Non mi appartenevano, perché allora… perché facevano tanto male? Socchiusi gli occhi, una mano che correva a coprirmi la bocca per uno scatto improvviso: era nausea? Scossi la testa, arretrando di un passo, poi di un altro. Dovevo allontanarmi. Da tutto, da lei. Uscii dalla stanza, richiudendo la porta con mano tremante. Mi appoggiai al muro, l’impressione che le gambe avrebbero potuto cedere. Da quando in qua ero talmente suscettibile, mi chiesi, colpito. Incespicai per il corridoio alla ricerca di un bagno: mi ci fiondai, sciacquandomi più volte il viso con l’acqua fredda. In cosa speravo? Difficile a dirsi.

Non so quanto tempo passai chino sul lavandino, fissando l’immagine opaca dello specchio: il riflesso di un volto pallido, provato, di un uomo che sapeva più di quanto avrebbe voluto.

Non so nemmeno come mai mi decisi a scendere fino al pian terreno; ricordo l’eco della pendola: lo scoccare delle undici  quasi in contemporanea con l’abbattersi del mio palmo sul bancone.

- Silvestro – chiamai, sorprendendomi della rapidità con cui l’uomo si materializzò di fronte a me.

- Mi dica – sorrise, disponibile – Ci sono problemi? –

Scossi la testa, passandomi una mano sugli occhi: - Ho bisogno di parlare con una persona

Silvestro rimase in silenzio, attendendo educatamente che continuassi.

- L’ho incontrata di sopra – mormorai – Una donna: ha detto che fa le pulizie e…  -

Mi bloccai, pietrificato dall’espressione che aveva assunto il volto dell’uomo.

- Non abbiamo una donna delle pulizie -

Arretrai di un passo, sentendo la testa che girava: - Co… come, scusi? –

Silvestro annuì, serio. E io sentii che le gambe mi cedevano. Mi poggiai al bancone, la fronte imperlata di sudore freddo, quando un sorriso si fece strada sul viso di fronte al mio:

- Scherzavo – ghignò lui, dandomi una pacca sulla mano – E’ sicuro di sentirsi bene? E’ pallido -

- Le sembrano scherzi da farsi? – soffiai, stringendo i denti.

Silvestro mi guardò senza capire, l’ombra di un sorriso sulle labbra:

- Vera è ancora al bar – disse alla fine, stringendosi nelle spalle.

- Vera? –

- La donna delle pulizie – sillabò, scrutandomi con attenzione – Vuole che l’accompagni? –

Negai, incamminandomi verso la sala ristorante: la vidi subito, seduta al bar, un bicchiere fra le mani.

- Uccisa – scandii, prendendo posto al suo fianco – L’hanno uccisa -

Vera annuì, avvicinando il bicchiere alle labbra secche e bevendo un piccolo sorso.

- L’hanno violentata – sussurrai, timoroso delle mie stesse parole  - Violentata e accoltellata – ripetei una, due, tre volte. Non mi fermai, non avevo intenzione di smettere. Non potevo. Continuai come se fosse un mantra, inconsapevole quasi di cosa stessi dicendo.

- La smetta – gemette Vera, poggiando con mano tremante il bicchiere sul tavolo – La prego, la smetta –

- Come è possibile che non abbiano preso il colpevole? –

- Gli ospiti erano tanti – si strinse lei nelle spalle – Molti erano pendolari, altri si fermavano solo per una notte. Il corpo venne trovato dopo più di un giorno… -

- Nessun indizio? – sibilai, sconvolto – Come è possibile?!

- Non aveva niente indosso – sussurrò lei, la voce flebile – Solo un orologio, con lo schermo rotto – si fermò, la voce che si incrinava – Fermo alle tre e un quarto, mi sembra –

Piegai le braccia sul bancone, nascondendovi il volto all’interno.

Le parole di Vera mi giunsero ovattate, lontane, quasi non fossero rivolte davvero a me: - Il cellulare

Impiegai diversi minuti a portarlo davanti agli occhi e ancora più tempo per riuscire a focalizzare sullo schermo: cinque chiamate perse, tutte di Serena. Sorrisi, di un sorriso falso. Niente sembrava più giusto.

- Devo andare – borbottai, la lingua impastata come se stessi smaltendo una sbronza.

Vera non si mosse, non mi guardò nemmeno. Sembrò non avermi neanche sentito; continuò a fissare un punto indefinito nel suo drink, i palmi aperti e immobili sul bancone. Uscii, salendo le scale con furia. Feci gli scalini due alla volta, raggiungendo il corridoio esatto per pura casualità: guidato da qualcosa che non faceva parte del mio io razionale. Superai la camera di Ivan e aprii la porta dell’ultima stanza con impeto: mi fiondai all’interno, chiudendomela alle spalle. Mi ci poggiai di peso, lasciandomi scivolare verso il basso: crollai a sedere, sentendomi tremare. Assurdo. Totalmente e incredibilmente assurdo.

Non sentivo niente. Non vedevo niente. Avrei voluto anche non provare niente.

- Paolo? – pian piano, lentamente, quelle voci cominciarono a raggiungermi. Lì, dove non sapevo di essere. Lontano, apparentemente isolato. Perso. Un po’ alla volta superarono il muro che le bloccava, toccandomi.

- Paolo! – misi a fuoco il volto preoccupato di Serena, gli occhi spalancati, le labbra dischiuse – Mi stai spaventando, che diavolo! Stai bene? Che ti senti? Paolo, rispondimi, per favore –

Il tono si era fatto man mano più dolce, supplichevole quasi.

Cercai di articolare qualcosa, ma le parole sembravano essersi bloccate in qualche anfratto del vuoto che dilagava dentro di me. Fu in quel momento che sentii lo schiaffo. Forte, deciso, dritto sulla guancia destra.

Sbattei le palpebre, alzandomi maldestramente in piedi: - Cosa…? –

- Scusa, amico – sorrise Gianluca, passandosi una mano dietro la testa – Non sapevo cos’altro fare e nei film fanno sempre così -

Sorrisi a mia volta, sfiorandomi la guancia contusa: - Dì la verità – scherzai – Hai sempre desiderato provarlo

Lui rise, imitato prontamente da una Serena improvvisamente sollevata. Mi abbracciò di slancio, affondando il viso nel mio petto: - Idiota – mugugnò, tirando su con il naso – Mi hai fatto prendere un colpo. Che diavolo di fine avevi fatto? –

- Non mi sono sentito bene – borbottai, incapace di inventare di meglio sul momento – Voi, invece, che mi raccontate? -

Una smorfia delusa e insoddisfatta passò sul volto di Serena: non si sarebbe fermata fin quando non avrebbe ottenuto tutta la verità. Fortunatamente, tuttavia, Gianluca era presente e ridacchiò, salvandomi.

- Abbiamo giocato a carte – sorrise – E bevuto, aspettando te. Ho anche fatto un pensierino sulla tua fidanzata, ma non temere: sono un uomo a modo, io -

Sorrisi a mia volta, riconoscente: - Grazie per averle tenuto compagnia –

Lui alzò le mani, scuotendo il capo: - Non dirlo neanche per scherzo, è stato un piacere – sbadigliò, guardando con noncuranza l’orologio – Si è fatto tardi, ragazzi, temo di dovervi lasciare

- Di già? -

- Non ho ancora preparato la valigia – si scusò lui – Sono peggio di un bambino, lo so, mi riduco sempre all’ultimo minuto –

- Ti potrebbe far comodo una mano? – chiesi, senza quasi rendermene conto.

Serena mi lanciò una rapida occhiata accusatoria, in pieno contrasto con quella felice di Gianluca:

- Beh, certo, mi farebbe piacere – sorrise lui – Certo, però, non intendo dar fastidio -

- Figurati! – lo interruppi, sospingendolo verso la porta – Ci teniamo compagnia per un altro po’ di tempo, così, no? E poi, vi ho lasciati soli per tutta la sera, mi sembra il minimo che posso fare, adesso

Gianluca annuì, allegro, aprendo silenziosamente la porta.

- Non vieni, Serena? – chiesi, un piede già sull’uscio.

- No, preferisco mettermi a letto – mormorò lei, sorridendo appena – Ah, Paolo – chiamò, raggiungendomi veloce – Quando torni, non è che proveresti ad aggiustarmi l’orologio? –

- Cos’ha che non va? –

- Va cinque minuti avanti – sbadigliò lei – Non riesco a sistemarlo –

- Ci penso io – sorrisi, baciandola a fior di labbra – Buona notte –

-Notte – sussurrò, chiudendosi in camera, silenziosa.

Vidi Gianluca, appoggiato alla sua porta, guardarmi divertito: alzai gli occhi al cielo, seguendolo nella stanza. Lui ridacchiò, aprendo l’armadio e poggiando una valigia scura sul letto: - Queste donne. Come farebbero senza di noi? –

Ghignai, osservandolo mentre gettava i vestiti alla rinfusa nella borsa: - Perché – chiesi, avvicinandomi alla libreria – Noi come faremmo senza di loro? –

Ridacchiammo insieme, scambiandoci un’occhiata complice. Mi piaceva, Gianluca.

Scrutai i libri sulla mensola più in basso, l’unica piena: - Sono tuoi? –

Gianluca annuì, senza nemmeno girarsi: - Li lascio lì, ormai – spiegò – Ogni volta che alloggio qui mi danno questa camera: sono di casa, sai com’è. Così ho sempre qualcosa da leggere –

Lessi diversi titoli sovrappensiero: Dickens, Wilde, Poe, Andersen, Salgari…

- Sono in ordine di autore? – domandai, sorridendo per il disordine che ormai regnava nella valigia.

Gianluca percepì il mio divertimento e sospirò, lasciandosi cadere sul letto: - Sì, per quanto strano possa sembrare. Non far caso alla valigia: all’andata è ordinata, al ritorno non può essere altrettanto

Annuii, pensando che la mia non sarebbe mai stata ordinata. Afferrai il libro di Andersen e glielo mostrai:

- Questo è fuori posto – dissi, spostandolo – Non ti facevo tipo da La Sirenetta -

- Leggo di tutto – borbottò lui, alzandosi distrattamente in piedi – Vivo di giornali perlopiù, in treno o in aereo, sai com’è, devo pur passare il tempo. Ti spiace controllare se c’è ancora qualcosa in bagno? –

Entrai nel piccolo bagno, aprendo i diversi armadietti per guardarvi all’interno; ne uscii con in mano uno spazzolino rosso, una boccetta di profumo e qualche saponetta. Non saprei dire se fu a causa della stanchezza o della mia naturale sbadataggine. Forse fu il luccichio sul bordo del tappeto a distrarmi, non so. Fatto sta che inciampai, rovinando pateticamente a terra. Le saponette rotolarono sotto il letto, la boccetta di profumo si aprì, rovesciando parte del liquido. Imprecai fra i denti, raccattando tutto in fretta e furia: Gianluca si inginocchiò al mio fianco, tranquillizzandomi sempre con aria divertita e noncurante.

- Non ti preoccupare – ridacchiò, pregandomi di smetterla di imprecare – Sembri uno scaricatore di porto – sorrise, prendendomi le cose di mano e lasciandole cadere nella valigia.

- Ho fatto cadere il profumo – piagnucolai, asciugandolo maldestramente e riuscendo unicamente a bagnarmi il bordo della manica.

- Non fa niente – ripeté ancora Gianluca – Ma per curiosità, cosa guardavi invece di dove mettevi i piedi? –

Mi sorprese quella domanda, probabilmente perché riuscì a farmi ricordare del luccichio che avevo intravisto e già dimenticato. Non risposi, tuffandomi immediatamente verso il bordo del tappeto. Una collanina, ecco cos’era. Una catenina dorata, nascosta quasi interamente sotto il tappeto. Sottile, con una stella marina a fare da ciondolo.

- E’ tua? – chiesi, porgendola a Gianluca.

Lui la fissò in silenzio per qualche istante, per poi stringerla di scatto fra le dita: - E’ di mia moglie – mormorò, sorpreso – Credevo di averla persa

Mi alzai, spolverandomi i pantaloni, la mente già lontana: - Noi ci sposiamo fra tre mesi

- Sono contento per voi – sorrise Gianluca, sincero – Ti manca un testimone? -

Scossi la testa, trattenendo a stento un sorriso: - Un invitato in più fa sempre comodo, però

Allungai la mano, aspettando che la stringesse; lui alzò gli occhi al cielo, avvicinandosi in pochi passi e stringendomi fra le braccia: – Ma come siamo formali – sbottò, dandomi una pacca sulla spalla – Ci conto per l’invito, mi raccomando – mormorò poi, allontanandosi.

- Promesso – ribadii, uscendo dalla stanza – Buona notte -

- Anche a te –

Chiusi la porta, muovendo un passo verso la mia camera. Non fu la curiosità, questa volta, a farmi avvicinare alla terza porta. Non fu un mio istinto né un mio pensiero. L’idea non mi aveva minimamente sfiorato: fu la voce di Ivan a chiamarmi, facendomi bloccare all’istante.

- Ancora sveglio? – mi chiese, inarcando un sopracciglio scuro.

Mi strinsi nelle spalle, guardandolo appena. Non dovevo fermarmi, non dovevo, per nessun motivo.

- Mi fai un po’ di compagnia? – domandò ancora, accennando con il capo alla sua stanza.

Feci per rifiutare, la certezza che non sarebbe stata una buona idea a tormentarmi.

- Non riesco a dormire – aggiunse il ragazzo, fissandomi negli occhi – E ho una bottiglia di vino da finire -

Annuii. Al diavolo, annuii.

E lo seguii, incantato. Come un topo, seguii quel pifferaio.

Ivan si lasciò cadere sul letto, indicandomi una sedia poco lontana. Una parte di me mi urlava di restare in piedi, di non addentrarmi troppo in quel qualcosa che non mi riguardava… la misi a tacere, accettando il bicchiere che Ivan mi porgeva. Ci guardammo in silenzio, lasciando respirare il vino.

- E’ ottimo – sussurrai, incredulo – Eccezionale, davvero. Cos’è? -

- Non lo so – borbottò, stringendosi nelle spalle – Lo comprai il giorno in cui misi piedi qui per la prima volta. Non avevo mai avuto l’occasione di assaggiarlo

Sentii distintamente il liquido andarmi di traverso, quasi a guidarlo fossero le mie emozioni.

- Non ti strozzare, eh? – sorrise Ivan, alzando su di me uno sguardo divertito.

Se possibile mi inquietò ancora di più: non lo avevo ancora visto sorridere e quell’espressione, diamine, somigliava troppo a quella del ragazzo nella foto. Avrebbe dovuto essere una cosa positiva, eppure riuscì solo a farmi angustiare. Non capivo più niente.

- Lo senti? –

Aggrottai le sopracciglia, cercando di capire a cosa si riferisse.

- Questo profumo – mormorò – Lo senti anche tu? -

- Io… -

- Sei tu –

- Come? –

- La tua camicia – sussurrò Ivan, avvicinandosi un po’ – Sembrano proprio gigli, sai? –

- Gigli? – ripetei, la mente annebbiata.

Annuì, bevendo il vino nel bicchiere tutto d’un fiato: - Rosi impazziva per i gigli, ne amava il profumo

- Che occasione è oggi? – chiesi, interrompendolo.

Lui mi fissò, sconcertato. Arretrai appena, mordendomi la lingua.

Quella domanda mi stava tormentando: non avevo mai avuto l’occasione di assaggiarlo, così aveva detto.

Perché? Perché quel giorno, perché quella notte, perché con me? Con me?!

- Ivan? – lo richiamai, incapace di star zitto – Perché adesso? -

- Perché il tempo sta per scadere –

- Quale tempo? – sbottai, saltando in piedi – Di cosa diavolo stai parlando?!

- Ricordi le lancette? Si stanno avvicinando, manca poco. Ho aspettato tanto, sai? – si versò altro vino, piegando la testa da un lato – Sono stato paziente, ho atteso di sapere. Per lei –

- Sapere cosa? –

- E’ stato difficile. Hai idea di quante volte ho pensato di farla finita? Un tuffo nel lago e sarebbe finito tutto: il dolore, le urla… le sento ancora, non solo le mie, anche quelle di Rossella. Mi svegliano la notte, non mi lasciano pace. Da undici anni. Urla, urla, sempre urla –

Avrei voluto dire qualcosa, almeno credo. Eppure non fiatai, lasciandolo continuare.

- Non mi sono buttato, ho sopportato. Per lei. E il tempo sta per scadere -

Bevve, chiudendo gli occhi. Quando li fissò nuovamente nei miei erano appannati, umidi di lacrime.

- Era la mia stellina, sai? La mia piccola stella marina -

- Era? – chiesi, stringendo gli occhi – Era, Ivan? –

Lui sorrise, un sorriso spento che non si riflesse in quegli occhi tormentati.

- Il tempo sta per scadere -

- Cosa stai aspettando, Ivan? –

Quella volta, però, non mi rispose. Era come se non fossi più in quella stanza: si voltò dall’altra parte, verso il letto vuoto. Il letto di Rossella.

- Manca poco, Rosi, sei contenta? – chiese, la voce alterata – Non vedo l’ora, lo sai -

Il bicchiere mi cadde di mano. Sembrò che nessuno se ne fosse accorto.

Uscii da quella stanza, sperando di lasciarmi alle spalle l’ombra nera che sembrava essermi piombata addosso, desiderando seminare qualunque cosa mi stesse inseguendo per colpa di quel ragazzo.

Mi stesi di fianco a Serena in stato catatonico. La strinsi a me, affondandole il viso fra i capelli: avevo bisogno di ritrovare il silenzio. Sembrava così difficile… impossibile.

Ero convinto che non sarei riuscito a dormire, eppure lo feci. Mi addormentai, spegnendo il cervello: smisi di pensare, di rivivere, di scandagliare le notizie. Dormii. Fino allo sparo.

 

- Avete sentito uno sparo? -

Sospirai, affondando il volto nelle mani.

Era la decima volta che ci facevano quella domanda. Sì, sì, sì. Avevamo sentito uno sparo.

- Sì, agente – rispose Serena, nascondendo a mala pena l’esasperazione.

- Poi che avete fatto? –

Lo fissai, aprendo appena le dita: stravaccato sulla sedia, i piedi sulla scrivania, un bicchiere di caffè in una mano e una sigaretta nell’altra. Aveva un po’ di pancetta, gli occhiali scuri poggiati sul naso.

Sembrava tanto che stesse cercando di smaltire i postumi di una sbronza.

E sembrava ancora di più che non gli importasse niente di noi.

Come dargli torto?

- Siamo corsi fuori dalla stanza – rispose diligente Serena – E siamo entrati in quella di fianco alla nostra -

- Perché? –

- Lo sparo proveniva da lì –

L’agente inarcò un sopracciglio, sforzandosi apparentemente tantissimo.

- I muri sono sottili, si sente tutto -

- E a voi è sembrato che lo sparo provenisse da lì? –

- Esattamente –

- E siete corsi nella camera di fianco alla vostra? –

- Sì –

- E cosa avete trovato? –

- Niente –

L’agente non trattenne più il sospiro: eravamo tornati al punto di partenza. Quando fece per stringersi nelle spalle Serena scattò, sbattendo i pugni sul tavolo e facendo sussultare tutti:

- E’ questo il punto, agente! – sbottò, serrando la mascella – Dormiva Gianluca, in quella stanza. Avrebbe dovuto esserci Gianluca, in quella stanza. Eppure non c’era nessuno! -

- Solo la valigia e la finestra aperta – sembrò farci il verso l’agente, massaggiandosi le tempie – Lo so, signorina, me lo avete già detto. Lo sparo, però, lo avete sentito solo voi. E non c’è nessun corpo –

Serena sbuffò, tormentandosi le mani. L’agente sbuffò, alzando gli occhi al cielo.

- Siete gli unici ospiti, oltre questo Gianluca? -

Serena scosse la testa, cercando di tenere ferma la voce: - No – bisbigliò – E’ occupata anche la terza camera: un certo Ivan, ma non è affidabile, agente –

- Perché? – con un gesto della mano fermò la risposta di Serena – Voglio parlare con lui - disse, rivolgendosi ad un secondo uomo. Quello annuì e si allontanò, silenzioso.

Tornò poco dopo, scuotendo la testa.

L’agente sospirò, chiudendo gli occhi: - No, cosa, Salvatore? –

- Non è possibile parlargli -

- Perché? – gemette l’agente, finendo il caffè con un gesto nervoso.

- La stanza è disabitata, a quanto pare – spiegò questi – Non c’è nessuno e sembra non ci sia stato nessuno per molto tempo: i letti sono fatti, gli armadi vuoti e impolverati. E’ disabitata, ripeto –

Allontanai lentamente le mani dal viso, incredulo.

- Non è vero – biascicai, scuotendo la testa con disperazione.

L’agente mi ignorò completamente, guardando Serena con sufficienza:

- A che ora avreste sentito lo sparo? -

- Alle tre e venti – rispose lei, la voce incrinata.

- E questo Ivan che non c’è, come me lo spiega, signorina? – chiese l’agente.

La voce però si allontanava. Sempre più.

Sbiadiva, come tutto il resto.

L’ultima frase di Serena mi rimbombò nelle orecchie, amplificandosi di volta in volta.

E con quelle parole tutto si ripeté nella mia testa, di nuovo, con un ordine differente questa volta.

E con quelle parole tutto era diverso.

Con quelle parole, il puzzle formava un’altra immagine.

 

-  A che ora avreste sentito lo sparo? Alle tre e venti –

- Quando torni, non è che proveresti ad aggiustarmi l’orologio? Va cinque minuti avanti –

- Non aveva niente indosso. Solo un orologio, con lo schermo rotto. Fermo alle tre e un quarto, mi sembra –

 

Il tempo sta per scadere.

 

- Vuoi ancora sentire quella storia? Sicura di non essertene stancata, Rosi? E va bene. Questa è la storia di Ariel…-

- Questo è fuori posto. Non ti facevo tipo da La Sirenetta -

 

Il tempo sta per scadere.

 

- Ho fatto cadere il profumo –

– Sembrano proprio gigli, sai? Rosi impazziva per i gigli, ne amava il profumo

 

Il tempo sta per scadere.

 

Una collanina. Una catenina dorata, nascosta quasi interamente sotto il tappeto. Sottile, con una stella marina a fare da ciondolo. - E’ di mia moglie. Credevo di averla persa –

- Era la mia stellina, sai? La mia piccola stella marina -

 

- Era sposato? -

- Come, scusi? –

- Gianluca – gridai, quasi isterico – Era sposato? –

- Signore, si calmi –

- Paolo che ti prende? – mi strinse il braccio Serena – Perché urli? –

- Era sposato, sì o no?! – sbottai, sfilando gli occhiali al poliziotto brutalmente.

Quello mi guardò come se mi vedesse per la prima volta.

- Io… non lo so! -

- Controlli, che diavolo! –

E aspettai. Attesi, forse per un istante forse per un’ora. Non saprei dirlo né tanto meno vorrei.

Cercai di essere paziente, come lo era stato Ivan.

Cercai di mettere a tacere le urla che sentivo dentro di me, la consapevolezza che si faceva lentamente strada, prendendo sempre più spazio. Instancabile, inoppugnabile.

- No, non era sposato -

E la risposta arrivò, lasciandomi senza parole.

Chiusi gli occhi, lasciando qualche istante al cuore affinché frenasse la sua corsa furiosa contro il tempo.

Non c’era più bisogno di correre.

Perché il tempo non stava per scadere.

Mi alzai in piedi, prendendo la mano di Serena e tirando su anche lei.

Il tempo era scaduto.

Uscii da quel commissariato senza voltarmi indietro.

E ancora oggi non mi vergogno di essere andato via in silenzio, con il mio segreto.

 

§

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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