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Autore: Stylo_B    22/09/2011    19 recensioni
“So che molti di voi sanno chi sono, così come moltissimi tra voi sono assolutamente indifferenti alla mia presenza qui. Non vi biasimo, non è rilevante chi siamo o da dove veniamo, o dove torneremo dopo queste poche ore. Ciò che importa è esserci.
E credo che di questo siamo tutti consapevoli.
Sono Sasuke Uchiha e sono qui per raccontare come la mia vita è cambiata”.

Per non dimenticare.
Genere: Drammatico, Song-fic, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sasuke Uchiha | Coppie: Naruto/Sasuke
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Nota dell’autrice: questo scritto non è inteso per essere banale. A chi arriverà in fondo sarà chiaro il motivo. Per chi avesse già letto altri miei lavori, avverto che lo stile non è il mio usuale; non sarebbe stato opportuno e consono alla tematica.
A tutti, buona lettura.
Stylo_B

 
 
 
“So che molti di voi sanno chi sono, così come moltissimi tra voi sono assolutamente indifferenti alla mia presenza qui. Non vi biasimo, non è rilevante chi siamo o da dove veniamo, o dove torneremo dopo queste poche ore. Ciò che importa è esserci.

E credo che di questo siamo tutti consapevoli.

Sono Sasuke Uchiha e sono qui per raccontare come la mia vita è cambiata”.




“Sasuke… Vieni a letto?”.

“Finisco qui e arrivo. Non farò tardi”.

La donna si avvicinò nella penombra con passo appena udibile, recando una tazza tra le mani. “Posso…?”.

Sasuke non pronunciò l’assenso a voce alta, ma lei capì, posandogli una mano su una spalla. Lesse in silenzio le poche righe scritte. “Sei sicuro di volerlo fare?” chiese togliendo la mano. Sapeva che non avrebbe voluto pietà e che una eccessiva comprensione l’avrebbe irritato. “Di dirlo così?”.

“Non avrei problemi a trovare un altro produttore se mi buttassero fuori”.

Pensava al lavoro Sasuke, alle chiacchiere che ne sarebbero derivate.

“Dicevo per te… Te la senti?”.

“Voglio che sia ricordato…” disse sicuro, voltando il viso al suo indirizzo perché lo vedesse. “Voglio rendergli onore, è l’unica cosa che mi resta”.

“D’accordo”. Lei non addusse altre ragioni, lo baciò sulla fronte e posò la tazza preparata per lui sul ripiano del tavolo. “Ci sarò, con te. Buonanotte”.

Si incamminò verso la camera da letto, conscia del fatto di non poterlo sostenere totalmente come avrebbe voluto, perché le era nota solo una generale visione dell’accaduto. Consapevole che i sentimenti dell’uomo alle sue spalle andavano oltre la sua comprensione e per questo dovevano rimanerle estranei, gelosamente suoi e suoi soltanto.

“Buonanotte…” le rispose quand’era ormai sulla porta.

“Sasuke…? Ti amo”.

“Lo so” girò la sedia per guardarla, quelle parole avevano un valore e non andavano sprecate a caso. “Anch’io ti amo”.

 

“Ho trentacinque anni, sono sposato e ho due figli. Suono in un gruppo musicale che si esibirà a conclusione del mio discorso. Questa è la mia vita ora.

Dieci anni fa non era affatto così.

Dieci anni fa ero fresco di laurea e lavoravo nella compagnia di mio padre, ero il più giovane dell’organico ed avevo già una scrivania e un ufficio personali. Mi veniva continuamente ripetuto quanto fossi brillante.

L’unico aspetto lucente nella mia persona, la mia maschera. Ciò che dimostravo essere a chiunque.

Sotto, c’era tutt’altro.

Anzi, forse più propriamente non c’era nulla. Nulla che fosse degno del mio nome e del prestigio che mi veniva attribuito. Non c’erano legami o rapporti che valessero il disturbo di prendersi una parte del mio cuore, non dopo la morte di mio fratello.

Possedevo tutti i lati di una vita noiosamente ordinaria: avevo una ragazza, un lavoro, degli amici, una piccola band, ma non mi importava nulla di nessuno di loro. Soprattutto la mia ragazza, che ora chiamo ‘moglie’, non ha avuto il benché minimo rispetto da parte mia. I tradimenti erano ordinari, casuali e pieni di noncuranza. Come il destino.

Questi suoi caratteri si sono mantenuti immutati nel corso degli anni, credo che ciascuno lo riconosca.

Eppure devo proprio al destino l’incontro che ha troncato quella routine: accadde alla periferia di Brooklyn, in un bar in cui mi recavo solitamente per bere e reclutare qualche partner occasionale.”

 


Sembrò solo poche ore prima quando aveva varcato quella porta invecchiata e tintinnante, la mano che dalla tasca posteriore dei jeans si ergeva a sistemare i ciuffi nerissimi ai lati del viso, mentre gli occhi perlustravano apaticamente la clientela assiepata, in cerca di un guizzo d’interesse. Al suo ingresso diverse teste si erano voltate con curiosità velata, molti altri si recavano in quel bar con il suo stesso scopo e soppesavano la selvaggina già dalla soglia; alcuni abituè l’avevano salutato.

Tra le anonime figure aveva delineato una schiena ampia e curva, probabilmente su una birra, ma ciò che aveva stuzzicato la sua attenzione era la zazzera bionda che vi stava appollaiata in cima: disordinata, un po’ troppo lunga sui lati e sulla nuca, spolverata da una raggera scomposta d’oro baluginante.

E la sua smodata, selvatica, contagiosa risata. E il modo in cui si afferrava il ventre mentre sghignazzava, infiltrando le dita tra i capelli sulla fronte, non aveva mai visto qualcuno ridere in modo tanto caotico.

Non aveva mai nemmeno visto tanti aspetti fastidiosi e rumorosi concentrati nella stessa persona. Dopo due passi fra i tavoli in direzione del bancone già non poteva soffrirlo.

E, ovviamente, l’unico posto a sedere lontano da quella scimmia vestita era appena stato occupato, mentre si era giusto liberato lo sgabello al fianco dell’essere.  Sasuke era troppo indolente per lasciarsi disturbare, perciò si era velocemente rassegnato all’idea di resistere qualche minuto e proseguire la ricerca di una potenziale scopata. Doveva sfogarsi con qualcuno di accondiscendente, la settimana lavorativa era stata a dir poco seccante.

Poche donne, che sfiga.

Ciò che non aveva programmato era precisamente in bilico su quello sgabello lì accanto, mentre ordinava la sua birra. Quegli occhi. Non mare, né oceano caraibico, né cielo. O lapislazzuli o turchese, o volgarissima acquamarina.

Un azzurro inesprimibile.

E il suo odore. Decisamente sgradevole, di sigaretta intensa e nociva, ma non c’era solo l’usuale odore di cenere di tabacco di un fumatore, c’era… Una tonalità strana di foschia ardente. Un nebuloso aroma, persistente.
 


Prendendo un sorso di tè quasi rise ricordando l’entrata in scena di quella bislacca imitazione di un essere umano. Gli aveva sbattuto contro sbilanciandosi chissà come dal trespolo imbottito, forse in un accesso di goffaggine divertita ed intorpidimento alcolico, rovesciando gran parte della nera schiumosa Guinness che stava tracannando sui suoi pantaloni firmati.

Testa di cazzo.

E poi gli si era incollato addosso come una cozza, biascicando diverse varianti della stessa scusa ben condita dall’ebbrezza evidente, poggiandosi al bordo del lavabo e guardandolo tamponare la macchia più estesa nella zona di una tasca anteriore. Inutilmente, ovvio.

E aveva allungato le mani con una salvietta, ma non sull’altro marchio del danno che ruggiva a cavallo dello strappo sul ginocchio; no, sulla cintura, cercando di sfilarla dai passanti.

“Ehi… Potrei rimediare però, se togliessi questi”.

“Stai dannatamente scherzando!” aveva sbottato con rabbia. “Togli quelle mani e toglitelo dalla testa”.

“Andiamo… Non dirmi che non sei qui per lo stesso motivo”.

“Non di certo per te”. Perché negare il proposito? Inoltre aveva già sperimentato con alcuni uomini.

Se ne stava a guardarlo con quegli occhi orribilmente affascinanti, la nebbia data dalla mezza sbronza diradata da una fioca eccitazione, a pochi centimetri dal naso. E un sorriso odioso stampato in faccia, tra diverse cicatrici di ustioni profonde e rimarginate da tempo che avevano incuriosito non poco Sasuke. Ma come diavolo era finito imprigionato tra quell’impiastro e il lavandino?!

“Come ti chiami?”. Gliel’aveva sibilato con un soffio seducente tra le labbra carnose, dritto sulla bocca. “Io sono Naruto Uzumaki”. Le pupille d’onice in quel ceruleo soffocante si erano incrociate leggermente mentre gli respirava vicino, sporgendosi verso il suo viso ed incrociando le gambe con le sue.

“Togliti”.


 
Nonostante gli anni fossero passati, riuscì ancora a sentirsi amareggiato per i modi bruschi con cui l’aveva scacciato.
 


“A primo impatto, detestai quel giovane che sembrava avere all’incirca la mia età. A pelle, senza nemmeno conoscerlo. Lo considerai irritante e oltremodo ficcanaso.”
 


Si era fatto perdonare, comunque. Anche quell’Uzumaki.
 


“Lo rividi diverse altre volte: in qualche modo riusciva sempre a farsi trovare in quel bar quando vi tornavo, e forse nemmeno io volevo ammettere che prima di entrare dalla porta speravo intimamente che ci fosse. Anche litigarci era interessante.”
 



Non ricordava nemmeno come, ma una sera avevano iniziato a parlare. Dieci minuti di discorsi frivoli, il temporale fuori, il surf, la Borsa che aveva chiuso da schifo, la bionda al tavolo in fondo che ammiccava a Sasuke leccandosi le labbra. Poi un lungo silenzio, in cui avevano semplicemente bevuto e riso della troietta guardandosi sottecchi. E infine avevano ripreso il discorso facendo qualche domanda più personale, com’è il tuo lavoro, di dove sei, che diavolo fai qui se vieni da Hokkaido, finendo irrimediabilmente con l’urtare le rispettive diffidenze e concludere con un ‘Beh, ‘fanculo’… Sasuke la ricordava per essere la prima sera in cui usciva da quel bar con le mutande quiete, senza aver concluso nulla. E senza rammarico.

Era continuata più o meno allo stesso modo per qualche settimana, con meno ‘’fanculo’ e più parole civili. Ah, e meno sbronze: dopo la figuraccia primigenia l’Uzumaki si era mantenuto sobrio in sua presenza, o almeno in decenti condizioni di autocontrollo.

Era un pompiere, l’assurda scimmia bionda, il che faceva sbocciare un tripudio di sensi multipli e poco casti riguardo alla professione. “A fireman on fire just for you!” aveva ghignato e Sasuke aveva quasi riso. A volte gli riusciva, l’essere simpatico. Altre volte gli riusciva d’essere semplicemente sensuale, con quegli occhi tremendi e la bocca sinuosa striata da un sorriso diabolico, ora inclinata appena da un lato e morsa sotto gli incisivi perfetti mentre imitava la donna di turno che ci provava con Sasuke. E lui provava l’irrefrenabile impulso di sbatterlo sul tavolo, immediatamente, ogni volta che lo faceva. Se sbatterci il suo muso su quel ripiano di legno o stenderci la schiena e interpretare diversamente l’istinto, non gli era sempre chiaro.
 


“Con il tempo ci avvicinammo abbastanza da smettere di scontrarci.”
 



Pioveva anche quella sera, la terza consecutiva, e appena dietro l’angolo del bar una grossa pozza sbarrava l’accesso al vicolo buio. La tettoia sporgente dell’edificio limitrofo offriva un po’ di riparo dalla sfortuna liquefatta; le gocce gonfie si lanciavano dal cielo in perle viscose precipitanti sull’asfalto, il traffico perenne alzava vele di acqua fangosa. Sotto a quel putiferio l’Uzumaki l’aveva fermato e trascinato in quell’angolo, nonostante si fossero già congedati e Sasuke fosse speditamente diretto al proprio appartamento.

“Sono stanco di aspettare che ti dia una mossa”.

Le sue mani gli avevano appiccicato i capelli alle guance e il suo odore di fumo e nicotina gli aveva intossicato le narici, insieme ad una sfumatura pungente di mascolinità che non aveva mai colto prima; l’aveva baciato senza troppa invadenza, ma con una buona dose di decisione.

Perfettamente caduto nella rete.

“Nnhg. Uchiha, com’è che non mi respingi adesso?”. Le mani strattonavano già la camicia fuori dall’orlo dei jeans.

O forse sono io ad essere caduto nella sua. Dannazione.

Non erano arrivati nemmeno alla sua macchina, inizialmente. In quel momento l’Uzumaki si era fatto perdonare per avergli imbrattato i pantaloni svariate settimane prima: una volta rialzatosi e afferrata la mano di Sasuke per trascinarlo verso il parcheggio le sue ginocchia erano madide d’acqua ingrigita di catrame ed asfalto, tuttavia nessuna imprecazione gli aveva lambito le labbra. Aveva permesso solo alla bocca altrettanto affamata di Sasuke di farlo, leccando via il suo stesso sapore.
 


Non avrebbe mai scordato quell’episodio. Ingoiando un altro sorso di tè si chiese se anche Naruto lo ricordasse così vividamente e il calore della bevanda lo rassicurò. Sicuramente.
 


Non era mai stato tanto disinibito durante il sesso, come se ne fosse stato crudelmente privato per lungo tempo e fosse stato sottoposto a continui ed ossessivi richiami a quell’istinto primordiale, senza poterlo soddisfare. Al contempo era stato strano, come se fosse stato passivo, e lui non lo era mai. Era rimasto seduto sui sedili posteriori, denudato in brevissimo tempo e immobilizzato alla vista del corpo scandalosamente compatto della scimmia bionda: visto in quella prospettiva, con delirio di penombre a contornare l’effetto, era maledettamente eccitante. L’altro si era mosso su di lui, tirando e contraendo muscoli e tendini, e – oddio – era sublime. E strano perché era caotico e disordinato; lui aveva poca facoltà di movimento mentre l’assurdo biondo si spingeva su di lui e si ritirava con impeto e foga crescenti, eppure stavano godendo immensamente entrambi.

 

Ingoiò a fatica un altro sorso; l’immagine vivida dell’Uzumaki scoordinava il direttore del resto del corpo. La schiena così ambrata e imperlata di sudore, la posa a cavalcioni con le gambe piegate sulla seduta, le unghie conficcate nei bordi soffici degli schienali dei sedili anteriori e la sua nuca che indietreggiava verso la spalla di Sasuke, incontrando il respiro avido dell’Uchiha. Ricordò la sensazione di quella spina dorsale umida premuta contro il petto, le dita che intrecciavano le sue, ancora strette sulle cosce ammorbidite dalla peluria chiara e trapunte di transitori segni a mezzaluna.

“Cazzo, stavo morendo dalla voglia” aveva espirato pesantemente l’Uzumaki.
 


E Sasuke ridacchiò sommessamente, imitando il se stesso di allora.

Una goccia cadde sulla tastiera del pc.

No, non l’avrebbe mai scordato.
 


“Diventammo amici e amanti allo stesso tempo. Ci incontravamo regolarmente, con il piacere di ritrovarsi mai espresso apertamente.” scrisse ancora.
 


Immutato nel tempo, riaffiorò il disagio di rivedersi con altri occhi e si sentì stranito nella consapevolezza di quel Sasuke che un tempo vestiva il suo corpo. Si era compiaciuto di quella vita smodata, ribelle, senza regole, perché Uchiha era al di sopra delle fottute regole. Era strano dispiacersi per aver bistrattato una compagna paziente e stupidamente indulgente, ma allo stesso tempo lo era riconoscere come nell’ottica del vecchio Uchiha quel comportamento non avesse nulla di imperdonabile.

Era strano riconoscere quanto fosse stato infelice prima che lui arrivasse e, ancor oggi, non riuscire a rammaricarsi di quel periodo. Adesso era diversamente felice.
 


"Fu un periodo strano: ero ancora un bastardo traditore verso la mia fidanzata, ma per il mio amante iniziai ad avere un po’ di considerazione. Non so spiegarne i motivi; forse semplicemente per ciò che era, o forse perché non era altro che una persona intrigante ed insolita.”
 


“Hey, Sas’ke”.

Storpiava cronicamente il suo nome; lo detestava, e l’altro lo sapeva, per cui continuava a farlo.

“Ti fa proprio schifo metterci un po’ di entusiasmo?”.

“Che?”.

“Se scopassi con la vitalità che hai normalmente saresti pietoso”.

“Fottiti Uzumaki”.

“Ma non ho detto che lo sei!” si era imbronciato. “Stronzo. Intendevo dire che non è possibile che tu non abbia qualcosa che ti appassioni” e aveva sottolineato il tutto con una suzione rumorosa del suo milkshake.

Lo stava a guardare con quegli occhi da cerbiatto su quella faccia da schiaffi, curioso e indagatore, e ogni volta Sasuke gli toglieva il piacere di riuscire a sondarlo, rimanendo una lastra di fredda impenetrabilità.
 


Ora quasi si sarebbe rimangiato quella cocciutaggine, pensando a tutto ciò che avrebbero potuto provare, vivere, trascorrere insieme. Ma la vita non lascia spazio ai ‘se’.


 
“Dovresti trovare qualcosa a cui vale la pena aggrapparsi. Prendere quella cosa e renderla importante!”.

“Ehi, non sta a te giudicare”.

“Non lo faccio. Dico solo che non sei l’unico con un’esistenza pallosa. Guarda me: cazzo, salvo i gattini dagli alberi, aspiro acqua dalle case allagate o altri compiti idioti e le uniche botte di vita sono quando impedisco che le chiappe di alcuni finiscano arrostite, il più delle volte per colpa loro! Eppure non cambierei mai lavoro”.

“Che ci trovi di interessante, sentiamo?”.

“Mi piace aiutare le persone. Qualcuno ha salvato me quando è stata l’ora”.

“Già, ma i tuoi genitori sono morti”.

Questa me la potevo risparmiare.

“Beh, non siamo infallibili”. Anche quand’era triste o qualcosa lo disturbava il suo sorriso conservava una menefreghista piega d’altruismo.
 


“Il suo stile di vita era più emancipato e libertino del mio, non aveva vincoli, né una donna, né famiglia; ma aveva un credo, una filosofia, una prospettiva in cui incanalare le proprie energie. Aveva ciò di cui ero privo da sempre. Probabilmente fu questo che lo rese prezioso e gli fece guadagnare un po’ di rispetto ai miei occhi.”
 


Era passato apposta davanti alla caserma un giorno, tirando buca alla sua donna che lo aspettava a casa propria per un pranzo riconciliatore: litigavano molto in quel periodo, lei era stressata per la laurea imminente ed era diventata più insofferente  all’idea delle sue scappatelle mai confermate. Era bravo, Sasuke, non si faceva mai beccare. Per quanto fosse meno scaltra di lui, però, la ragazza di Sasuke Uchiha non avrebbe certo potuto essere una femmina qualunque; che l’avesse proposta suo padre poco importava, aveva le carte per imparare a tenergli testa col tempo. E in più era conciliante e comprensiva, come prevedibilmente ogni donna sapeva essere, e tenace, determinata a conquistarlo come suo futuro marito come ben poche erano davvero.

Camminando davanti al portone e adocchiando il parcheggio delle camionette rubiconde l’aveva individuato, appeso ad una scaletta posteriore e intento a trafficare con qualche lungo tubo, nei pressi della gru sul tetto. Una vera scimmia.

“Oi, testone”.
 


Il suo nome… Non era solito pronunciarlo se non in rare occasioni spinte dalla necessità; conservava il soffio di quelle lettere per respirarle sulle sue labbra, quand’erano soli e nudi. In quei momenti si riferiva all’essenza più spoglia di lui, l’unica che portava autenticamente quell’appellativo.
 


“Eh?… Sas’ke! E ti pareva, chi altri potrebbe chiamarmi così?!”. Era balzato giù, sistemandosi i pantaloni neri con le strisce catarifrangenti di quel ridicolo giallo chiassoso. “Che fai qui?”.

“Passavo a vedere se ero riuscito a liberarmi di te”.

E l’altro aveva sorriso come un demone, i canini scoperti al sole. Sasuke era stato afferrato per la cravatta, la cravatta rossa che gli aveva regalato lei, sola ad aspettarlo. Naruto l’aveva trascinato furtivamente dentro all’enorme garage tra tanti cloni del veicolo parcheggiato fuori, ne aveva scelto uno in una zona più riservata e aveva spinto Sasuke su per la scala; l’orgasmo era stato feroce mentre si guardavano con sfida e premevano le mani uno sulla bocca dell’altro per non fare rumore, Naruto l’aveva morso sulla carne tenera delle dita. La trovata più esaltante e concitata delle ultime settimane, ma anche la più rischiosa di sempre perché avrebbero potuto essere beccati con le mani in luoghi poco noti ai più, tranquillamente, da un momento all’altro. Ma Naruto aveva sempre fortuna in queste pazzie irragionevoli.
 


Il Sasuke trentacinquenne sorrise. Aveva proprio culo, quell’impiastro.
 


“Oi, Sas’ke”. Ansimava leggermente parlando sottovoce, rivestendosi del minimo indispensabile. “Di', come butta con la tipa?”.

“…Mi prendi per il culo?”. Sasuke ignorò per un istante il bruciore delle ginocchia, ancora puntate sulla ruvidità della divisa del vigile del fuoco, stesa sotto di loro come giaciglio improvvisato.

“Heh, mi piacerebbe, credimi” aveva riso. “Ma stavolta era il mio turno, no? Dai scemo, dico sul serio”.

“Che cazzo di domande sono? Sono con te, non mi va di parlare di lei”.

“Ok, scusa. Che palle”.

“Perché dovrebbe importarti?! Se sono qui non è certo scoppiato l’amore con lei”.

“Ah, con me sì quindi?”.
 


Ridacchiava continuamente, che odioso!
 


“Fottiti Uzumaki”.

“Mmm”. L’aveva abbracciato.

Che…?

L’aveva circondato con le braccia, poggiando il petto alla sua schiena e sfregando il naso tra i ciuffi sulla nuca. Inammissibile. Non si era mai permesso di farlo.

Ma Sasuke non l’aveva respinto.

“Devo tornare di sotto, sono in orario di reperibilità. Faresti bene ad andare a trovarla, te ne stai fregando un po’ troppo ultimamente”.
 


Perché cazzo l’ha detto poi.
 

Sasuke l’aveva ascoltato alla fine. Il pranzo era freddo, ma lei l’aveva accolto con un bacio e una stretta alle spalle sulla soglia di casa, per poi mettersi a riscaldare le portate. Era riuscito a mangiare, nonostante avesse un’insopportabile nausea.

Non era riuscito ad andarci a letto però; aveva detto di essere stanco. Si era sporcato le labbra di lei, del suo odore fruttato e femminile, e il suo abbraccio si era imposto sul suo torso. Non voleva togliere ciò che rimaneva di Naruto dal resto del suo corpo, non ancora. L’avrebbe rivisto solo dopo una settimana, un viaggio di lavoro lo attendeva il giorno successivo.
 


Era una persona generosa, quasi stupida nel suo non chiedere mai nulla. Non arrogò mai alcun diritto su di me, nemmeno quello di rivendicarmi come suo, cosa che io invece feci più di una volta.”
 


“Che voleva quello? Di che parlavate?”.

“Eh?”.

“Non fare l’idiota con me!”.

“Oh, calmati stronzo!”.

Sasuke era uscito dal locale, scansando le frotte di persone lascive e sbattendo la porta, senza portare via la birra già pagata. Poco dopo l’Uzumaki era uscito portandogliela, beccandolo nel vicolo dietro l’angolo. Era buio anche quella sera, ma non pioveva.

“Se prima di sclerare ti fermassi un secondo, brutta testa di cazzo-”.

“Uzumaki, vai a farti fottere! Tu e quel-”.

“Cosa?! ‘Quel’ cosa? Anche se fosse, che te ne frega?!”.

“Me ne frega eccome! Solo io posso metterti le mani addosso!”.

“Oh, bella pretesa Signor Principe infedele!”.

Unica volta in cui gli aveva chiuso la bocca verbalmente. Erano passati alcuni secondi.

“Mi ha chiesto una sigaretta, ha fatto un complimento riguardo gli occhi e ho tagliato corto, gli ho detto che sono già occupato. Stronzo rabbioso” aveva borbottato. “Non vedo perché non dovrei comportarmi come te, sinceramente. Comunque non mi sta mettendo le mani addosso nessun altro, se è questo che ti preoccupa”.

Non udendo risposta da parte del Principe ammutolito ed impietrito contro il muro, entro pochi minuti aveva girato i tacchi, lasciando la birra in terra. Prima che la sua schiena sparisse oltre lo spigolo di mattoni Sasuke era scattato in avanti, imprigionandolo contro la ruvida parete e marchiando il suo possesso con un bacio profondo ed esigente. La birra si era rovesciata, colando la sua fievole vita sull’asfalto.

“Non ti ho mai tradito” aveva sussurrato prima di andarsene.

“Seh, tranne che con la tua donna”. Gli era arrivata la ribattuta flebile dell’altro, dietro le spalle. Sasuke non aveva smentito, sebbene non toccasse i fianchi di lei da lungo tempo e quella, nonostante tutto, rispettasse la sua lontananza in una muta rassegnazione.
 


Vorrei averglielo detto.
 


“Col senno di poi, ci sarebbero tante cose che avremmo potuto dirci. O meglio, io avrei voluto dire molto; avrei dovuto, perché lui comunicava con tutto se stesso superando la barriera delle parole e dell’educazione che ci separava così profondamente, mentre io sapevo solo oppormi ad ogni avvicinamento. Non azzardavo a constatare la mia situazione a voce alta, non volevo nemmeno ammettere lo sdegno che nutrivo per me stesso.”
 


“Sas’ke?”.

“Mh”.

“Ti andava di uscire stasera?”.

“Perché lo chiedi?”.

“Tu rispondi”.

“S-sì, è un’uscita. Una sera normale”.

“Uhm… Normale. Sì”. Solo per un momento, un breve istante, sembrò deluso dalla risposta.

Sasuke conosceva il motivo della domanda: erano passati undici mesi esatti dal giorno in cui si erano incontrati. Anche se nessuno dei due l’aveva palesato, quella data iniziava ad assumere i contorni impreziositi di una ricorrenza piacevole. Non avevano mai festeggiato nulla, non era un comportamento da Uchiha, né da Uzumaki.

Naruto l’aveva invitato fuori per una cena vera; non quelle ridicole pizze d’asporto che mangiavano sui gradini del condominio dove abitava il vigile, né quelle commerciali riproduzioni del cibo dei loro paesi d’origine che pescavano dalle confezioni di cartone quando ordinavano al ristorante giapponese. Si trattava di un invito autentico, più o meno velato di aspettative. Naruto pareva sentirsi leggermente a disagio nell’ultimo periodo e le sue mani sfiorarono nervosamente il bicchiere diverse volte. 



“Notavo tanti aspetti dei suoi comportamenti, risvolti che avrebbero suscitato domande indagatorie o cenni di vicinanza da parte di chiunque, ma ero troppo orgoglioso per permettermi di rivelare ciò che era già dichiarato in me. Era diventato importante.”
 


Dopo aver mangiato avevano camminato fianco a fianco per diversi isolati, senza toccarsi. Strano per due che finivano a letto per la maggior parte dei loro incontri.

“Beh, sono arrivato. Grazie della cena, è stato divertente” aveva detto Naruto.

“Dici?”.

“E’ stato bello fare qualcosa di diverso dal solito”.

“Mh”.

“Buonanotte, allora”. Aveva tentennato. “Sas’ke… Uh…”. Quegli occhi dilatati erano ancor più tremendi quando si rodevano dall’indecisione, perché gridavano lampi molto significativi e lasciavano ben pochi dubbi su cosa avrebbe voluto dire.

Non può essere. Non puoi… Tu. Non è possibile.

E aveva espirato. “Quando ci rivediamo?”.

“Ah. Domani se vuoi, alla sera non faccio nulla”.

“O-ok. Ha!” e ridacchiava. “Arrivederci quindi, presto. Uhm, sì”. Aveva risalito le scale, fermandosi sul pianerottolo d’ingresso giusto davanti alla porta; aveva ancora le mani nelle tasche, non sembrava avere davvero voglia di entrare. Infine si era voltato, ghignando in direzione di un Sasuke disorientato. “Uh, io… Mi fanno troppo ridere i tuoi capelli, te l’ho mai detto?”.
 


Importante. Prendi quella cosa e rendila importante.
 


“Sasuke!”.

Il suo nome completo, corretto. Era un bel suono pronunciato da lui, non ci aveva mai fatto caso. Doveva essere davvero serio per rinunciare a farlo incazzare.

“Sasuke, mi senti?!”. C’era tanto, tantissimo caldo, e nebbia. Quando aveva respirato di soprassalto gli era sembrato che i polmoni si stessero corrodendo, come se avesse ingoiato delle braci polverizzate. “Sasuke! Riesci a parlare, mi riconosci?”.

Aveva tossito l’anima, così forte che gli occhi parevano potersi cavare dalle orbite, nonostante fossero strizzati al sicuro dietro le palpebre. La gola doleva e tirava, le labbra e il mento si erano sporcati di saliva per gli spasmi incontrollati che gli spezzavano la schiena ad ogni colpo. Gli aveva stretto forte qualcosa, forse un braccio, sperando che capisse.

“Tieni questa davanti alla bocca!”. Della stoffa macchiata gli era stata accostata fino alle narici, una fitta gli aveva urticato una guancia e le fibre della pezza avevano assorbito del sangue vermiglio che colava da una ferita.

“Sasuke, è crollato il soffitto per tre piani incluso il tuo!”. Naruto parlava ad alta voce, quasi gridava e Sasuke si era accorto solo in quel momento del casco che ricopriva i suoi capelli incrostati di nero. Un boato assordante aveva ingoiato parte della frase successiva e Naruto si era sporto per coprire il suo viso con il proprio torso, mentre da un cumulo di rovine polverose alla loro destra si districavano le forme imbiancate di due corpi vivi. “-nel palazzo, sopra di voi, mezz’ora fa. Stiamo evacuando il più possibile, devi muoverti!”.

La sua divisa.

Aveva la divisa, vestito di tutto punto, ma era lurida. Completamente ammantata di candore grigio, quella che poteva identificare come cenere vi faceva presa come un guanto di cemento sbriciolato. Era ricoperto in ogni punto della sua figura da quello strato di malsana opacità che smorzava i suoi colori, spegneva l’oro dei suoi ciuffi e abbruttiva la pelle mediterranea. Lo aveva tratto a sé e Sasuke aveva identificato il resto del proprio corpo: era disteso a terra, con dei calcinacci addosso, i vestiti sporchi e lacerati in svariati punti, una copia più malconcia del compagno. Si era rialzato a fatica, contrazioni dolorose saettavano da ogni punto.

“Ce la fai? Dai, in piedi!”.

Un tremito del pavimento, numerosi pezzi indefiniti che cadevano, urla in lontananza. Passi, colpi, altri individui vestiti come Naruto che entravano, uscivano, gridavano informazioni e ordini. Improvvisamente l’udito si era riattivato al pieno delle funzionalità, trascinando con sé un battito frenetico dal petto.

Sasuke era terrorizzato, iniziava a capire. E soprattutto, a ricordare.

“Josh, le scale reggono?” aveva gridato il pompiere ad un collega poco distante, sovrastando la confusione. Questi gli aveva fatto un cenno sbrigativo col capo e gli aveva lanciato al volo una maschera identica a quella che portava sul viso. “Ok, allora Sasuke, ascoltami bene!”. Lo aveva guardato con un’intensità perforante, e Sasuke si era reso conto che una cosa soltanto di lui non era stata profanata da quell’inferno.

“Prendi questa!” gli aveva detto, cacciando la maschera tra le sue mani insanguinate dalle abrasioni. “Voglio che esci di qui e vai alle scale, sono qui di fronte, ricordi? Tienila, me ne daranno un’altra!” aveva imprecato alla sua insensata resistenza. “Voglio che scendi tutti i piani, non fermarti per nessun motivo è chiaro?!”. L’aveva strattonato per le spalle. “Sasuke, mi hai sentito?!”.

“S-sì”. Sasuke sentiva gli occhi pizzicare e bruciare, avvertiva il suo corpo protestare e affannarsi nel tormento del calore, del dolore, della paura. Non ce l’avrebbe mai fatta.

“Le scale! Puoi farcela, hai capito?! Andrà tutto bene!”.

I suoi occhi.

Naruto iniziava a spingerlo verso ciò che restava dell’uscita: il piano era irriconoscibile, raso al suolo. Non restava nulla di ciò che Sasuke ricordava. Brandelli di stoffe, vestiti, scrivanie e corpi giacevano ovunque. Non riusciva a muoversi.

“Cazzo, Sasuke! Devo andare, c’è bisogno di me!”.

“NO!”. Non si era nemmeno sentito gridare.

Naruto gli aveva afferrato saldamente il volto, sgolandosi a pochi centimetri dalla punta del suo naso; le sue guance erano rigate di pianto. Oltre lo squarcio massacrato nel muro una folla incontrollata si agitava, correndo e caracollando per lo più in una direzione; all’opposto avanzavano solo altri uomini vestiti in giallo e nero, alcuni in blu, tutti ugualmente sporchi e fuligginosi come ogni oggetto distinguibile. L’aria andava arroventandosi in modo sempre più insopportabile.

“Sasuke, scendi le scale! Corri finché non sarai fuori e corri lontano!”.

“Oh, mio Dio! Mio Dio, ce n’è un altro!! Cazzo, un altro!!”. Un uomo coperto di sangue sul viso fuggiva disordinatamente per il corridoio disseminato di feriti e blocchi di quelli che poco prima erano decine di uffici; la sua espressione era di puro terrore.

I suoi occhi.

“Devi salvarti! Giurami che lo farai!”.

Era finita.

“E’ importante Sasuke, sei importante! Ti prego vai! Andrà bene, aspettami giù!”. E lo aveva spinto ancora, cercando di farlo avviluppare dalla folla impazzita perché prendesse l’onda e se ne andasse, perché Oddio, non posso vederti così.

E Sasuke lo aveva detto; era talmente atterrito e sconvolto da non distinguere più le priorità e in quel momento riusciva a pensare solo che non gliel’aveva mai fatto notare.

“Naruto!” aveva gridato quel nome come se ne dipendesse la sua vita, e in parte era così. Diverse persone gli erano sbattute addosso e l’equilibrio si era fatto malfermo, ma arrivato all’angolo della gradinata con il muro sbrecciato era riuscito a fermarsi al riparo. “I tuoi occhi! I-io non ti ho mai-”. Un’esplosione aveva appena fatto tremare le pareti e divorava ogni suono. “-mo! Amo il colore dei tuoi occhi!”.

Naruto aveva esitato. Una frazione di secondo. Il suo volto rappreso nella cenere, illividito da qualche abrasione e bruciatura era stato dilavato delle espressioni. Scivolate via, con le sue lacrime.

Poi le sopracciglia si erano contratte e aveva gridato ancora, a pieni polmoni.

“Salvati! È questa la mia cosa importante! VAI! Ti prego!”.

E il fuoco era divampato alla sua sinistra, in fondo al piano. Naruto si era assicurato che Sasuke iniziasse a scendere, “Andrà tutto bene!”, poi aveva spiccato una corsa affiancandosi ad un collega, sparendo tra fiamme e polvere.
 


 
Sasuke chiuse gli occhi. Si morse un labbro e sentì le dita conficcarsi saldamente nelle tempie. Non bastò.
 
 


Il giorno dopo lesse il suo discorso davanti a migliaia di persone. Il silenzio era assordante: la folla sembrò un unico uomo che respirava in modo cadenzato e regolare. Incalcolabili i volti stravolti dal dolore, ma singulti, voci spezzate, gemiti soffocati non giungevano fino al palco. Arrivava solo il prolungato scroscio d’acqua della gigantesca cascata commemorativa, un gorgogliante sospiro di fondo ad ogni movimento.

Il foglio stampato la sera prima tremava nelle mani di Sasuke, la sua mentre rabbrividiva nel ricordo. Non si curò della voce distorta, della gola serrata o delle guance macchiate di righe salate; non badò al fatto che una marea immobile di occhi lo stessero guardando, occhi sconosciuti, tra i quali sapeva non avrebbe trovato quelli che cercava. Non calcolò nemmeno coloro che conosceva: sua moglie, Suigetsu poco più avanti di lui, gli altri della band, i suoi figli.

In quegli istanti, mentre articolava con difficoltà ciò che gli premeva dichiarare, era come se tutto si fosse fermato e fosse tornato indietro nel tempo, prima che la catastrofe spezzasse migliaia di vite. Era come se lui fosse lì di fronte al suo microfono, ad ascoltarlo. Anzi, come se fossero solo loro due, pelle su pelle in un letto sfatto ancora una volta e Sasuke potesse scrivere ogni parola sul suo corpo venerabile, tracciando le lettere con la punta delle dita.
 


“Dieci anni fa, l’11 settembre 2001, persi qualcuno come tutti voi. Naruto Uzumaki era un vigile del fuoco del New York City Fire Department che intervenne con i suoi colleghi per prestare i primi soccorsi nella Torre 1. Il mio ufficio si trovava al 75esimo piano e lui lo sapeva.”
 



Forse ciò che restava di lui l’avrebbe sentito parlare, ora. Fossero granelli persistenti ed impalpabili nell’aria della città o una qualche forma d’anima permeata nel cielo, sperò segretamente che fosse così perché non gli rimaneva nemmeno una tomba vera con cui parlare.
 


“Naruto un giorno aveva detto che nella mia vita ordinaria avrei dovuto trovare qualcosa di importante, aggrapparmi a questa e dare il meglio di me stesso. Avrei dovuto individuare qualcosa per cui valeva la pena impegnarsi e avrei dovuto renderla importante. Naruto Uzumaki considerava tale il proprio lavoro, perché poteva salvare persone che avevano bisogno di aiuto così com’egli era stato salvato dall’incendio che uccise la sua famiglia. Aveva imparato a vivere da solo, con molti meno agi e fortune di quanti io ne avevo avuti e disprezzati, eppure la sua esistenza era molto più ricca della mia.

Quel giorno Naruto venne a cercarmi, sapeva dov’ero. Spingendomi verso le scale mi fece promettere di arrivare a terra, di sopravvivere, perché ero importante per lui.

Non dimenticherò mai l’espressione del suo volto.”

 


La voce si incrinò maggiormente, un mezzo singulto gli sfuggì.
Ingoiò a vuoto prima di proseguire.
 


“Naruto Uzumaki salvò molte vite sconosciute in quelle ore, ma vorrei rendere onore a ciò che fece per me.

Ho capito cos’era importante. L’unico profondo ed insanabile rimpianto che mi resta è di non averglielo dimostrato abbastanza, o di averlo fatto in parte e quand’era troppo tardi, mosso dalla paura e dalla disperazione.

Naruto Uzumaki mi ha spinto ad aggrapparmi a qualcosa. A rendervi un valore. E così ho fatto di ciò che si era salvato con me, grazie a cui sono diventato ciò che sono ora.

Vi sono ferite che non possono rimarginarsi, lati di noi che non possono andare avanti, che non possono guarire e restano immutati nel tempo. Ciò che è vitale capire, ciò che Naruto mi ha insegnato, è che per quanto sia difficile riuscire a convivere con se stessi, non è impossibile. Per loro, per tutti coloro che sono rimasti indietro permettendo a noi di sopravvivere, a loro va il più grande rispetto e il valore della memoria.

Il mondo potrà notare appena, o non ricordare ciò che diciamo qui, ma non potrà mai dimenticare ciò che loro hanno fatto qui. (*)”

 


Piegò il foglio e lo posò a terra. Le ginocchia fremettero minacciando di cadere.

I suoi polpastrelli si serrarono sul manico del violino elettrico in attesa di essere sfiorato, ormai pronto a piangere le note che Naruto meritava.
 


Non mi ha mai sentito suonare.
 


Sasuke sentì Suigetsu schiarirsi la voce e tirare su appena col naso prima di parlare dagli altoparlanti. Le persone sotto di loro rimasero in religioso mutismo. “Questa è stata scritta per te, Naruto. Riposa in pace”.

Sasuke eresse la schiena, accostò il capo allo strumento come avrebbe fatto con la spalla di un amante e iniziò.  Dietro gli occhi chiusi e bagnati lo immaginò, e gli sembrò ridente e rumoroso come sempre.

Suigetsu lo seguì poco dopo, accordandosi alla musica. Per quanto il compagno cercasse di imbrigliare la voce resisteva quell’ombra malferma di commozione che Sasuke avrebbe apprezzato solo in seguito.
 
 
 

[Yellowcard, “Believe”. Tribute Song to heroes of 9/11  http://youtu.be/eSd_iTChv1Q]
 
Think about the love inside the strength of heart
Think about the heroes saving life in the dark
Climbing higher through the fire, time was running out
Never knowing you weren't going to be coming down alive
But you still came back for me
You were strong and you believed


 

Pensa all' amore nella forza del cuore
pensa agli eroi che salvano la vita nell'oscurità
arrampicandosi più in alto attraverso il fuoco,
il tempo scorreva
inconsapevole che non saresti tornato vivo

Ma sei tornato indietro lo stesso per me
tu eri forte e tu credevi

 


Everything is gonna be alright
Everything is gonna be alright
Everything is gonna be alright
Be strong. Believe.
Be strong. Believe.


 

Andrà tutto bene
Andrà tutto bene
Andrà tutto bene
Sii forte. Credi.

 

Think about the chance I never had to say
Thank you for giving up your life that day
Never fearing, only hearing voices calling out
Let it all go, the life that you know, just to bring it down alive
And you still came back for me
You were strong and you believed

 


Pensa all'opportunità che non ho mai avuto per dirti
grazie per aver rinunciato alla tua vita quel giorno
Senza aver paura, soltanto ascoltando le voci che chiamavano
lasciando andare tutto, la vita che conosci,
solo per portarli fuori vivi

E sei tornato indietro lo stesso per me
tu eri forte e ci credevi


 

Everything is gonna be alright
Everything is gonna be alright
Everything is gonna be alright
Be strong. Believe.


Andrà tutto bene
Andrà tutto bene
Andrà tutto bene
Sii forte. Credi.

 

Everything is gonna be alright
Everything is gonna be alright
Everything is gonna be alright
Be strong.
Believe.

Wanna hold my wife when I get home
Wanna tell the kids they'll never know how much I love to see them smile
Wanna make a change or two right now
Wanna live a life like you somehow
Wanna make your sacrifice worthwhile

 

Voglio stringere mia moglie quando torno a casa
Voglio dire ai bambini che non sapranno mai
quanto amo vederli sorridere
Voglio cambiare una cosa o due adesso
Voglio vivere una vita come te in qualche modo
Voglio rendere utile il tuo sacrificio

 

Everything is gonna be alright
Everything is gonna be alright
Everything is gonna be alright
Be strong.
Believe.

 

Andrà tutto bene
Andrà tutto bene
Andrà tutto bene
Sii forte, credici


Everything is gonna be alright
Everything is gonna be alright
Everything is gonna be alright
Be strong. Believe.

Think about the love inside the strength of heart
Think about the heroes saving life in the dark
Think about the chance I never had to say
Thank you for giving up your life that day.

 
 
 
 

(*) questa ultima frase è stata realmente pronunciata dal Governatore di New York George Pataki, il quale a sua volta l’ha citata dal famoso discorso del Presidente A. Lincoln ‘Gettysburg Address’ redatto in seguito alla battaglia più sanguinosa della Guerra Civile Americana.

La canzone ‘Believe’ è stata incisa e rilasciata al pubblico nel 2003, a tributo dei caduti durante le operazioni di soccorso degli attentati dell’11 settembre 2001. Il gruppo Yellowcard è solito includerla nel palinsesto di ogni esibizione; la sera del 3 Settembre 2011, dopo le parole “I wanna you to believe in something in your life!” (Voglio che crediate in qualcosa nella vostra vita) ho avuto la fortuna di ascoltarla dal vivo: l’emozione è stata indescrivibile.


Questo scritto è inventato, pur essendo imperniato su un episodio reale della storia moderna; riferimenti o analogie verso esperienze realmente vissute da chi è scampato al disastro sono casuali, non si tratta di plagio né di ricerca di prestigio o guadagno; ho scelto questo tema solo per l'influenza emotiva che ha avuto su di me. Per quanto abbia cercato di rendere il tutto realistico, non sarà mai come averlo sperimentato. "Fortuna" per chi vuole pensarlo, sicuramente rispetto per chi davvero non è più tornato.
Grazie per aver letto. 

 

  
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