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Autore: honda    24/09/2011    6 recensioni
Da oggi la mia carta d’ identità è il mio avambraccio sinistro dove è stato tatuato il mio nuovo nome, da oggi dimentico di essere uomo, essere umano, dimentico di essere Takanori Matsumoto, da oggi mi chiamo: 1488189.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Reita, Ruki, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Auschwitz 1944

sento le forze venirmi meno, chiudo le palpebre come se fosse la cosa più faticosa del mondo, come se spostare quella minuscola quantità d’aria frapposta tra le ciglia superiori e quelle sottostanti equivalesse a spostare un macigno. Cinque minuti, mi dico, solo cinque minuti con gli occhi chiusi e mi sentirò meglio. Sbaglio. Al mio risveglio è tutto come prima: la mia implacabile stanchezza, la puzza di piscio e sudore, i lamenti dei vecchi agonizzanti e quelli dei bambini digiuni. Siamo circa un centinaio in questo vagone arrugginito atto a contenere meno di sessanta persone. Sono più di nove ore che non vediamo la luce del sole se non da una piccola apertura in alto a sinistra verso la quale uomini, donne e bambini tendono le braccia  agognanti di ossigeno. Nella mia vita ho visto uomini litigare e picchiarsi a sangue per denaro, puttane o mobili d’ antiquariato, ma non avevo mai visto lottare per l’ ossigeno, né avevo mai visto gente di età maggiore ai tre anni pisciarsi addosso in pubblico. A quanto pare invece l’ uomo in cattività rivela molti dei suoi lati oscuri. Solo cinque minuti avevo detto e invece ne saranno passati almeno una cinquantina. Non mi sono sdraiato, non ho dormito a terra, era impossibile compiere persino il più semplice dei movimenti se questo avesse significato muoversi per più di sette centimetri. Così per cinquanta minuti sono stato in piedi, ad occhi chiusi, con la testa china in avanti. In qualsiasi altra occasione in quelle condizioni sarei sicuramente caduto a terra come un’ albicocca matura si stacca da un albero, ma essendo circondato da più di cento persone era impossibile che ciò avvenisse, erano così vicine a me e mi stringevano così forte che riuscivano a mantenermi in piedi come se fossi legato ad un asse di legno.
Dall’ inizio del viaggio pochi particolari erano cambiati: faceva più caldo e i lamenti erano diminuiti. Ci stavamo dirigendo a nord e di questo ero convinto, perché fuori dall’ apertura in alto a sinistra non scorgevo più né il verde delle foglie né il marrone dei campi, era tutto bianco, una distesa di neve. Il motivo per cui nonostante le basse temperature esterne facesse più caldo era semplice da comprendere, l’ aria che inspiravamo era pressoché la stessa da nove ore, perciò, uscendo prima dal corpo di uno e poi da quello degli altri novantanove, si era riscaldata. Poche ore prima credevo che i lamenti di lì a poco sarebbero aumentati data la stanchezza, la puzza e la fame, invece erano decisamente diminuiti. Molti di quelli che avevano cominciato a lamentarsi dall’ inizio del viaggio avevano cessato di farlo, perché addormentati, svenuti o morti. I restanti avevano compreso che lamentandosi avrebbero solo sprecato energie utili che andavano impiegate per usi migliori come impegnarsi a respirare. Già perché in quel momento capii come l’ impegno potesse essere applicato anche ad azioni che di per sé sono naturali come appunto respirare ed in seguito avrei applicato questo discorso anche per quanto riguarda i sentimenti come amare o avere pietà.
Accanto a me una donna dai tratti mascolini tiene per mano una graziosa bambina dagli occhi grandi e marroni e dai boccoli neri e lucidi. I suoi capelli sembrano così morbidi, fanno venire voglia di intrappolarci le mani e fingere di non riuscire più a liberarle da quelle soffici molle. A quel punto la bambina sorriderebbe mostrando un simpatica fessura tra i denti, dovuta alla caduta di uno di questi, e con voce sonora direbbe “ti ho rubato le mani” pronunciando la ti in modo bizzarro a causa dell’ assenza del dente. Questo accadrebbe in una normale situazione, in cui io incontro questa bambina in un parco e lei invece di giocare si siede con me sulla panchina e mi fa i dispetti finché la madre dai tratti mascolini non le dice che è ora di pranzo. Invece siamo qui, rinchiusi da più di dieci ore ormai in questo vagone e le uniche parole che escono dalle labbra della bambina sono “mamma ho fame svegliati”. La mamma è accanto a me con la testa chinata, non si cura della figlia, è addormentata, svenuta o morta.

Il rumore straziante delle porte di ferro mi sveglia, avrò dormito per altri cinquanta minuti, o forse sono state sette ore dato il dolore lancinante al collo. Le porte si aprono ed i miei occhi vengono abbagliati dalla luce del sole che il bianco della neve riflette in modo quasi crudele. Uomini avvolti in cappotti di lana azzurri da divisa ci intimano prepotentemente di scendere dal treno. Non sappiamo dove siamo, perché siamo lì, chi siano quelle persone e perché dobbiamo scendere da quel vagone, ma i loro fucili rendono chiara una solo cosa, forse la più importante: dobbiamo eseguire gli ordini. Ci muoviamo a fatica, i nostri muscoli sono atrofizzati e di certo il freddo non aiuta, né tanto meno le urla assordanti in tedesco, lingua che avrei imparato a parlare e ad odiare. Do un ultimo sguardo alla bambina dai boccoli bruni, lei mi guarda per un secondo con suoi occhi grandi e caldi per poi rivolgere le sue attenzioni alla madre che, una volta svuotato il vagone, si è accasciata a terra avendo ormai perso l’ unica asse di legno capace di mantenerla in piedi, non era addormentata, né svenuta, era morta. Nessuno di noi conosce il tedesco, ma capiamo che gli uomini avvolti nei loro caldi cappotti ci stanno ordinando di dividerci in tre gruppi: uomini, donne e bambini. Eseguiamo. Mi allontano con il gruppo degli uomini, ma continuo a voltare la testa verso quella testolina boccolosa ancora intenta a risvegliare la madre, poi uno degli uomini armati le si avvicina e prendendola per il braccio la strattona giù dal vagone facendo  cadere i suoi caldi occhi a terra. È da quel momento che iniziai ad odiare la neve, aveva spento gli occhi grandi della bambina bruna.
Arriviamo ai piedi di un alto cancello circondato all’ esterno da un filo spinato, all’ estremità vi è una scritta in ferro battuto “arbeit macht frei”. Più tardi riuscii a tradurre l’ insegna con “il lavoro rende liberi”. Ci fanno entrare dentro il primo stabile in mattoni rossicci e ad attenderci ci sono altri quattro uomini in divisa seduti dietro due scrivanie. Ci ordinano di metterci in fila e ad uno ad uno avanziamo posizionandoci davanti le scrivanie sotto lo sguardo giudice dei quattro. Questi si consultano e poi uno di loro, il più importante probabilmente, grida il verdetto. Le parole che escono dalla sua bocca sono di due tipi: una è “birkenau” e l’ altra è “monowitz”. Alla prima parola corrisponde la fila di destra a cui appartengono i vecchi troppo vecchi e i giovani troppo malati o stanchi, alla seconda corrisponde la fila di sinistra composta da giovani che mascherano stanchezza, fame e paura. Più tardi compresi che a Birkenau corrispondeva il campo dello sterminio, mentre a Monowitz quello del lavoro. La mia fila, quella di sinistra, viene portata in un’ altra stanza dove ognuno di noi viene spogliato e rasato. Ora persino la mia zona pubica è nuda e cerco invano di coprire le mie parti intime, perché no, non voglio che nessun altro oltre me le veda, voglio mantenere la mia dignità di uomo, non voglio che sia violata. Mi guardo intorno e tutti come me tentano di coprirsi con le mani e tengono la testa china  a terra spostando velocemente gli occhi come se muovere le pupille ci aiutasse ad estraniarci da quella situazione così imbarazzante per noi. Quella fu la prima volta che mi vergognai di essere uomo.
Dopo averci fatto vestire con una casacca, dei pantaloni e degli zoccoli, ci mettiamo in fila per essere ribattezzati. Da oggi la mia carta d’ identità è il mio avambraccio sinistro dove è stato tatuato il mio nuovo nome, da oggi dimentico di essere uomo, essere umano, dimentico di essere Takanori Matsumoto, da oggi mi chiamo: 1488189.

Vengo assegnato al block 14, sono il primo del mio gruppo a lasciare gli altri per entrare nella baracca che sarà la mia casa per non so quanto, date le condizioni interne del luogo, spero per poco. Il mio letto che qui è chiamato “cuccetta” è il terzo a partire dal basso, ma avendolo raggiunto scopro che non posso definirlo “mio”. La cuccetta è in legno, non c’ è né rete né materasso e dovrò condividerla con un’ altra persona. Non ho mai dormito con un uomo prima d’ ora, ma a quanto pare in questo posto sono tante le novità che mi attendono, credo che la rasatura dei capelli e dei peli, il mio nuovo nome e la perdita dell’ intimità siano solo un piccolo assaggio di una pietanza che dovrò ingurgitare a forza e per la quale dovrò dire anche grazie. La mia, anzi la nostra cuccetta è parecchio stretta, per questo stendendomi schiaccio il braccio del mio compagno di letto svegliandolo. Questo si gira verso di me e dopo aver aperto appena gli occhi con aria annoiata dice “mm un nuovo haftling ben venuto all’ inferno, se decidi di morire cerca di farlo in silenzio e anche in fretta così starò più comodo”. Sono troppo confuso per offendermi o per prendermela con questo sconosciuto che è già tornato a russare come un attimo prima. Cerco di spostarmi da lui per quanto possibile, così eviterò di svegliarlo di nuovo e di sentire questo caloroso benvenuto, già..di sicuro non fa parte del comitato accoglienza. C’è puzza di muffa qui e non c’è alcun riscaldamento fatta eccezione per un piccolo braciere posto infondo alla stanza, però nonostante questo non sento affatto freddo, in fin dei conti siamo più di duecento persone nell’ intero block. Inizia a farmi male la testa, non so se per il lungo viaggio, per l’ aria viziata, per questo cuscino ruvido di legno o per la mia testa tosata che ora è più soggetta al freddo. È la prima volta che non possiedo neanche             l’ ombra di un capello, non ho ancora avuto modo di specchiarmi, ma credo che per sapere come sono basti guardare gli altri intorno a me. In fondo loro hanno i miei stessi vestiti, le stesse scarpe e la stessa capigliatura o, per meglio dire, la stessa assenza di capigliatura. Come me anche loro hanno come nome un numero, un numero progressivo che serve a tenere il conto di quanti siamo, ma non di chi siamo, quindi siamo praticamente tutti uguali ed io potrei specchiarmi in uno qualsiasi di essi. Ecco che il mio amabile compagno si sveglia e sta volta mi scruta con attenzione e non con sguardo di sufficienza come poco prima. Anche io faccio lo stesso. Osservandolo mi sorge un dubbio, i tratti del suo viso sono molto delicati, fin troppo per un uomo. Forse non è un uomo. Azzardo. Gli chiedo perché proprio una donna sia capitata in quel block abitato da soli uomini e questo/a strabuzza gli occhi per poi richiuderli accompagnando il movimento con una risata che però riesce a contenere elegantemente. Poi torna a guardarmi con quella stessa aria altezzosa di quando lo avevo svegliato. Deve essere proprio strana come persona, anche le sue espressioni del viso sembrano così diverse e incoerenti tra loro. Dice di essere un uomo, che un tempo si chiamava Kouyou, ma che ormai quel nome non gli apparteneva già da un anno e mezzo. Lui si trovava lì esattamente da un anno e mezzo, come fosse riuscito a sopravvivere in questo campo che chiamava “lager” neanche lui sapeva spiegarmelo, sapeva solo di non dover sprecare quelle poche energie ricavate dalle zuppe acquose per mantenere un aspetto da “usatemi come forze lavoro”. Dice che quando i tedeschi si rendono conto che non sei più uno da “usatemi come forza lavoro”, ma uno da “ho freddo e bisogno di cibo” ti spediscono a fare la doccia con gas tossico. Sa molte cose del campo, mi mette in guardia dicendomi che devo stare attento ai miei effetti personali, soprattutto alla giacca e al cucchiaio, che, secondo il parere di un esperto come lui, sono beni inestimabili per noi prigionieri, poiché senza giacca si congelerebbe e senza cucchiaio si morirebbe di fame. Prima di concludere il suo splendido soliloquio Kouyou aggiunge “ah e la regola numero uno è comportarsi come le nostre guardie, le SS, ovvero non bisogna avere pietà”. Gli chiedo cosa intende per non avere pietà e con piacere riprende la sua arringa come se stesse parlando ad una platea di persone distinte. Gesticolando con maestria mi indica un uomo sdraiato nella cuccetta di fronte alla nostra, l’ uomo è giallo in viso e la sua pancia è gonfia, mentre le gambe sono simili a giovani arbusti ancora acerbi pronti a spezzarsi all’ arrivo della prima tormenta. Con sguardo impassibile e voce distaccata mi dice che l’ uomo non arriverà alla sera, quindi tanto vale comprare la sua giacca per un misero tozzo di pane, a entrambi parrà di guadagnare: l’ uno mangerà di più e l’ altro sentirà meno freddo. In realtà il tozzo di pane non farà neanche in tempo ad essere scomposto e trasformato in energia utile all’ organismo che l’ uomo morirà e quindi l’ unico che avrà ricavato un profitto da quello scambio sarà quello che sentirà meno freddo. Kouyou parla tranquillamente della morte di altri esseri umani, mentre io sento già le lacrime rigarmi il volto, immaginare che di lì a poche ore gli occhi opachi dell’ uomo di fronte a me finiranno per spegnersi del tutto mi fa congelare il sangue. Come fa lui a rimanere così impassibile? Come fa lui a pensare di ingannare quella sterile anima in punto di morte? Mi dice che ha imparato a non avere pietà, mi dice che l’ unico modo per sopravvivere alle SS e a se stessi è non avere pietà. Kouyou in quell’ uomo giallastro non vedeva un uomo, bensì un pezzo di stoffa che lo avrebbe riscaldato un po’ di più durante il freddo e lungo inverno reso più freddo e lungo dal lager.  Da quel momento capii che entrando nel campo eravamo stati costretti a cedere la nostra umanità ed in cambio avevamo  ricevuto la bestialità ed il brutale istinto animale.


È mattina, dopo la colazione, se così può essere definito un misero pezzo di pane ammorbidito    dall’ acqua, ci dirigiamo alle nostre postazioni di lavoro. Kouyou è anche il mio compagno di lavoro e credo di essere fortunato ad avere al mio fianco una persona esperta come lui, così eviterò di fare errori. Il nostro compito consiste nel trasportare pilastri di ghisa, ad ogni pilastro sono affidate due persone. In realtà sarebbero necessarie almeno cinque persone, ma le SS ritengono che anche due di noi possano bastare, che importa se si sbagliano. Appena poggio sulla spalla destra il pilastro sento le gambe cedere, ma non devo, mi concentro e cerco di illudermi che dopo questo immenso sforzo riaprirò gli occhi e sarò sdraiato sul mio letto reduce da un brutto incubo. Dopo il terzo pilastro che trasportiamo, dopo il mio terzo risveglio, delle urla in tedesco bloccano i miei passi. La guardia sta gridando ordini contro un uomo che ha fatto cadere a terra il pilastro. Non conosco ancora il tedesco, ma so che gli sta ordinando di rialzarsi, il poveretto non ce la fa, forse qualche osso della sua gamba ha ceduto, così senza altri indugi la guardia punta la sua pistola sulla tempia del disgraziato e senza neanche il tempo di fargli chiudere gli occhi sferra il colpo. Mi sento paralizzato. Per la prima volta ho visto un uomo uccidere un altro uomo e non riesco a muovere un muscolo, se non fosse stato per le ripetute sollecitazioni di Kouyou sarei rimasto per ore a fissare il sangue che cadeva lento dalla testa ormai infranta dell’ uomo. Ci hanno tolto i vestiti, i capelli, il nome, l’ umanità, non credevo che ci avrebbero privato anche del nostro sangue. E procedo con il pilastro di ghisa sulla spalla destra, passo dopo passo, continuando a mantenere lo sguardo fisso su quel rivolo rosso di vita.  


Giunta la sera, dopo più di dodici ore di lavoro con un interruzione di circa mezzora per il pranzo, ritorniamo al block. Non possiamo camminare come vogliamo, non possiamo barcollare liberamente per la stanchezza né sederci qualche minuto per riprendere le forze. Dobbiamo camminare in fila indiana con passo svelto e postura eretta. Il percorso che facciamo è diverso da quello dell’ andata, ora passiamo ai margini del campo vicino al filo spinato e rivolgendo lo sguardo oltre di esso vedo quello che non avrei mai voluto. Un gruppo formato da una decina di donne sta scavando delle buche, sembra che per tutta la vita non abbiano fatto altro che spalare neve, è una vita che scavano, ma non riescono ad eliminare del tutto la neve, forse non ci riescono neanche d’ estate. Riconosco che sono donne solo dalla leggerezza delle loro voci, per il resto nulla le distingue da me, da Kouyou e da tutti gli altri uomini. I seni sono ormai scomparsi a causa della triste denutrizione che affligge ognuna di loro e quelle poche che non li hanno persi del tutto perché molto prosperose sono obbligate a coprirli con la casacca dataci come unico vestiario. È come se le donne fossero state costrette ad essere uomini, ora solo il ciclo mestruale le divide da noi, ma forse a causa della fame è venuto meno persino quello.
Raggiunto il block mi rifugio nella mia cuccetta, ho fame, freddo e sonno, ma per il momento non soffro la mancanza di cibo, calore e riposo, perché i miei pensieri sono altri. Penso a questo giorno, il mio primo giorno nel campo, penso che voglio andarmene, che non ce la farò a sopportare la vista di altri morti e altra sofferenza. Sto odiando la neve non più simbolo di freschezza e allegria, ma di minaccia e asfissia, più la osservo e più sento l’ aria mancare. Sto odiando il sole che non irradia il cielo con i suoi raggi caldi e lucenti, ma si nasconde meschino dietro le coltri di nebbia. Sto odiando il cielo che non è limpido e azzurro, ma riflette l’ immagine del campo come uno specchio, cosicché mi sento ancora più in trappola, non solo sono in un lager, ma esso è anche sopra di me. Forse sto odiando anche Dio, in fondo se sono qui è per causa sua e penso che si stia prendendo gioco di me, perché non solo mi ha messo in questo guaio, ma non allevia neanche il mio animo donandomi allegria con la neve, calore con il sole e libertà con il cielo. Stanno scendendo delle lacrime sul mio viso, in realtà non le sento scendere dato che per il freddo la pelle delle mie guance ha perso sensibilità, ma cadendo sul mio cuscino di legno fanno rumore, così inizio a contarle una ad una fino alla fine. Ricorderò per sempre quella notte, ricorderò per sempre quelle lacrime, le ultime che sono stato in grado di versare.


Oggi Kouyou ha voglia di parlare, è tutto il giorno che tenta di avviare una conversazione, ma io sono stanco e non ho né la voglia né la forza di nasconderglielo. “Takanori io oggi devo festeggiare” “Kou una delle tue regole per sopravvivere è  risparmiare le energie, quindi zitto e riposa il cervello” “aaaa vedo che hai indossato la maschera da duro..non sembri più un agnellino tosato come il primo giorno” “smettila, dopo quattro settimane passate qui persino il più tenero degli agnellini si trasformerebbe in un lupo famelico” “si certo lo so è come dici, ma io oggi devo festeggiare!” “Kouyou stiamo congelando, abbiamo più di un quintale di ghisa sopra la spalla e i nostro stomachi sono colmi di acqua e nient’ altro!! Cosa cazzo hai da festeggiare?”. Mi fa incazzare perché è proprio strana come persona, a volte mi tratta con superiorità guardandomi come se fossi il più puzzolente dei rifiuti, già come se anche lui non lo fosse, mentre altre volte mi propina delle dritte molto utili. Ed ora dice di voler festeggiare, che nervi. Bene non aspettava altro che io gli facessi quella domanda, così si accinge ad iniziare uno dei suoi più lunghi monologhi. Mi dice che questo è un giorno speciale perché sono ben tre anni che sta insieme al suo ragazzo. Sapevo che era gay, perché lui sul braccio ha la fascia che riporta il triangolo rosa, mentre io ho la stella di David. Quindi io ero finito in quell’ inferno per amare Dio e lui, bè..per amare il pene di Yuu, il suo ragazzo. Mi parla di Yuu come se fosse presente, come se gli stesse stringendo la mano, è alto, moro ed i suoi occhi sono marroni e caldi come la sabbia del deserto infiammata dal sole di mezzogiorno. Non credevo che un frigido come Kouyou fosse capace di simili metafore, in realtà anche la sua voce è diversa ora, è più morbida e profonda, è come se lui parlando dell’ uomo che ama avesse riacquistato la sua umanità. Il suo cuore batte per lui, i suoi occhi potrebbero versare lacrime per lui, è Yuu la sua umanità. Mi racconta anche del giorno in cui sono stati presi dalle SS: era inverno e fuori diluviava, avevano passato la serata a casa di Kouyou e li attendeva una nottata piuttosto movimentata. Non erano riusciti neanche a finire la cena che subito avevano iniziato a spogliarsi l’ un l’ altro tanta e irrefrenabile era la voglia e il bisogno di toccarsi. Si divertivano a costruire delle scenette, quella era volta in cui Yuu era il marinaio che finge di essere il capitano di una nave e Kouyou la giovane pastorella vergine che sa che quello è un semplice marinaio bugiardo, ma ci sta lo stesso. Kou era stanco di fare sempre la parte della povera verginella, secondo lui alla sua persona si addiceva di più la parte della regina mangia uomini o della figlia più bella del sultano la cui mano è pretesa da tutto l’ oriente. Però finiva sempre per accontentare i gusti più modesti e anche leggermente volgarotti dell’ amato. Quella sera la pastorella fece appena in tempo a perdere la sua verginità, che tre SS entrarono nella camera armati di fucili. I due vennero fatti salire su un treno diretto ad Auschitz senza neanche il tempo di vestirsi completamente e fare i bagagli. Kouyou non vedeva il suo amante da quella notte, il vagone che li trasportava non era lo stesso e una volta arrivati a destinazione chissà a quanti block di distanza si trovavano. Era un anno e mezzo che non si vedevano. Ora la voce di Kou è ritornata quella di sempre, dice di essere dimagrito parecchio, di essere divenuto molto più brutto rispetto a come era prima “questa è la triste storia di un cigno che diventa anatroccolo”. In effetti il suo corpo è magro e pallido, il viso scavato e screpolato per il freddo, ma nonostante tutto si vede che è bellissimo, io stesso il giorno del nostro primo incontro lo avevo persino scambiato per una donna a causa dei suoi lineamenti delicati. Dopo una breve pausa sorride fissando il vuoto e dice che sicuramente anche Yuu sta pensando a lui in quel momento “se mi vedesse ora direbbe: ma guarda come sei dimagrito!! Ed io come faccio a montarti? Ti spezzerai!” già..Yuu è la sua umanità..a questo punto mi chiedo dove sia la mia.


Oggi prenderò parte alla prima selezione qui al campo. Kouyou mi punge il dito con un fil di ferro e mi suggerisce di cospargere qualche goccia di sangue sulle guance, così apparirò più sano. Non so se definirlo mio amico, forse si, però se lui fosse in punto di morte baratterei il mio pane per la sua giacca, in fin dei conti è stato proprio lui a dirmi di non avere pietà. Ora cammino per il campo guardando di fronte a me, non volgo più lo sguardo oltre il filo spinato, se ai miei piedi cadesse un uomo con la tempia lacerata da un proiettile, io alzerei la gamba e passerei oltre. Ora non guardo più il cielo, né il sole e in quanto alla neve..la calpesto. Non faccio più domande al mio Dio, per il semplice fatto che parlerei da solo, perché lui non esiste.
Le file sono molto lunghe e ci vorranno delle ore, ma l ‘estenuante attesa è sicuramente preferibile al devastante lavoro. Il capo delle SS deve giudicare ogni uomo e indirizzarlo nell’ area di destra o in quella di sinistra. Dopo una decina di uomini malati e storpi che vengono mandati a destra, è semplice intuire che quell’ area potrebbe essere ribattezzata con “area della morte”. Sia l’ uomo davanti che quello dietro di me stanno tremando, anche loro hanno avuto la mia stessa intuizione e muoiono già ora all’ idea di poter morire poi. Io no, non tremo, ormai veder morire o pensare di dover morire non suscita in me nessuna emozione e se prima credevo che i tedeschi avessero l’ obiettivo di ridurci ad esseri animali, a belve feroci ed egoiste, ora credo che il loro intento sia quello di renderci macchine. D’ altronde persino un animale sfugge impaurito di fronte al suo predatore, io invece, essendo stato privato anche della paura, non posso essere più neanche una gazzella che scappa da una tigre. Non ho più neanche un cuore capace di accelerare i suoi battiti in preda al terrore, non ho pietà degli altri prigionieri né di Kouyou né di me stesso. Sono una macchina. Ora è il mio turno, avanzo con decisione, come se non fosse giunto il momento in cui sono in bilico tra vita e morte, ma come se stessi in fila per la solita zuppa annacquata. Guardo negli occhi il capo delle SS, poi il suo sguardo si abbassa e procede all’ analisi del mio corpo.

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Oggi è una giornata come le altre. Sono due anni ormai che le mie giornate sono come le altre. Se ho fame mangio, se ho freddo mi copro, se ho sonno dormo. Prima di dormire ogni notte mi avvicino alla finestra e contemplo quello che avevo definito “il mio regno”. Ricordo benissimo il sorriso fiero e lo sguardo soddisfatto del mio primo giorno qui al campo. Osservai dalla finestra della mia stanza il lager di notte, c’ era il filo spinato, i lampioni per illuminare e le sirene pronte a suonare la mattina seguente. Poi guardai l’ infinita schiera di block e mi sentii potente, perché mentre io avevo una stanza solo mia, un bagno e un letto, le persone che abitavano quelle baracche condividevano lo spazio insufficiente, pisciavano dentro secchi e dormivano su delle tavole di legno. Pensai che quello fosse il mio regno, perché in fondo tutte quelle persone erano nelle mie mani e sarebbero morte o vissute per un mio si od un mio no. Questo mio stato d’ animo durò poco più di una settimana e poi..continuai ad osservare ogni notte il filo spinato, i lampioni, le sirene e i block, ma a quel punto erano solo un filo spinato, dei lampioni, delle sirene e dei block, a quel punto quello non era più il mio regno ed io non ero più potente, ma solo Ryo.
Ricordo perfettamente il volto del primo uomo che mandai a morire e ricordo anche che quel giorno più volte pensai a come sarebbero stati i suoi occhi una volta divenuto cadavere. Degli uomini che feci uccidere poi e di quelli che faccio uccidere tuttora non ricordo neanche un particolare e a loro non mi capita mai di pensare, né da vivi né da cadaveri. Hanno tutti uno stesso volto e uno stesso sguardo, la stessa paura e la stessa voglia di continuare a vivere. Per me non sono neanche degli uomini, sono solamente lavoro da svolgere.
Oggi è giorno di selezioni e gli esseri di fronte a me si dispongono in fila. Dopo aver passato in rassegna i primi dieci è chiaro anche a loro che l’ area di destra è destinata ai futuri morti e quella di sinistra a coloro che morranno certo, forse tra due giorni, tre settimane o un mese, ma non oggi. Avverto la loro smania, la loro paura e proseguo con la mia analisi numero dopo numero, non provo nulla per loro, la loro morte o la loro vita non mi rende né triste né soddisfatto, non ho pietà. sono solo lavoro da svolgere ed io..sono solo una macchina.
“Avanti il 1488189” dico con tono risoluto e sguardo inespressivo. Si fa avanti un ragazzo dalle piccole dimensioni, gambe piccole, braccia piccole e mani piccole “è davvero piccolo” penso. Il solo fatto di essermi soffermato qualche secondo a pensare ad uno di questi che un tempo erano uomini mi rende confuso. Questo non ha nulla a che vedere rispetto a come mi sentirò da lì a qualche minuto e soprattutto da lì a qualche mese. Durante le selezioni bisogna prendere in considerazione l’ aspetto fisico analizzandolo in ogni minimo particolare, perciò procedo lentamente dall’ alto in basso, dalla testa ai piedi. Però mi capita una cosa alquanto strana, per quanto lentamente io possa analizzare i corpi, ora il tempo sembra essersi fermato. E il motivo di tutto ciò è in piedi davanti a me. È la prima volta che incontro lo sguardo di uno di loro, in genere hanno la testa chinata verso il basso o le pupille rivolte in alto perché intenti a pregare, nessuno di loro mi ha mai guardato. Questo invece mantiene lo sguardo fisso su di me, non c’è paura nei suoi occhi né desiderio di vita o di morte, non trema nell’ attesa del mio verdetto. Continuo ad osservarlo dall’ alto verso il basso, ma irrimediabilmente il mio sguardo ritorna a posarsi sul suo sempre uguale, freddo e inespressivo. In un attimo capisco, la risposta è nei suoi occhi, è diverso da tutti gli altri come lo sono io, lui non prova terrore né dolore come gli altri prigionieri, allo stesso modo io non provo soddisfazione né godimento come le altre guardie. Come lui non versa lacrime di disperazione, io non mi compiaccio del mio potere. Guardandolo vedo me stesso, lui, come me, è una macchina.


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Noi prigionieri appartenenti al block 14 ritorniamo nella nostra baracca e mi rendo conto che siamo notevolmente diminuiti solo perché nel block fa più freddo. Non avrei mai immaginato che un giorno pensando alla perdita di più di sessanta vite umane mi sarei dispiaciuto solo per la privazione dei loro respiri in grado di riscaldare l’ ambiente. Ma è così..quelli per me non erano compagni di sventura, ma utili bracieri umani. Dopo circa un’ ora nel block entra una guardia, chiama il mio numero e mi ordina di prendere i miei oggetti personali, questa baracca non sarà più la mia casa. Così infilo gli zoccoli, prendo la giacca e il cucchiaio, poi mi giro verso Kouyou che sta dormendo. Quando sono venuto dormiva ed ora che me ne vado dorme, nonostante il viso scavato e la testa calva è davvero bellissimo, non sarà più il mio compagno né di lavoro né di cuccetta, molto probabilmente non ci vedremo mai più, ma decido comunque di non svegliarlo, in fondo non sento il bisogno di salutarlo.
Il mio nuovo block è il numero 63 ed è molto diverso dal precedente. Innanzitutto è decisamente più piccolo, inoltre ci sono meno della metà delle cuccette e ognuna di esse è affidata ad un solo prigioniero. Qui non fa freddo e non per la presenza di molti respiri, ma perché ci sono ben cinque bracieri. Cuccetta privata e riscaldamento abbondante qui al campo sono sinonimo di lusso, ma mi chiedo cosa abbia fatto proprio io per potermi meritare una simile scalata sociale. Il giorno seguente vengo condotto al mio nuovo lavoro, con il mio gruppo entro in uno stabile in mattoni grigi dalle ampie dimensioni e lì ad attenderci c’ è il capo delle SS, lo stesso che il giorno prima aveva svolto le selezioni. Il nuovo lavoro non si svolge in coppia, ma singolarmente “porca troia sarà più faticoso” penso, ma mi sbaglio, il mio compito ora è semplicemente quello di prendere i cadaveri e gettarli nei forni crematori. Niente a che vedere con la ghisa ovvio, quindi mi ritrovo ad alzare circa cento corpi al giorno di uomini, donne e bambini e sono anche felice del fatto che qui al campo ci mantengano in uno stato di aberrante denutrizione, così non faticherò troppo per alzare i cadaveri. Non li guardo neanche, a che servirebbe? E poi..dopo averne guardato uno è come averli guardati tutti, uomini, donne e bambini che differenza c’ è? Sono tutti identici. Alzare i loro corpi e gettarli nei formi per ridurli in fumo per me equivale ad alzare dei sacchi di patate e gettarli nei forni per far uscire purè. In fondo non è questo? Polverizzare cadaveri e schiacciare patate hanno come unico obiettivo quello di risparmiare spazio.
Mentre continuo ad alzare e gettare corpi il capo delle SS si avvicina lentamente a me e con un rapido movimento infila la sua mano nella tasca della mia giacca per poi tirarla fuori con altrettanta velocità. Non mi dà neanche il tempo di alzare la testa e guardarlo che subito si allontana da me, così metto la mano nella tasca e con estremo stupore sento delle molliche di pane tra le dita.



È più di una settimana ormai che almeno due volte al giorno il capo delle SS durante il lavoro si avvicina a me furtivo per riempirmi di pane la tasca della giacca. Non conosco il motivo di così tanta premura né sinceramente mi interessa conoscerlo, è solo insolito. Il mio aspetto grazie a queste abbondanti donazioni è decisamente migliorato e devo ancora abituarmi all’ assenza dei crampi allo stomaco, miei compagni di vita da oltre tre mesi ormai. Al mio benefattore non rivolgo neanche lo sguardo né tanto meno parole di ringraziamento, in fondo non sono stato mica io a chiedergli del cibo e se smetterà di rifornirmi andrà bene lo stesso, io non reclamerò nulla.
È quasi ora di tornare al block, ma un carico di oltre venti cadaveri è stato scaricato alla mia postazione, così mentre tutti gli altri vengono congedati io rimango lì continuando a gettare i corpi nel fuoco. Il capo delle SS rimane qui a vigilarmi seduto su una sedia in legno probabilmente piena di tarme, perché dopo poco questa si spezza facendo cadere il suo culo comodo a terra. Mi sorprende perché non mi ordina in malo modo di aiutarlo ad alzarsi, né mi insulta furente per aver fatto una brutta figura. Al contrario rimane in silenzio e continua ad osservare il mio lavoro, non sarò di certo io a propormi di aiutarlo. In quel momento l’ idea di offrirgli la mia mano non mi venne in mente neanche per un secondo, ripensandoci mi stupisco della mia totale assenza di altruismo o gentilezza, non verso gli altri, ma verso quell’ uomo che mi forniva del cibo extra senza chiedere nulla in cambio.
Ho quasi finito di gettare nel forno i corpi rimanenti, il capo delle SS si alza da terra e continuando a mantenere lo sguardo fisso su di me mi dice di andare, continuerò domani. Ho sempre pensato che l’ obiettivo dei tedeschi fosse quello di sfinirci fisicamente e di logorarci mentalmente, quindi il fatto che una guardia ora mi inviti a smettere di lavorare non è solo insolito, ma ha anche un non so che di inquietante. Il giorno seguente ritorno alla mia postazione e come di consueto la tasca della mia giacca si riempie di pane, ma sta volta un altro prigioniero riesce a catturare i rapidi movimenti del mio benefattore. Finito il lavoro il mio compagno si avvicina furtivo a me e mi intima minaccioso di vuotare le tasche. Il capo delle SS chiama a sé il numero, lo fa inginocchiare e spara. Tutto ciò avviene nel giro di qualche minuto, ma riesco perfettamente a rendermene conto, un uomo è morto a causa mia e ciò non mi turba minimamente, se la sua giacca non fosse intrisa di sangue gliela sfilerei. La guardia mi ordina di gettare il corpo nel forno e di non fare parola con nessuno di quanto è avvenuto, ora sto per andarmene, ma la nera pelle lucida del suo guanto blocca il mio polso. “Finora non mi hai mai ringraziato” dice, così non guardandolo neanche mi affretto a dirgli grazie, ciò che voglio ora è solo andare a dormire. “Il mio non era un ordine, non volevo che mi ringraziassi, era solo una semplice constatazione” poi indica la fascia sul mio braccio arrecante il mio numero e aggiunge “1488189..com è che ti chiami?” questa domanda mi coglie di sorpresa, nessuno eccetto Kouyou mi aveva mai chiesto quale fosse il mio nome dopo essere entrato qui al campo e da oltre un mese nessuno più mi chiamava, dato che da oltre un mese ero stato trasferito in un’ altra area lontana dal block 14 e lontana da Kouyou. “Io ero Takanori” dico sospirando, mi sento molto stanco “Takanori…io sono Ryo” dice la guardia guardandomi fisso negli occhi. Il mio nome ha un suono diverso pronunciato da quest’ uomo, ripetendolo non abbandona il suo accento tedesco perciò ciò che ne esce è simile al rumore della ferraglia, stride nelle mie orecchie, è fastidioso. Io continuo a guardarlo, sinceramente non so che farmene del suo nome, insomma non lo posso né mangiare né posso usarlo come cuscino per dormire o come coperta per coprirmi, quindi vorrei che la smettesse di rimanere lì in attesa di qualche mia domanda del tipo “perché mi dici il tuo nome?” o “perché mi chiedi il mio nome?” o “perché mi dai del cibo?” o anche “perché hai ucciso un uomo per difendermi?” bè se è questo che si aspetta, può anche rimanere qui impalato in eterno, perché a me non interessano le sue risposte. “Seguimi”.


Ryo mi porta nel suo alloggio, ci abbiamo messo molto a raggiungerlo, non perché fosse lontano, ma perché abbiamo proceduto lentamente per evitare che qualcuno ci vedesse insieme, non so cosa voglia da me, ma mi sta facendo incazzare perché mi ha sottratto già un’ ora di sonno. Sono oltre quattro mesi ormai che non vedo una vera stanza, un vero letto e un vero bagno. “Takanori spogliati” non capisco se sia un ordine o un invito, non riesco ad inquadrare il suono della sua voce, ma spero che non pronunci più il mio nome, perché ad ogni lettera che esce dalla sua bocca le mie orecchie sanguinano. Mi spoglio velocemente e senza imbarazzo, il me di un tempo sarebbe morto in una simile situazione, ma da quando sono nel lager l’ immagine del mio corpo nudo di fronte agli altri è paragonabile all’ immagine di un cane che attraversa la strada, un corpo nudo qui passa inosservato e ci si accorge solo se ci si va a sbattere e si avvertono le piaghe presenti sulla pelle. Ryo mi dice di farmi un bagno e di usare quanto sapone voglio, bè mi avrà anche tolto un’ ora di sonno, ma se mi offre un bagno rigenerante sento che non ce l’ avrò con lui più di tanto. Esco dalla vasca e nudo e bagnato mi siedo sul letto, gli bagnerò le coperte e forse sta notte avrà freddo, ma non è un mio problema, anche io in questi mesi ho avuto freddo. Ryo ora non è qui e sapere dove si trova non mi interessa, sono stanco e mi stendo sul letto, ormai sono completamente asciutto e ho freddo, ma non posso rivestirmi perché i miei vestiti non sono più sul pavimento. La sua mano calda mi sveglia toccandomi la spalla, è diverso da quando mi aveva preso il polso, ora non indossa più il guanto di pelle e la sua vera pelle a contatto con la mia fredda e piagata sembra ancora più calda e liscia. Ora sono entrambe le sue mani a toccarmi e non più sulla spalla, ma sulle gambe, ad ogni suo tocco sento la mia pelle riscaldarsi, è come se mi stesse accarezzando per rimarginare le piaghe sulla mia pelle causate dal freddo. Lentamente mi infila dei vestiti asciutti e puliti, più profumati e più nuovi dei miei precedenti e prendendomi dalle braccia mi rialza dalla coperta del suo letto ormai custode della mia sagoma bagnata. “A quanto pare dormirò con te sta notte Takanori, le mie lenzuola sono impregnate dell’ acqua scivolata dal tuo corpo” me lo sussurra piano come se volesse cullarmi con la sua voce, stupido idiota non sa che odio sentirlo pronunciare il mio nome. Ritorno al block sperando che nessuno si sia accorto della mia assenza, guarda un po’ se devo passare dei guai per i gesti inconsulti di questo squilibrato, chissà poi perché continua a farmi dei favori che non gli ho assolutamente chiesto. Non mi interessa, ciò che importa è che ora non puzzo più di sudore, piscio o morte.
Per una settimana Ryo ha continuato a portarmi nella sua stanza, ha continuato a farmi spogliare e a farmi lavare nel suo bagno, ha continuato a farmi stendere sul suo letto, a riscaldare le mie gambe piagate e a rivestirmi con vestiti puliti, per una settimana Ryo, il capo delle SS, ha continuato a dormire nelle sue lenzuola inumidite dal mio corpo bagnato.
Ora sono steso sul suo letto e, diversamente da quanto accade le altre volte, non mi addormento subito. Cerco di resistere perché fuori sta piovendo, ed io ho sempre amato il rumore della pioggia. Molte altre volte qui al campo ha piovuto, ma in quei momenti ho profondamente odiato la pioggia che causava solo danni bagnandomi durante il lavoro e debilitando la mia salute durante la notte a causa della troppa umidità accumulatasi nel block. Si sa..la pioggia cadendo può arrugginire una macchina. In questo momento però non sto lavorando e non sono neanche nel block, sto in una stanza steso sul letto, perciò riesco a non odiarla. Mi sforzo di non cedere alla stanchezza per poter continuare ad ascoltare le gocce che battono sul vetro della finestra, se la macchina è al coperto non corre il rischio di arrugginirsi. Mi giro a pancia in sotto e poggio metà del mio viso sul cuscino, bagnerò anche questo, mentre l’ altra metà è rivolta verso la finestra, verso la pioggia. Ad un tratto sento le mani sempre calde di Ryo afferrarmi i fianchi, solleva il mio bacino per poi infilare prima una e poi due sue dita nel mio orifizio, anche se non avessi mai ascoltato i racconti di Kouyou sui suoi momenti di intimità con Yuu avrei comunque capito che stavamo per fare sesso. Io continuo a cercare di non addormentarmi per ascoltare quanto più possibile la pioggia che cade sempre più veloce, come sempre più veloci si fanno anche i movimenti di Ryo che è entrato dentro di me. Spinge in modo ritmato e sento un piacere immenso avvolgermi e quasi cuocermi dentro, ma è solo…piacere e con esso non posso placare la fame e il freddo né curare i piedi lacerati dai duri zoccoli in legno, non me ne faccio nulla del piacere io. Un’ ultima spinta, la più intensa per pressione e per piacere, e Ryo viene dentro di me sussurrandomi all’ orecchio “Takanori…ti amo”. Ed ecco che sento il lacerante rumore di ferraglia simile allo stridere delle rotaie del treno in partenza sulla ferrovia, odio quando pronuncia il mio nome. Arriccio il naso in una smorfia di disgusto misto a dolore e abbassando il viso noto le coperte macchiate del mio sangue. Mi hanno portato via il mio nome, i miei capelli, la mia umanità ed ora il bastardo si è anche preso il mio sangue, continuo ad ascoltare la pioggia rimanendo con il bacino sollevato, sento lo sguardo di Ryo in cerca del mio. Posiziona il suo viso davanti al mio, coprendomi così la visuale della pioggia “non hai mai pronunciato il mio nome…chiamami..ti prego” prima dirò il suo fottuto nome e prima si sposterà lasciandomi vedere la pioggia “Ryo” dico atono e inespressivo. Sospira. “Sta notte dormirò con l’ odore del tuo sangue”. Non aspetta una mia risposta, sa che è inutile attendere, perché non mi interessa rispondergli. Devo ritornare al mio block, esco dall’ edificio e continua a piovere. La pioggia mi sta bagnando, dopo sentirò freddo, ora la sto odiando, ora non sono al coperto….la macchina potrebbe arrugginirsi.


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Entro nella stanza e Takanori è steso sul mio letto. Adoro la sua pelle, è bella perché è reale e non mente. I suoi occhi sono glaciali e inespressivi, non comunicano nulla, invece la sua pelle è cosparsa di ulcere, sta gridando per lui. Ecco perché ogni sera accarezzo le sue gambe, dono conforto alla sua pelle, lui non riesce ad ascoltarla perché chiuso nelle mura di ferro che è stato costretto a costruire per sopravvivere alla crudeltà del lager. Lui è inconsapevole di ciò che è diventato, anche io ero così, anche io ero una macchina, ma ho smesso di esserlo quando ho incrociato il suo sguardo affilato. Da quel momento il pensiero di lui non abbandona la mia mente ed io non ho intenzione di scacciarlo. Non so se perché nei suoi occhi ho visto i miei e quindi ho provato compassione per me stesso, ma ho sentito da subito lo sfrenato bisogno di aiutarlo e questa è una necessità che anche ora continua a percuotermi ed io non gli chiederò di smettere.
Sta piovendo e Takanori è steso sul mio letto a pancia in sotto con il viso rivolto verso la finestra. Non sta dormendo, riconosco il suo respiro quando dorme, è lungo e pesante e di tanto in tanto è strozzato da qualche gemito accompagnato da calde lacrime che gli rigano il viso screpolato. Non gli ho mai detto che piange nel sonno, non perché non voglio rattristarlo, ma per il semplice fatto che tanto non mi crederebbe, è così cinico e impassibile che pensa di non essere in grado di versare lacrime, mentre vorrebbe farlo, oh come vorrebbe. Ora non sta dormendo, infatti il suo respiro è calmo e regolare, è leggero, è lieve brezza marina, che in realtà cela una bufera. È la prima volta che si stende a pancia in sotto, questo mi dà modo di osservare la sua schiena, è magra e la colonna vertebrale è perfettamente visibile. Mi avvicino a lui e gli afferro i fianchi, sono gracili e ossuti, ma nonostante questo riempiono alla perfezione le mie mani, le rendono complete. Alzo leggermente il suo bacino, quanto  basta per entrare dentro di lui, quanto basta per farlo mio, ed ogni spinta mi manda in estasi, sento che potrei anche rinunciare al mio letto, al mio bagno, ai miei vestiti e al mio nome per un simile piacere. Ora non riesco a curarmi di lui, se lo conosco bene avrà il viso sul cuscino con la guancia che si schiaccia ad ogni mia spinta e un’ espressione annoiata sul volto, ma il godimento estremo di quest’ attimo mi impedisce di affliggermi per la sua mancata partecipazione emotiva. Lo sento gemere, è inutile continuare a guardare la pioggia cercando di annullare la mia presenza, il piacere che sta provando ora è così intenso che sarebbe impossibile negarlo, è impossibile negare che stai sospirando Takanori, non puoi e non riesci a smettere di ansimare in preda alla gioia delle carni. Ti renderai conto di non essere una macchina, come io me ne sono reso conto guardandoti. Ed ecco che lo dico, dico che lo amo, e non perché mi sta donando questo pieno appagamento, ma perché grazie a lui ho sentito di essere umano. La sua espressione annoiata muta in una smorfia di disgusto, so bene che odia sentire il suo nome proprio da uno come me che ha causato la morte e la distruzione di molti uomini, ma non ho intenzione di smettere di chiamarlo, perché io lo amo e voglio che ricominci a vivere anche lui come essere umano. Gli chiedo di  chiamarmi, nessuno chiama più il mio nome e non so cosa darei per sentirlo pronunciare da quelle labbra screpolate, ma pur sempre piene e sinuose. È giunta l’ ora di  far ritorno al block, si alza, si riveste e lascia la mia stanza senza dirmi una parola, lo guardo dalla finestra, ciò che vedo ora non ha nulla a che vedere con quello che ritenevo “il mio regno”. Aspetto che la sua figura  scompaia tra la pioggia e poi mi sdraio sul letto accarezzando le lenzuola ancora calde del suo sangue, solo il loro odore mi provoca un’ erezione…io non sono affatto una macchina.
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Quando era inverno e ogni giorno lottavo contro l’ eventualità di morire assiderato fingevo che in realtà non facesse poi così freddo, che addirittura fosse estate. Ora che è estate invece rimpiango la neve ed il gelo. Non avevo preso in considerazione il fatto che il lager racchiude i lati negativi del mondo, dell’ uomo come anche delle stagioni. Se l’ inverno è sinonimo di Natale, zuppe calde e gelo, il campo ospita in sé solo quest’ ultimo, e se l’ estate è simbolo di mare, sole e epidemie, bè il lager diviene esso stesso un lazzaretto. Con l’ arrivo del caldo infatti i batteri hanno moltiplicato le loro colonie decimando i prigionieri. Il tifo è divenuto nostro compagno di vita  ed ha reso aspri i rapporti tra noi prigionieri più di quanto già non lo fossero, così mi ritrovo ad avere il doppio del lavoro, essendo aumentato il numero dei corpi che devo gettare nel forno. Le SS tendono a tenerci a  dovuta  distanza, così mentre prima per ucciderci ci facevano chinare in ginocchio davanti a loro, ora sparano il colpo da lontano, spesso senza neanche avvisare. Ryo invece sembra non avere paura del contagio, continua a toccarmi ogni notte come se io fossi acqua e lui una pianta che sta per seccarsi. Mentre viene dentro di me mi sussurra che mi ama e mi ringrazia per quello che gli faccio provare, io invece non lo guardo neanche, io non sono più in grado di guardare, ma solo di vedere ormai e ciò che lui dà a me è solo cibo, vestiti puliti e orgasmi.
Oggi fa più caldo del solito, il cielo è torbido e il sole sterile. D’ estate i cadaveri puzzano di più e a stento trattengo i conati di vomito. Mi chino per afferrare forse il sessantesimo corpo del giorno, non guardo mai il volto dei corpi, in fondo i sacchi di patate non hanno volto, ma sta volta è inevitabile perché cado su di esso vomitandogli quasi addosso. Ed ecco che li rivedo, rivedo i lineamenti delicati e quasi femminei di Kouyou, il suo viso è segnato dalla malattia, ma rimane comunque bellissimo. Rimango fermo sul suo corpo privo di vita a contemplare inerme i suoi occhi ancora aperti, ma ormai spenti. Avverto un dolore lacerante all’ altezza dello stomaco e vomito ancora, ma, avendo già espulso prima il poco cibo contenuto nel mio corpo, ciò che esce ora dalla mia bocca è solo l’ amaro dei succhi gastrici. Mi rialzo dopo qualche minuto tenendo tra le braccia il corpo di Kouyou, ripenso al nostro ultimo incontro, alla sua iniziale freddezza e ai suoi lunghi monologhi che occupavano le mie giornate. “Kou..” dico gemendo e accarezzandogli il viso, ripenso all’ ultima volta che l’ ho visto, stava dormendo e non l’ ho svegliato perché credevo non fosse importante salutarlo, credevo non mi importasse “Kou..” oh come vorrei svegliarlo ora. Non vorrei gettare il suo corpo nel fuoco, è troppo bello per essere ridotto in cenere e non voglio che il ricordo di lui scompaia. Lo guardo mentre brucia, la pelle è stata la prima a sciogliersi ed ora sono rimaste solo le ossa “Ciao Kou..”.
Il mio stomaco ora è completamente vuoto, ma non riesco a sentire né fame né caldo, perché desidero solo morire. La morte di Kouyou è come se avesse tolto il velo che avevo posto sopra il mio cuore, riesco di nuovo a sentire i suoi battiti resi più lenti e affannati dal dolore. Dolore per non aver ringraziato per i consigli offertimi l’ unico amico che io abbia mai trovato qui, dolore per non averlo confortato quando sentiva la mancanza del suo uomo, dolore per essermene andato scomparendo. L’ unica cosa che mi spinge a non gettarmi dentro quel forno e bruciare insieme a lui è il pensiero di Ryo. Mi volto e lo vedo poco distante da me con il suo sguardo vigile intento a controllare il lavoro degli altri prigionieri, ora per la prima volta lo sto davvero guardando, l’ ho sempre e solo visto, mentre ora che lo guardo mi accorgo di quanto sia bello il suo viso.


Ogni volta che mi recavo in segreto nella stanza di Ryo le mie gambe camminavano in modo meccanico, ora invece tremano nell’ attesa di vederlo, perché vogliono vederlo, tutto il mio corpo vuole. Mi spoglio davanti ai suoi occhi come faccio da mesi ormai davanti ai suoi e a quelli di tutti e per la prima volta provo imbarazzo, lo stesso che provai il primo giorno che mi spogliai qui al campo. Sto per entrare in bagno per lavarmi, ma improvvisamente mi blocco “Vieni con me…Ryo”. Finalmente pronuncio il suo nome e d’ un tratto mi pare di ricominciare a respirare dopo mesi di apnea. Sento i passi di Ryo venire verso di me, ma non ho il coraggio di voltarmi, proprio io che fino alla sera prima rabbrividivo nel sentirlo pronunciare il mio nome. Poggia le sue labbra dietro al mio collo e subito sento muovere qualcosa sotto di me, le sue labbra non mi avevano mai toccato prima d’ ora, lui voleva che io mi sentissi davvero suo prima di accarezzarmi con esse. Ma ora che ne ha la certezza, ora che sa che io voglio lui quanto lui vuole me, mi bacia anche per tutte quelle volte in cui non l’ ha fatto. Dal collo prosegue sempre più giù lungo le evidenti ossa della mia spina dorsale e sembra che la sua lingua umida e calda riesca a far sgretolare queste ossa che, seppur gracili, sono sopravvissute a mesi e mesi di lager. E poi all’ improvviso con un rapido movimento mi volta verso di lui. Io sono in piedi e ho lo sguardo fisso sul suo che è rivolto  verso l’ alto nella mia direzione “Finalmente mi guardi Takanori..” il mio nome non ha più il suono della ferraglia. Accenna un sorriso per poi abbassare il viso e posizionarlo verso l’ organo che tutti ormai guardano con indifferenza e lo accoglie nella sua ospitale bocca stando ad occhi chiusi come se stesse degustando il più pregiato dei vini. Accompagno ritmicamente ogni suo movimento gemendo e accarezzandogli i capelli “Ti amo Ryo” sussurro nel momento del massimo godimento quando persino la morte non sembra poi così male.


È la prima volta che passo tutta la notte nella stanza di Ryo e c’è la buona probabilità che scoprendoci ci uccidano, ma entrambi siamo disposti a rischiare per amarci. Perché io lo amo davvero, la vista  del cadavere di Kouyou ha riportato in vita la mia umanità e questa ora è interamente rivolta  ad amare l’ uomo che continua a permettermi di vivere grazie al cibo che mi offre, all’ acqua pulita necessaria per lavarmi e all’ amore che ha liberato le mie vie aeree facendomi ritornare a respirare come un tempo. Non credevo che in un posto del genere, dove neanche Dio esiste, potessi trovare la felicità e non credevo che una sola persona potesse essere allo stesso tempo non solo felicità, ma anche cibo e acqua, già perché potrei andare avanti per mesi nutrendomi solo di lui. Persino i corpi questa mattina sembrano ancora più leggeri e guardandoli mi rendo conto di quanto io sia stato fortunato incontrando Ryo. Mi volto sorridendo verso di lui che vigila su di noi, mai nessuno direbbe che quelle labbra apparentemente ferme di notte abbiano la capacità di sciogliersi come crema sul mio corpo.
Ogni due o tre corpi che getto nel fuoco guardo la sottile figura di Ryo, potrei dare persino la vita per lui. Improvvisamente noto che Ryo non è più alla sua postazione, è la prima volta che io e il mio gruppo rimaniamo senza neanche una guardia che ci controlli. Sento che c’ è qualcosa di strano, per la prima volta dopo mesi sto ricominciando ad avere paura, ma sta volta non per me, per lui.


Ryo è scomparso per tutto il pomeriggio ed ora mi sto dirigendo nella sua stanza, ma sta sera non sentirò il sapore delle sue labbra, perché lui non c’ è. Ritorno nel mio block e per la prima volta dopo mesi prego, prego un Dio, che spero esista, affinché non succeda niente all’ uomo che rappresenta il mio legame con  ciò che ero prima di diventare una gelida macchina arrugginita dalla pioggia.
Questa mattina si respira un’ aria diversa qui al campo e le guardie sembrano avere altro a cui pensare. Mi dirigo alla mia postazione continuando a volgere lo sguardo alla ricerca di quello di Ryo, ma questa ricerca è destinata a fallire perché lui non è qui.
Alle 15:00 il rumore di un’ esplosione improvvisa fa scattare l’ allarme e le sirene iniziano a suonare. Noi da bravi prigionieri sempre più impauriti continuiamo a lavorare, finché un gruppo di nostri compagni non entra nel nostro edificio urlando “siamo liberi!! I Russi hanno forzato il cancello e rotto il filo spinato!!  Siamo liberi e le SS stanno scappando!!!”. Le urla dei prigionieri in un attimo riempiono la stanza per poi riversarsi all’ esterno dove tutti gli altri compagni si sono già riuniti muniti di fucili. Io non urlo né mi unisco al corteo armato, scavalco i mucchi di cadaveri a terra e corro verso l’ edificio dove si trova la stanza di Ryo. A metà strada  mi imbatto in un grande  camion con dentro un gruppo di SS in preda all’ agitazione come  non li avevo mai visti ed ecco che improvvisamente delle mani, le sue mani, afferrando i miei fianchi mi voltano verso di lui. “Ryo finalmente, ma dove sei finito? Io ti ho cercato e tu non…”  “Taka ascolta i Russi hanno sono entrati nel campo e lo stanno liberando, gli altri prigionieri stanno uccidendo tutte le guardie e se ti vedessero con me non ti risparmierebbero! Perciò vai..”  “No Ryo non puoi chiedermi di lasciarti, io non lo  farò” glielo dico urlando e stringendo le sue mani ancora poggiate sui miei fianchi. Le altre guardie sedute sul camion intimano  a Ryo di salire, stanno per partire, ma lui con un cenno gli dice di andare senza di lui. “Ti amo Takanori..continuiamo a rischiare insieme..per il nostro amore” lo bacio con tuta la forza che possiedo e poi iniziamo a correre verso l’ uscita del campo.


Ryo è stato catturato ed ora si trova all’ interno di un filo spinato insieme ad altre guardie che non sono riuscite a scappare. I prigionieri di tanto in tanto si avvicinano al filo e lanciano insulti e sputi contro quelli che li hanno resi schiavi, contro gli assassini delle loro mogli e dei loro figli, contro i cospiratori della loro libertà. Osservo lo sguardo perso di Ryo che sembra essere presente solo quando incrocia il mio viso rivolto costantemente nella sua direzione. Lui e  le altre SS subiranno un processo, solo dopo verranno condannati a morte. Io non lascerò che lo portino via da me. “Ryo ti amo..” lui leggendo le mie labbra sorride “Ti amo..”



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“Bene signor Matsumoto grazie per la testimonianza diretta che ci ha fornito”

“Signor giudice so che per mano di Ryo sono morti molti uomini, ma lui ha salvato me, per questo chiedo  che almeno lui tra le tante guardie catturate venga assolto”

“Il signor Suzuki si è macchiato di molti reati, l’ intera corte si riunirà per deliberare e domani verrà dichiarato il giudizio”


Domani io e Ryo  conosceremo il nostro destino, se lui vivrà continueremo ad amarci, ma se sarà condannato a morte saremo in due ad abbandonare i nostri corpi.







Dedicata a  misa_chan
  
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