Fictional Dream © 2007 (27 marzo 2007)
Naruto © 1999 by Masashi Kishimoto/SHUEISHA Inc.
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dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
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Mentre Konoha si allontanava nell’aria chiara di un mattino
luminoso – di quelli che non importa il clima o la stagione, perché ti fanno
comunque pensare all’estate – spirava un vento epico.
Lo coglievi nel fremito delle foglie, nel sussurro placato e
gentile con cui la voce del villaggio si accomiatava dai suoi figli e li
riconosceva per quel ch’erano diventati: non uomini, ma eroi.
E mentre Shikamaru disponeva sull’ideale scacchiera di una
strategia suicida le sue incredibili pedine, e mentre Kiba fiutava l’aria e
forse già coglieva il segno di una battaglia che non sarebbe stata né facile né
gentile, e mentre Naruto stringeva i denti e asciugava nella rabbia assoluta e
inesauribile di quel momento il dolore profondo di una perdita inaccettabile, e
mentre Neji – palpebre chiuse e sensi affilati come il migliore degli shuriken –
pensava a Hinata e a quel che gli aveva detto il giorno della più bruciante
delle sconfitte – con quel suo sorriso timido, eppure luminosissimo – ‘Bravo,
Neji. Ti sei rialzato’, Rock Lee colse la voce del vento e lesse in quel
sussurro l’incoraggiamento che attendeva da tempo: la chiamata di Konoha alle
armi.
Quella era la prima guerra della nuova era.
Lo sapeva Asuma, che di quella guerra non avrebbe visto la
fine – o forse sì, sulle labbra e nello sguardo di Shikamaru, lo svogliato
geniale che sarebbe divenuto uno dei baluardi di quella sua Konoha di azzurro e
di verde. E rosso, come gli occhi di Kurenai.
Lo sapeva Kakashi, che coltivava in sé il rimpianto di aver
esaurito un nobile compito, perché il non aver placato Sasuke era il fallimento
di un maestro che non aveva più nulla da insegnare – ed era pure l’ultimo colpo
menato al circo impazzito della storia.
Lo sapeva Tsunade, che non aveva mai rinunciato a scommettere
e che a furia di puntare sul coraggio avrebbe vinto.
Lo sapeva Jiraiya, come sapeva che Naruto era proprio come
lui.
O forse no.
Forse avrebbe salvato Sasuke da se stesso, perché non era
Orochimaru il demonio tentatore; già d’allora lo sciacallo che gli bruciava
dentro chiedeva la sua quota di carne e coraggio, vittime e scelleratezza.
Occhi di Uchiha, i suoi. Occhi di un clan che concepiva
l’eccellenza nel più spaventoso dei tradimenti pensabili.
Lo sapeva Sakura, che non aveva pianto solo l’abbandono,
quanto l’umiliazione di un rifiuto e l’inaccettabile debolezza che l’aveva reso
possibile, perché non era giusto domandare sempre a Naruto di combattere le sue
battaglie. Non quella più importante di tutte. Non quella che l’avrebbe
finalmente trasformata in una donna.
E lo sapeva Sasuke, che al vento non aveva voluto dare
ascolto, perché la voce bassa e fredda di Itachi gridava mille volte più acuta.
Sei troppo debole perché possa ammazzarti. Diventa
forte. Diventa forte, ammazza e impara ad ammazzare. Diventa forte
e diventa mio fratello. Diventa forte e aiutami a ricostruire gli Uchiha
che la storia ha sommerso. Gli Uchiha assassini. Gli Uchiha eroi.
Era quella voce a unirsi al vento e a soffiare sulla Konoha
di azzurro e di verde, che aveva salutato la speranza in un ultimo ‘grazie’,
prima che il figlio più dotato e più bello diventasse il nemico.
Come Itachi. Come Itachi che aveva avuto ribrezzo della sua
debolezza sino a uccidere in essa ogni sentimento e chi l’aveva messo al
mondo.
Soffiava un vento epico quel giorno.
Te ne accorgevi dal silenzio improvviso che si era chiuso su
di un sorriso e su una posa da figo – come avrebbe detto Rock Lee – Naruto volto
di fronte, i capelli come fili d’oro nel vento e quel sorriso aperto,
abbagliante. Il sorriso di chi avrebbe riportato indietro Sasuke – o quasi:
perché quel giorno qualcuno si sarebbe smarrito e qualcuno avrebbe conosciuto
finalmente se stesso.
Quel qualcuno era proprio il sigillo di Kyuubi che il destino
voleva Hokage.
Soffiava una brezza dall’odore consolante e quasi estivo, un
vento di nostalgia e di storia.
Se n’era accorto Kabuto, accanto al letto di agonia di
Kimimaru, ammirato dalla puntualità geometrica con cui Orochimaru mandava a
segno ogni pedina della sua strategia mortale.
E lo sapeva quel Serpente, tradito dal suo involucro
nel momento meno opportuno, eppure ebbro di un entusiasmo trionfante e crudele,
da predatore sazio, perché avrebbe ottenuto lo Sharingan e la licenza di
distruggere un intero mondo.
Lo sapevano gli occhi morti di Itachi, intrisi di sangue e di
ambizione: sapevano che il tempo stava per compiersi e che non sarebbe stato
deluso da false speranze. C’era qualcosa in quel vento che puzzava di morte, di
rinuncia e di un odio tanto forte da mangiare tutto l’amore. L’odio che – solo –
gli avrebbe dato un fratello e un rivale, nonché infuso un qualche significato a
quei giorni di infinita, vuota attesa fatta di conquiste facili e crudeltà
inutilmente spese, perché solo un Uchiha dagli occhi maledetti poteva esser
degno della sua testa – se mai l’avrebbe avuta.
Lo sapeva Kimimaru, il più prezioso dei fiori di un
assassino, sfiorito troppo presto e dunque dimenticato. Un’ultima lacrima spesa
nel nome di una storia pronta a cancellarlo. Una storia la cui chiamata era già
scoccata, trascinata dal vento epico del mattino in cui Naruto fu scelto da
Shikamaru per salvare Sasuke.
E non ci riuscì.
Lo colpirò per salvarlo, dovesse pure farmi a pezzi. Se mi
staccherà le braccia, lo calcerò a morte. Se mi staccherà le gambe, lo morderò a
morte. Se mi staccherà la testa, lo fisserò a morte. E se pure dovesse cavarmi
gli occhi, allora lo maledirò a morte, ma non rinuncerò a Sasuke, perché questo
è il segno del nostro legame.
La metamorfosi di Sai cominciò dalle parole di Naruto. Non
l’avrei mai detto, perché in Uzumaki respirava senz’altro uno sconfinato potere,
ma certo non potevi sostenere che fosse quello di un retore.
Il Terzo Hokage coltivava un motto che nessuno a Konoha ha
mai dimenticato, perché era intriso della saggezza di un eroe che non aveva
bisogno di armi.
‘Prima di aprire la bocca, controlla che anche il cervello
sia d’accordo.’
Quello, accanto al suo immancabile: ‘Il miglior oratore è
quello che conosce la virtù del silenzio’ erano moniti che ascoltavamo fin dai
tempi dell’Accademia.
Avevo sempre creduto, perciò, che le parole fossero il segno
di un’intelligenza profonda. Ino per prima potrebbe darmene la conferma, perché
il più brillante e svogliato dei ninja di Konoha è sempre stato un virtuoso del
silenzio – Shikamaru e le sue ombre fedeli.
Verrebbe da dire che ogni ninjutsu rende la misura di chi lo
domina: forse è per questo che un mio pugno potrebbe distruggere una montagna.
Cosa c’entra questa riflessione con la storia che voglio
raccontare? Tutto e nulla: è un modo, piuttosto, per riflettere sull’infinito
inganno delle parole.
Quando ho visto combattere Sasuke e Itachi – se poi è
possibile chiamare combattimento l’espressione più estrema di odio e d’amore che
sia dato concepire – ho capito quanta ragione fosse celata nelle parole
dell’Hokage, ma pure quanta miopia nel nostro riceverle.
Io, per dire, non avevo capito niente.
Per questo mi stupì il fatto che Sai – un bambino senza
faccia. Una radice senza radici – avesse mutato l’intero registro delle proprie
scelte per uno sbruffone come Naruto.
La verità è che i discorsi nascono dal cuore. Sono
un’espressione viscerale e complessa. Quella di Uzumaki, se vogliamo, è sempre
stata la retorica di un ventre ingordo e di un cuore immenso.
Avventato, diretto, umorale, patetico o epico: il tono di
Naruto è come il vento tra le foglie di Konoha. È una canzone sempre nuova, di
pace come di guerra.
Dal giorno in cui rivedemmo Sasuke, sull’erta impervia della
roccia che celava il Serpente, nulla fu più come prima.
Mi ero preparata a quell’evento per oltre due interi,
lunghissimi anni: così era stato anche per Naruto. In quell’attesa – nel suo
significato profondo, soprattutto – riposavano anche le mille ragioni per cui
guardavamo Sai con sospetto e indifferenza. Nel gruppo Sette non c’era mai stato
un posto vacante, solo l’ombra di un rimpianto doloroso.
Sasuke ci era entrato dentro e non era mai stato tanto
presente tra noi come da quando se n’era andato. Anche le parole di Shikamaru ne
erano un segno; nell’accordargli il massimo disprezzo, cioè, ancora lo
considerava un compagno.
Per questo, in quel giorno di sole e di vento, rischiarono la
vita per portarlo indietro senza riuscirci.
Soffiava una brezza innaturale e fredda anche la notte del
suo addio. Scivolava tra i miei capelli, come una carezza: forse mi blandiva per
rendere meno doloroso quel che avrei sentito poi. Un ‘grazie’ che aveva la
durezza di uno schiaffo e, al contempo, una mestizia strana, carica di
consapevolezze che non potevo cogliere.
Avevo poco più di dodici anni; avevo sempre considerato le
parole come un’espressione assoluta di verità. C’è voluto Sai anche per quello:
per ricordarmi come fossero un simbolo non diverso da mille altri.
Il primo dovere di un ninja, piuttosto, era non arrendersi
alle superfici.
Anche Sai approdò nel gruppo Sette come un colpo di vento,
sebbene fosse per me piuttosto un colpo al cuore.
Somigliava a Sasuke, ma, per dirla come Naruto, non era
altrettanto figo. A tradirlo, forse, era la sua espressione senza espressione,
quando quella di Uchiha era parte integrante di una cupa bellezza: una
tetraggine urticante, a dire il vero; la stigmate del destino tremendo che gli
era stato cucito addosso.
È sorprendente come lo ricordassimo alla perfezione, Naruto e
io. Dei contorni del suo volto, del modo particolare di aggrottare le
sopracciglia o stirarsi o curare sarcastico l’inflessione di un’interrogativa
retorica, non avevamo dimenticato proprio nulla.
A volte mi chiedo chi l’amasse di più tra noi due. Credo
Naruto, in ogni caso, perché Naruto voleva bene anche al Sasuke più nascosto; al
Sasuke che Uchiha per primo non voleva riconoscere.
Per un lungo, lunghissimo tempo, invece, non feci altro che
accarezzare la lucida superficie dei miei sogni. Poi, da un giorno all’altro,
alla sua immagine se ne giustappose una più importante: quella del ninja che
volevo diventare.
Quasi tre anni: anni duri, anni importanti. Non ci fu un solo
giorno in cui non abbia guardato la fotografia che ci ritraeva insieme con la
nostalgia di un ricordo prezioso e tristissimo. Gli occhi di Sasuke non erano
come i nostri fin d’allora, eppure sono certa che avesse cominciato a sorridere
e a fidarsi.
Prima che Orochimaru lo avvelenasse, almeno. Prima che Itachi
gli ricordasse il suo destino.
Soffiava un vento leggero anche quel giorno di tre anni dopo,
davanti alla tana del nostro nemico. Me ne accorgevo da come i suoi capelli
oscillavano piano, come seta nera. Credevo di essere preparata a quel momento,
perché era sempre stato con me, nel profondo del mio cuore. Un amore da
ragazzina, una questione di principio, non so: e poi trovarmelo davanti quasi
all’improvviso e sentire il mio nome sulle sue labbra.
Forse fu in quel momento che compresi fino in fondo che non
l’avrei più potuto afferrare. Che non l’avrei più potuto stringere. Che i miei
sogni erano sogni: bastavano un po’ di vento o un raggio di sole a disperderli
nel nulla.
Non c’era calore nella sua voce. Non c’era sorpresa. La sua
bellezza era ora spaventosa quanto quella di Itachi. Era come se quella degli
Uchiha fosse una maledizione latente, incubata in una pupa meravigliosa.
Non riuscivo a muovermi, ma guardavo Naruto: coglievo in lui
la rabbia e l’orgoglio e l’amore e la determinazione e lo sconcerto e la sua
umanità profonda. Lo scrigno di una bestia era più umano di Sasuke.
Eppure, anche solo per sfiorargli una guancia, mi sarei fatta
ammazzare volentieri.
Tutto questo accadeva sotto gli occhi di Sai, un ragazzo cui
la storia aveva mangiato tutti i sentimenti e che pure – forse proprio per quel
motivo – sapeva leggere nei nostri con una chiarezza invidiabile. Tant’è che Sai
mi parlò di Naruto, delle parole che gli aveva detto, dei ricordi che gli aveva
restituito. E mi parlò anche del Sasuke che aveva visto e che restituiva a noi,
spogliato di ogni sentimento: lo fece usando il silenzio, ancorché le parole.
Era evidente che non ce ne fossero, per una paura ch’era anche quella di Kyuubi
davanti ad un’aura troppo sinistra persino per un mostro.
Sai doveva uccidere un rinnegato che un tempo aveva fatto
parte della comunità di Konoha e del glorioso Gruppo Sette: nella sua ottica
asettica, degna di un lupo, non c’era spazio per il ricordo e per le emozioni.
In quelle s’incuneò l’arringa di Naruto e forse il segno di
un destino possibile.
Sasuke ci regalò uno sguardo gelido e beffardo, prima di
svanire ancora. Non provai davvero dolore quella volta, se non, per riflesso,
quello che trasudava dall’orgoglio e dall’affetto ferito di Naruto.
Mi accorsi che non ero ancora pronta. Solo il giorno fatale,
del resto, avrei compreso che non lo sarei mai stata, perché la storia di Sasuke
e di Itachi era troppo crudele per un essere umano. Fu per quello, forse, che
divennero due bestie pronte a scannarsi.
Il giorno dello scontro finale, però, il vento taceva. Tutto
fu avvolto da un silenzio quasi mistico, in cui persino un singhiozzo sarebbe
parso deflagrante.
Quel mattino – era l’alba, almeno, quando li trovammo. E il
sole calò prima che si arrestassero, sostituito da una luna rossa ch’era doppia
e spaventosa come un cuore pulsante – nessuno di noi si lasciò sfuggire un solo
respiro.
Non era neppure rassegnazione, quanto un innaturale sgomento.
A dodici anni pretendevo il lieto fine. Pensavo che una
maldestra dichiarazione d’amore potesse aiutarmi a cambiare la storia. Ne avevo
quasi sedici quando compresi che la vita non è buona e non è giusta. Quando
capii, soprattutto, quanto solo si fosse sempre sentito Itachi, nel suo Olimpo
di perfezione; tanto solo da costringere il fratello a diventare un mostro come
lui, pur di poter di nuovo abbracciare qualcuno.
Prima di quel giorno, Naruto e io fummo ninja di Konoha e
soldati. Combattemmo come disperati, guardammo la terra farsi sempre più scura e
dimenticammo per un po’ il colore del cielo. Senza perdere mai la speranza,
restavamo dentro gli stessi ragazzini che Kakashi aveva trasformato in una
squadra, e desideravamo riempire quel posto vacante con un nome sbagliato.
Il vento ci portava la voce dei troppi ch’erano già morti e
di quelli che li avrebbero seguiti, ma ci rifiutavamo di ascoltare.
‘Io non capisco se siete pazzi o siete eroi’ ci disse una
volta Sai, mentre affilava uno shuriken. E Naruto, che fissava sempre un punto
perduto nello spazio, quasi Sasuke fosse ancora lì, a fissarlo con un ghigno
pieno di disprezzo, trovò ancora le parole più giuste.
‘Siamo i suoi migliori amici. Non è solo ed è quello che deve
capire. La sua guerra non ha alcun senso.’
Non era una guerra, avrebbe detto Uchiha, ma una vendetta.
Eppure Naruto avrebbe trovato ancora una ragione da opporgli, perché la vendetta
era la via più idiota che un guerriero potesse cercare.
La vendetta l’aveva allontanato da noi, l’aveva reso solo più
infelice e forse persino più dipendente da Itachi e da quel che suo fratello
aveva rappresentato in una memoria devastata dagli orrori.
La vendetta l’aveva trascinato lontano dalla ragazzina che
ero e che avrei desiderato restare, perché Sakura Haruno aveva inghiottito tutta
la polvere del mondo per disintegrare l’unico diamante che avrebbe voluto
possedere: il cuore di Sasuke Uchiha, che in quel giorno di vento ci diede le
spalle.
E restò solo.