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Autore: Leslie and Lalla    27/09/2011    1 recensioni
[Attenzione: può essere letta anche senza aver letto Drawing a Song 1 e 2]
Lei è Evelyn Evans, ventisei anni da compiere, laureata da poco in psicologia, insicura su tutto ma decisa a conoscere i suoi genitori biologici prima di sposare il fidanzato Danny. Ha come l'impressione che la sua vita non sia il cammino sorprendente fatto di scelte inaspettate di cui le parlano i libri, anche se vorrebbe tanto che fosse così.
L'altra è Viola Dumas, ventisei anni appena compiuti, il suo obiettivo è diventare un medico brillante, decisa e risoluta, sa quello che vuole dalla sua vita e non si concede distrazioni, soprattutto per pensare alla sua infanzia, che tutto quello che vorrebbe fare è dimenticare.
Ma cosa succederebbe se sulla strada di Evelyn si presentasse un affascinante, trasgressivo e giramondo musicista che la immerge del tutto nella bolla di sapone fatta di divertimento, arte e voglia di esprimere se stesso tramite una canzone in cui sembra che viva lui?
E a Viola, invece, cosa succederebbe se una mattina si svegliasse accanto ad un uomo completamente sconosciuto? E se quell'uomo fosse proprio l'ultima persona con cui sarebbe dovuta andare a letto?
[Scritta a quattro mani]
Genere: Comico, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'All of Drawing a Song and Sequels'
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capitolo 7

7. I'm not alone




Martedì 31 maggio

Evelyn's Pov.

Il risveglio della mattina seguente è piuttosto strano e soprattutto pensieroso: ho passato tutta la notte a fare un sogno dietro l'altro, di persone e situazioni diverse. C'era Danny, e, con una fitta allo stomaco, ricordo che in uno c'era anche Peter.
Accendo il cellulare e sul display compare l'ora: sono le otto e mezza. Dopo poco, senza pensarci una seconda volta, allungo la mano verso il comodino e mi metto a leggere qualche capitolo del libro che ho iniziato ieri, Il profumo delle foglie di limone. Mi piace molto principalmente perché quando lo leggo mi sembra di entrare in un altro mondo, staccandomi così dalla realtà. Sono solo a pagina centocinquanta, eppure è già successa una serie di eventi che mi hanno abbastanza turbata. Sarà per questo, ma lo trovo davvero stupendo come libro: ti lascia senza parole, entra nel più profondo e ti fa capire davvero fino a che punto può spingersi il genere umano. Secondo me i libri non devono solo farti ridere o sognare, devono anche farti meditare e farti vivere emozioni forti, di qualunque tipo esse siano.
Alle nove e quaranta sono seduta nell'ultimo tavolino libero rimasto della stanza dove c'è la colazione, circondata da persone di tutte le età: ci sono famiglie composte solamente da marito e moglie ma alcune anche da due o tre figli.
C'è un po' di chiacchiericcio generale, vecchietti che si tengono la mano sul tavolo, adulti che parlano animatamente e qualche bambino che ride o piagnucola, eppure è un bel sottofondo, perché è come se volesse ricordarmi la bellezza della vita che spesso mi dimentico.
«Buongiorno!» esclama un cameriere in divisa, interrompendo le mie riflessioni. «Desidera?»
«Oh, sì» rispondo, dando una veloce occhiata al menù che ho sotto il naso. «Uhm, un cappuccino, grazie.»
Una volta che ha scarabocchiato l'ordine sul block-notes e si è allontanato, mi alzo e mi dirigo verso i tavoli al di là della stanza.
Dio, farò colazione qui per altre tre mattine e sono sicura che ingrasserò almeno di dieci chili.
C'è di tutto, da brioche ripiene a biscotti stracolmi di cioccolato, da fette biscottate con il burro e la marmellata a panini con il salame. Senza contare quanti tipi di bevande calde o fresche ci sono!
«Che paradiso, eh?»
Mi volto di scatto riconoscendo la voce.
«Ciao Grace!» la saluto, con un sorriso che va da un orecchio all'altro.
«Ci conosciamo?» sbotta lei, ammutolendo.
Faccio una smorfia divertita. «Sì, ci siamo conosciute ieri al drink after dinner dell'albergo, ma mi sembra di aver capito che non ti ricordi nulla, giusto?»
«Oddio, ehm, ho vaghi ricordi» borbotta lei, massaggiandosi le tempie, «e a dirla tutta ho ancora un mal di testa allucinante...»
Le mostro un timido sorriso. Purtroppo non saprei cosa dirle, visto che non mi sono mai ubriacata così tanto da non ricordare assolutamente niente.
«Ti prego, non dirmi che ho fatto qualcosa di sconvolgente.»
«Dipende cosa intendi per “sconvolgente”» scherzo io.
«Oh cristo! Cos'ho fatto?» sbotta lei, strabuzzando le palpebre.
«Ehm, hai chiesto a me e a James di venire a letto con te ieri notte...»
Arrossisce immediatamente. «Ops, scusami, che figura!»
«Non importa» la tranquillizzo io, con un sorriso. Poi aggiungo, chiudendo un occhio: «E poi diciamo che ci hai provato anche con il chitarrista.»
«Oddio, quello figo dell'altra sera? Alto, moro, occhi blu...?»
«Sì, lui» rispondo io, e due secondi dopo realizzo quello che ha appena detto.
Quello figo dell'altra sera.
Ciò vuol dire che non viene qui a suonare occasionalmente, dico bene?
«Oh mio Dio, voglio sotterrarmi!» geme lei. «Chi ha più il coraggio di guardarlo in faccia ora?»
«Tranquilla, non è rimasto traumatizzato» la rassicuro, ridacchiando.
«Mamma mia... E lui cos'ha detto? Non saremo mica...?»
«No, non credo proprio. Ho visto che se n'è andato e tu sei salita in camera.»
«Okay, per fortuna» dice lei, tirando un sospiro di sollievo. «Scusa per averti tartassata di domande, ma non saprei a chi chiedere sennò...»
«Oh, non preoccuparti.»
«Comunque, scusa la domanda stupida, ma come ti chiami?»
«Evelyn.»
«Che bel nome» commenta, sorridendomi. «Beh, è un piacere, io sono Grace... anche se è una cosa stupida da dire anche questa... Che brutto effetto che fa l'alcol, eh?»


Mi aggiro per i lunghi corridoi dell'ospedale Civile di Venezia di cui mi parlava a casa la mamma, senza sapere dove andare. Insomma, non è che posso chiedere a infermiere a caso come potrei trovare il nome della mia madre biologica, no?
Quando trovo il reparto ginecologia, decido per istinto di voltare a destra, trovandomi davanti cinque o sei rampe di scale.
Cosa diavolo posso fare?
Improvvisamente il mio cellulare inizia a vibrare e senza neanche guardare chi mi sta chiamando, premo il tasto di risposta e lo porto all'orecchio.
«Amore!» è la voce preoccupata di Danny. «E' tutta mattina che cerco di sentirti, o non rispondi o non è raggiungibile...»
«Ops» borbotto, storcendo la bocca mortificata. «E' che mi sono svegliata un po' tardi, sono scesa a fare colazione e subito dopo mi sono preparata per andare all'ospedale, non ho avuto il tempo di guardare il telefono, onestamente.»
«Okay» fa lui, «ma non è successo niente di grave, vero?»
Alzo gli occhi al cielo. «No, Danny» sospiro poi. «Sei troppo ansioso, te l'ho già detto un milione di volte.»
«Scusa» sbotta lui.
Seguono un paio di minuti di silenzio in cui lui rimane zitto ed io mi tormento su cosa potrei dirgli e soprattutto come. Alla fine decido di andare su un discorso improvvisato.
«Ascolta Danny, non voglio accusarti o che, a me fa piacere che ti preoccupi per me, però dico solo che a volte esageri un po'... insomma, come credi di passare i prossimi giorni se mi accadono altri imprevisti? Chiami la polizia?»
«No» risponde lui. «Senti, cercherò di trattenermi se è questo che vuoi, va bene?»
«Non voglio litigare» metto in chiaro io, quando sento il suo tono seccato.
«Ma neanche io, però sembra quasi che ti dia fastidio il fatto che pensi a te giorno e notte...»
«Non mi da fastidio! A volte però diventi un po'.. opprimente, ecco.»
«Okay, allora scusami se ti opprimo» dice lui, con evidente sarcasmo.
«Te l'avevo detto che non volevo litigare...»
A questo punto Danny resta in silenzio, mentre io, non sapendo cos'altro aggiungere, mi guardo attorno cercando invano di orientarmi. Senza rendermene conto mi ritrovo al terzo piano, piano alquanto diverso dagli altri. I muri sono tutti colorati con farfalle, fiori e arcobaleni, alle porte sono attaccati adesivi di Topolino e Minnie e qua e là sono appesi disegni confusi di bambini piccoli.
D'un tratto una voce familiare interrompe lo strano silenzio che s'era formato, seguita da risate divertite di bambini.
«Evelyn?»
«Sì» borbotto a Danny.
«Mi impegnerò a non farlo più... seriamente, non voglio essere un peso.»
«Sì» faccio io, lentamente.
«Scusa se sono stato troppo soffocante, non era nelle mie intenzioni.»
Finalmente scorgo una specie di piazzale dove sono radunate piccole sedie di tutti i colori che formano un semicerchio. Appoggiati alle pareti ci sono decine di adulti a braccia conserte, con un'aria strana, sembrano rallegrati ma in fondo hanno uno sguardo malinconico. Come se volessero far vedere che tutto è a posto, ma in realtà non lo è assolutamente.
Che cavolo...?
«Eveleyn, mi stai ascoltando?!» esclama Danny dall'altra parte del telefono.
«Sì» gli rispondo. «Non vuoi essere un peso, ho capito.»
«Ma poi mi sono anche scusato, e ti ho detto che non l'ho fatto apposta.»
«Okay...»
«Ma cosa sta succedendo?»
«Sono... sono in ospedale.»
«Ah» mormora lui. «E' un brutto momento? Vuoi che ti richiami più tardi?»
«Sì, forse è meglio» confermo io. «Ci sentiamo dopo, ciao!»
Dopo aver rimesso il cellulare in borsa, faccio qualche passo verso i bambini allungando l'orecchio curiosa.
«Cos'è questo?» annuncia una voce femminile, accompagnata dal suono giocoso della chitarra. «Attenzione, grandi e piccoli, può sembrare un semplice cubo colorato, ma in realtà all'interno racchiude tanti segreti!»
«Cosa c'è dentro?» chiedono eccitati quattro o cinque bambini.
«Eh, troppo facile dirvelo così!» scherza la ragazza, con un sorriso amichevole. «Ve lo dico solo quando avrete ballato e cantato con noi! Chi si offre a cantare per primo?»
Segue un silenzio imbarazzato, in cui i bambini si guardano attorno per vedere chi è il più coraggioso. Solo una bambina sui cinque anni alza la mano gridando: «Vengo io!»   
«Ma certo, tesoro, però serve anche un adulto con te... forza, genitori, non abbiate vergogna!»
«Quella ragazza là!» sento gridare con mio grande orrore.
D'istinto faccio un passo all'indietro, sperando di nascondermi dietro qualche signore. Andiamo, non si starà riferendo sicuramente a me, come potrebbe farmi questo?
«Evelyn!» insiste Peter, «vieni a cantare “Il coccodrillo come fa”!»
Se prima provavo tanta stima e ammirazione nei suoi confronti, dopo questa i suoi punti bonus sono decisamente diminuiti.
Ma questa me la paga, giuro.


«Eddai, lo sapevo che eri brava a cantare!» esclama Peter, una volta che la clown-terapia è terminata e i bambini si sono ritirati nelle proprie stanze ancora sorridenti.
«Certo!» sbotto ironica, alzando le sopracciglia. «In ogni caso ho fatto una figura pessima, anziché far ridere i bambini li ho spaventati a morte.»
«Ma cosa dici» ribatte lui, con un sorriso stampato sulle labbra. «Ti adoravano!»
«Come no» scuoto la testa io, ridendo. «Comunque è stata un'esperienza bellissima» aggiungo dopo una pausa, facendomi improvvisamente seria.
«Sì, lo è davvero» conferma lui, sedendosi su una sedia all'angolo della stanza, mentre gli altri ragazzi ancora truccati e travestiti mettono via il palchetto improvvisato e i giocattoli che hanno usato poco fa.
«E' volontariato, vero?»
«Sì» mi risponde Peter, «alcuni miei amici lo fanno nel tempo libero e mi hanno chiesto se mi andava di unirmi a loro. Io ovviamente faccio già il musicista e sono spesso e volentieri in giro per lavoro, però appena riesco li seguo e partecipo come posso, suonando e cantando...»
«Che bello» commento io, colpita.
Lui in tutta risposta annuisce, assorto nei suoi pensieri.
«Ma non dev'essere facile» aggiungo, spostandomi un ciuffo di capelli dagli occhi, «cioè, è davvero un bel gesto far ridere bambini malati, credo che ci si senta felici e utili, però... da un lato è triste, no?»
«Sì, se guardi la moneta dall'altra faccia lo è.»
«Posso chiederti una cosa probabilmente un po' scema ma che purtroppo non ho mai avuto l'occasione per parlarne?»
«Certo.»
«Com'è stare a contatto con questi bambini? Per l'amor del cielo, sono bambini come gli altri, ridono, piangono, mangiano e dormono... ma io mi chiedo come ci si possa sentire quando si passa un po' di tempo con loro. Ci si sente in colpa? Ci si chiede perché proprio a loro poteva capitare? Ci si rende conto di quanto in realtà sia importante la vita e di quanto noi siamo stupidi a lamentarci per sciocchezze?»
«Beh, questo sicuramente. E' triste sapere che non gli rimane molto da vivere, che in realtà vivono in ospedale perché sono gravemente malati e che quindi non sono dei bambini normali» inizia lui, dopo essersi preso una pausa per riflettere. «Però io quando mi relaziono con loro, quando li faccio ridere, quando gli mostro la bellezza della musica, quando li vedo felici e spensierati per qualche minuto della loro vita, mi sento... vivo. E sicuramente non vado a pensare che la loro felicità non è destinata a durare ancora per molto, altrimenti nulla di questo avrebbe senso.»
«Chiaro» mormoro io, mentre una morsa mi stringe il cuore.
Dio, non volevo creare quest'atmosfera. Per colpa mia siamo passati dal ridere a fare riflessioni su quanto sia strana – e ingiusta – la vita.
«Scusa, non volevo» borbotto dopo un silenzio teso.
Peter alza lo sguardo. «Perché ti scusi?»
«Non volevo... turbarti.»
«Non mi hai turbato» afferma lui, con un breve sorriso. «Mi ha fatto piacere rispondere alle tue domande e alle tue curiosità.»
Senza sapere cosa dire, gli rispondo con un sorriso sincero.
«Allora» esordisce dopo qualche istante, «non sei andata in piazza S. Marco oggi?»
Non smetto di sorridere, ora però perché sono contenta e sollevata che abbia cambiato argomento con tanta naturalezza.
«A dir la verità sono qui per fare una specie di ricerca.»
«Ah sì?» fa lui, inarcando le sopracciglia, curioso. «Posso sapere di cosa? Sempre se ne vuoi parlare.»
«Sì» rispondo io, senza pensarci due volte. Non so perché ma sento che confidarmi con lui e parlargliene sia la cosa migliore da fare. E poi, a qualcuno dovrò pur dirlo, no?
«Sto... sto cercando il nome di mia madre» inizio, non sapendo bene con che parole cominciare. «Mi ha partorita qui a Venezia ventisei anni fa...»
«Oh, ho capito» commenta lui, annuendo interessato. Mi guarda con attenzione, come se non volesse perdersi una parola, ma non è quel tipo di interesse che ti opprime e che ti fa a sentire a disagio perché hai paura di dire anche una sola lettera sbagliata o inadatta, no, tutt'altro.
Mi volto verso un bambino sui cinque anni in braccio al padre che ride spensierato e per un momento vorrei essere lui, senza pensieri, senza preoccupazioni, una vita intera davanti e tanta voglia di viverla appieno, ma poi torno alla realtà: io sono io, con i miei problemi, la mia infanzia, la mia adolescenza e i miei ventisei anni di vita. Nessun altro al mondo ha vissuto le mie stesse esperienze, e per questo, anche solo per il fatto di essere qui dove sono, devo ringraziare soltanto me stessa.
«Scusa» sbotto, scuotendo la testa come per scacciare i pensieri che mi sono ritrovata a fare. «Mi sono persa via.»
«Figurati.»
«Dicevo, sono a Venezia per cercare i nomi dei miei genitori biologici» continuo poi, quasi per fare chiarezza nella mia mente. «Ho sempre desiderato conoscerli, fin da quando ho scoperto di essere stata adottata.»
«Te l'hanno detto da poco?»
«No e sì» rispondo io, «no perché quando i miei me l'hanno detto io avevo quattordici anni, e sì perché il fatto che la mia mamma biologica mi ha partorita a diciassette anni a Venezia me l'hanno detto pochi giorni fa, al che ho deciso di partire. E' stata una decisione abbastanza immediata a dirla tutta.»
«Già... E come l'hanno presa? Voglio dire, partire praticamente da un giorno all'altro per Venezia...» fa, senza finire la frase in modo da fare parlare me.
«Sì, non se l'aspettavano» confermo io, «anche se hanno sempre saputo che avevo intenzione di conoscerli, un giorno.»
Okay, se devo essere sincera sono piuttosto sollevata per il fatto che non ha espresso commenti a proposito dell'età di mia madre. Odio quando magari inarcano le sopracciglia o spalancano la bocca e sbottano un “davvero?!”, della serie “oddio, che scempio!”. Insomma, non credo che lei ne sia rimasta contenta, anzi, probabilmente è una delle cose che rimpiange di più nella vita. In ogni caso sono convinta che nessuno a questo mondo sia uno stinco di santo e non è giusto criticare gli altri.
«Posso farti una domanda un po' intima?»
«Dimmi.»
«Come ci sei rimasta quando hai scoperto di essere stata adottata?»
«Oh, è stato abbastanza strano» rispondo, ricordando quel pomeriggio piovoso di settembre. «Ero appena tornata dal mio primo giorno di liceo e dal momento in cui ho messo piede dentro casa ho subito notato che c'era un'atmosfera diversa. Mio papà era al solito, mi ha salutata con un sorriso enorme sulle labbra, mentre mia mamma era un po' taciturna e aveva un'aria terribilmente seria. Io ero tutta eccitata per la prima giornata in una nuova scuola con professori e compagni di classe nuovi e vedere mia madre così mi ha un po'... scossa. Sì, forse “scossa” è il termine più adatto.»
«Beh, sì, immagino» annuisce lui, con le palpebre socchiuse.
«Abbiamo iniziato a pranzare, io ho raccontato come avevo passato la giornata e poi, alla fine, mia mamma ha esordito un “dobbiamo dirti una cosa”, il che, se devo dirti la verità, mi ha fatto preoccupare all'istante» racconto io, rivedendo nella mia mente la faccia di mia madre di dodici anni fa come se fosse ieri. «Ha cominciato il discorso dicendo che hanno voluto aspettare il più possibile, e che quando si sono resi conto praticamente all'improvviso che io ero ormai cresciuta e stavo iniziando a frequentare la scuola superiore hanno deciso di dirmelo.»
«Non dev'essere stato facile» considera Peter, «intendo affrontare così la realtà, quasi come se fossero stati svegliati da un sogno con uno schiaffo.»
«Sì, infatti, ci penso sempre anche io.»
«Comunque, scusa l'interruzione.»
«Figurati» dico io, sorridendogli fugace. «In qualunque modo me lo aspettavo. Nel senso... per farti un esempio pratico, mio padre è un patito di rugby e sport di contatto, io invece credo che uno sport debba essere meno... aggressivo, non so come spiegare.»
«Sì, dovrei aver capito.»
«Magari non troppo singolo, tipo la ginnastica artistica non mi piace troppo. Cioè okay, vederla ancora ancora, ma praticarla non ci riuscirei proprio. Dovrei contare solo su me stessa e mi sentirei troppo... sola?»
«Eppure sei partita per Venezia completamente sola» mi fa notare Peter, con un sorrisetto.
«Sì» affermo io, «è stata praticamente la mia prima volta, di solito sto sempre con...» il mio pensiero va a Danny, ma termino la frase in modo vago, con “qualcuno”. «In ogni caso, a me piacciono di più gli sport di squadra, come la pallavolo o il basket, o, perché no? Anche il calcio non è male!»
Peter mi mostra un sorriso. «Sei la prima ragazza che me lo dice. Voglio dire, spesso sento dirlo in giro ma credo che in realtà non sia così. Molte dicono di amare il calcio solo per rimorchiare di più il sabato sera.»
«Oh, sì, ne so qualcosa.»
Okay, non ammetterò mai che Danny è un rugbista fanatico e io invece lo odio – e lui non lo sa. Ma poi, non è che sia chissà che, dico bene? Non è che mi sia messa a raccontare a tutti che adoro il rugby solo per piacere a lui!
«Dicevo» esordisco dopo una breve pausa, «già il fatto che io e mio padre abbiamo interessi diversi non mi è mai quadrato. Cioè, non è detto che il figlio debba avere gli stessi gusti del padre, però insomma, qualcosa deve pur averlo preso, no? E io non avevo quasi niente in comune con mio padre, né dal punto di vista del carattere o dell'aspetto fisico. Stessa cosa vale per mia madre. Ad esempio lei è una grandissima cuoca, ed io invece so fare a malapena una pasta.»
Peter intanto non parla, si limita a fare ogni tanto qualche smorfia divertita o annuire.
«Non dico che una persona non può stare bene con i suoi genitori se condivide poco o niente con loro, infatti io mi sono sempre trovata da dio in loro compagnia, avremo litigato sì e no due volte in tutta la nostra vita! Forse è perché avendo dei caratteri diversi si va più d'accordo. Voglio dire, io non sopporterei un'altra persona con il mio stesso carattere...»
«Oh, sì, neanche io!» esclama a questo punto Peter.
«Già.»
«Quindi, riassumendo il tutto, non è stato un dramma scoprire di essere stata adottata.»
«No, affatto, era prevedibile.»
«Ho capito» afferma lui, «forse sembrerà stupido, ma sono davvero contento che ti sei confidata con me, non credo che queste cose le dici alla prima persona che capita, giusto?»
«Giusto.»
Oddio, adesso mi salgono mille dubbi... non avrò mica esagerato?
«Ed è per questo che voglio ringraziarti come si deve» aggiunge dopo poco, con un sorriso a trentadue denti. «Dato che ho un'amica che fa al caso tuo.»
Corrugo una sopracciglia, interrogativa.
«Vieni, te la presento.»  
Pochi minuti dopo stiamo camminando uno a fianco all'altro, io mi guardo intorno cercando di stamparmi nella mente immagini dell'ospedale che potrebbe sempre essermi utile, mentre Peter prosegue spedito come se conoscesse il posto meglio delle sue tasche.
«Ci siamo quasi» mi assicura dopo un po', girando a destra, «lei sta nel reparto maternità di solito.»
Pochi minuti dopo siamo al piano superiore, in un nuovo ambiente e tra altri tipi di persone. Sì, perché qui non è più il posto dove dei bambini malati passano le loro giornate, ma dove delle donne danno alla luce i loro figli.
«Che bello qui» commento, con un'inspiegabile sorriso di felicità sul volto.
«Sì, c'è una bella atmosfera.»
Alla mia sinistra c'è il nido, dove i neonati con poche ore di vita dormono o urlano nelle loro culle tutte uguali tolto per il fiocco rosa o azzurro.
«Aspetta un attimo, vado a vedere se c'è» fa Peter, sfiorandomi leggermente il braccio con delicatezza.
«Okay» mormoro io, «ti aspetto qui.»
Intanto che lui si avvia lungo il corridoio, mi metto ad osservare ogni singolo movimento di questi teneri scriccioli. Sono così piccoli e indifesi, lì nel loro lettino, praticamente appena nati, con tutta una vita burrascosa davanti.
Dio, c'è n'è uno in prima fila che è così dolce, muove appena appena una manina e ha l'aria di chi ha tanta fame.
Chissà quando avrò io un figlio...
«Evelyn» mi chiama Peter, facendomi tornare alla realtà. «Ti presento Viola.»
Alzo di scatto lo sguardo e mi ritrovo davanti una ragazza dai lineamenti dolci, capelli color del miele e degli occhi chiari bellissimi, più o meno della mia stessa età.
«Oh, molto piacere» esclamo, alzando un poco la voce e porgendole la mano con un sorriso.
«Piacere mio» fa lei di rimando, stringendomi la mano.
«Vi va di scendere al bar e bere qualcosa con calma?» propone dopo una breve pausa Peter, amichevolmente.
«Sì, certo» accetto subito io, sorridendo.
Anche Viola annuisce, indicando il corridoio dietro di lei e affermando: «Da quella parte.»


«Allora, come posso aiutarti?» chiede Viola, appena la cameriera che è venuta a portarci il caffè si è allontanata.
Afferro la mia tazzina e la porto alla bocca. «Come ti ha detto Peter, pochi giorni dopo la mia nascita sono stata adottata» racconto, dopo aver dato un lungo sorso alla bevanda. «E, in parole povere, quando mi hanno detto di essere stata partorita qui sono partita per cercare i loro nomi.»
«D'accordo» dichiara Viola, «beh, l'ospedale tiene archiviati tutti i dati relativi alle nascite nei computer... posso trovarti il nome di tua madre, ma non è detto che ci sia anche quello di tuo padre, non sempre viene espresso... in che anno sei nata?»
«Oh, ho capito» dico, dopodiché tiro fuori dalla borsetta il block-notes che tengo sempre di scorta e scrivo la data precisa, infine lo passo a Viola.
«Perfetto, posso anche sapere i nomi dei tuoi genitori adottivi?»
«Certo. Allora, mia madre si chiama Amanda Barry, mentre mio padre Thomas Evans» rispondo io. «Vuoi che te li scrivo sotto la mia data di nascita già che ci sono?»
«Buona idea» aggiudica lei, ridandomi il foglietto.
«Ecco» annuncio appena ho finito di scrivere in stampatello in modo che sia chiaro da leggere.
«Okay, farò la ricerca il prima possibile» rassicura lei dopo averlo messo in tasca. «Di dove sei?»
«Di Monza, in provincia di Milano. Tu invece? Sei di Venezia?»
«Sono nata a Perugia, poi ho abitato per un brevissimo periodo a Bologna e quando ho compiuto otto anni mi sono trasferita a Firenze. Sono venuta a Venezia per studiare medicina e ci sono rimasta. Abito a Mestre.»
«Oh, bello. Sicuramente hai visto più posti di me, io ho sempre abitato a Monza, tolto qualche piccola vacanza qua e là, ma niente di che» dico, stringendomi nelle spalle.
Ora che ci penso sono proprio una donna monotona e noiosa, come posso aver visitato così poche città alla mia età? Se non lo faccio adesso quando avrò intenzione di farlo? Quando avrò una famiglia e sarò comunque legata in qualche modo? Voglio dire, ho quasi ventisei anni e per ora ho visto solo Roma con Katie quando ci siamo diplomate, il lago di Garda dato che i miei hanno la casa là e ci andavamo praticamente tutte le estati fino a quando sono andata ad abitare con Danny e durante le nostre ferie andavamo sempre in montagna nella sua roulotte.
Dio, devo fare più esperienza. Il mondo è così grande, come posso avere visto così pochi posti?
«Davvero?!» sbotta a questo punto Peter, strabuzzando gli occhi.
Arrossisco all'istante, senza però sapere cosa dire.
«Devi assolutamente fare qualche bel viaggio, vale la pena di conoscere il mondo in cui viviamo!» esclama poi, facendomi l'occhiolino. «Io ne so qualcosa.»
«Non ti fermi in un posto per più di un mese da quanto, otto anni?» commenta ridacchiando Viola.
Mi volto istintivamente verso Peter, lanciandogli un'occhiata un po' ammirata un po' divertita.
«Nove» la corregge lui, ridendo, «ho iniziato a viaggiare a vent'anni.»
E così ha tre anni in più di me.
«Che figo!» esclamo a questo punto io, «una volta mi descriverai tutti i posti che hai visto e tutte le persone che hai conosciuto nei dettagli, sono curiosa!»
«Oh, certo» accetta sorridendomi lui.
«Comunque non è colpa nostra, intanto che tu giravi il mondo io e Viola stavamo studiando per laurearci, dico bene, Viola?» aggiungo, alzando il mento ironicamente.
«Giusto» conferma lei, scoppiando a ridere. «Tu che lavoro fai, Evelyn?»
«Io faccio la psicologa, ho un ufficio privato da un annetto. Tu invece sei ostetrica?»
«Mi sto specializzando in ginecologia e ostetricia» puntualizza lei, sorridendo.
«Bello» considero io, «anche se io non sono portata per la medicina.»
«È uno di quei lavori che puoi fare solo se ami e hai una forte motivazione alle spalle. Era quello che mi diceva sempre uno dei miei professori all'università» racconta lei, facendo un gesto d'assenso con il capo.
«Sì, è vero.»
Dopo un breve silenzio, Viola alza lo sguardo verso l'orologio appeso. «Si sta facendo tardi, è meglio che vada a cercare quel file» annuncia, alzandosi e finendo rapidamente il suo caffè. «Aspettatemi qui.»


Appena vedo Viola entrare con una cartella in mano, le sorrido contenta che abbia trovato il file di cui parlava prima. «Ecco, qui ci sono tutte le informazioni che ha l'ospedale» annuncia, appoggiandola sul tavolino.
«Dio, ti devo un favore enorme» esclamo, prendendo la cartelletta gialla tra le dita, «grazie mille davvero.»
«Figurati, spero che trovi quello che stavi cercando.»
«Oh, ne sono sicura» affermo subito io, senza smettere di sorridere. «Andrò in bagno ad aprirla...» aggiungo dopo una breve pausa, alzandomi in piedi.
Lo so che può sembrare stupido e infantile, ma credo di aver bisogno di un po' di intimità.
Intanto Viola e Peter in tutta risposta annuiscono con un sorriso.
A questo punto, mi avvio alla toilette con un lungo sospiro d'incoraggiamento. Forza, posso farcela. In fondo è solo un nome, alla fine non mi cambia molto ora come ora.
Apro la porta del bagno delle donne e mi siedo sulla tavoletta del water. Solamente adesso mi decido finalmente ad aprirla.
Nella prima pagina ci sono le informazioni che riguardano me.
Nome e cognome: Anna Cattaneo.
Già alla prima riga il mio cuore perde un battito. In realtà io mi sarei dovuta chiamare Anna... Mi guardo allo specchio e penso che sì, assomiglio al nome Anna.
Dopo poco scorro le informazioni seguenti senza soffermarmici troppo.
Data di nascita, luogo di nascita, gruppo sanguigno, fattore rh, allergie...
Nome del padre, vuoto.
Nome della madre: Madelyn Cattaneo.
Madelyn. Ripeto il suo nome ad alta voce. Madelyn. Mamma Madelyn.
No, non è mia mamma. Non lo è mai stata. Cosa sto dicendo?
Chiudo di scatto la cartelletta con rabbia. Perché sto facendo tutto questo? Ha davvero un senso? Probabilmente non esisto più per lei. Sono stata cancellata dalla sua vita. Perché sono così ossessionata da lei che oramai mi avrà sicuramente dimenticata?
Perché sei sua figlia, perché sei stata nel suo grembo per nove mesi, perché ti ha partorito lei.
Sì, sto facendo la cosa giusta.
Con gesti lenti e ancora un po' esitanti riapro la cartella e torno al punto in cui ero rimasta poco fa.
Ciò che segue è una tabella delle eventuali malattie della madre e tumori dei familiari non segnalati.
La seconda pagina invece interessa le notizie sulla gravidanza.
Ordine di genitura, età della madre, data dell'ultima mestruazione, eventuali emorragie in gravidanza, primi movimenti fetali, aumento di peso...
Attività lavorativa della madre: studentessa.
Corso di preparazione al parto: sì.
Durata della gravidanza: 39 settimane e 2 giorni.
Gravidanza a rischio: no.
Alla fine della pagina ci sono le notizie sul parto, ma che mi interessano relativamente.
Luogo e data del parto, rottura prematura delle membrane, polidramnios, parto spontaneo...
A seguire la firma dell'ostetrica.
Dopo qualche istante in cui sono rimasta con lo sguardo perso davanti a me senza muovere un muscolo, mi alzo e mi incammino verso Viola e Peter a testa bassa.
«Tutto bene?» mi chiede gentilmente Peter.
Annuisco, piano. «Però c'è un problema» aggiungo poi. «Come sospettavo, non c'è scritta la residenza di mia madre.»
Viola si morde un labbro e Peter si gratta la nuca, nervoso.
«Come possiamo fare?» domando, sedendomi davanti a loro.
«C'è la firma dell'ostetrica? Se lavora ancora qui puoi chiederle cosa si ricorda!» esclama immediatamente Viola.
«Anche!» approvo io, rasserenandomi.
C'è ancora una possibilità.
«Sì, direi che vale la pena tentare» afferma Peter, convinto. «Ora però scusatemi ma devo assolutamente andare. Sono invitato a pranzo dai miei e dato che non succede spesso mi conviene alzare i tacchi» aggiunge dopo una breve pausa, con un sorriso di scuse.
«Uh, okay» faccio io. «Grazie.»
«Di cosa?»
«Oh, tante cose!» esclamo, «di tutto quello che hai fatto oggi per me, dalla chiacchierata di prima all'aiuto che mi hai dato.»
«Figurati» dice lui, sorridendomi, «comunque se ti va domani sera suono in un pub molto carino... se non hai niente da fare a me farebbe piacere se ci fossi.»
«Oh» borbotto io, presa alla sprovvista, «sì, va bene... Dov'è il pub?»
«Ti scrivo l'indirizzo esatto se vuoi.»
«Okay» dico, passandogli block-notes e penna.
«Ecco.»  
«Perfetto, grazie per l'invito.»
«Figurati, allora ci vediamo domani» mi saluta, alzandosi in piedi.
«Ehi, salutami i tuoi e ringrazia ancora Allyson per la torta che ci ha portato ieri. Era deliziosa» esclama Viola a questo punto.
«Sarà fatto, bellezza» dice lui, facendole l'occhiolino, «ciao ragazze!»
Appena è uscito dal bar, Viola dichiara, con la sua voce chiara e convinta: «Gli piaci.»
Non posso non arrossire dopo questa confidenza.
«Ah sì?» mormoro dopo un po', sperando di mostrarmi noncurante.
A questo punto lei scoppia a ridere con gusto. «Secondo me sì» afferma poi, facendo spalline.
Dio, perché sto continuamente tenendomi dentro il fatto che sono promessa in sposa a Danny? Voglio dire, non è mica un dettaglio insignificante. Specialmente dopo l'invito di Peter.
Devo assolutamente sputare il rospo, prima o poi... sì, possibilmente più prima che poi.


«Claudia, lei è Evelyn Evans» annuncia Viola alla sua collega sorridendo.
«Piacere» faccio, stringendo la mano a una signora sui cinquant'anni.
«Evelyn è nata in questo ospedale» inizia a spiegare a questo punto Viola, «e, ecco, tramite delle ricerche ha scoperto che sei stata tu la sua ostetrica... vorrebbe sapere qualcosa sui suoi genitori biologici e si chiedeva se tu per caso ti ricordassi qualcosa.»
Claudia si fa improvvisamente attenta, rendendosi conto di quanto sia seria la questione.
«È nata qui ventisei anni fa, sua madre aveva solo diciassette anni... alla nascita si chiamava Anna Cattaneo» aggiunge Viola.
«Oh, capisco» borbotta l'ostetrica, passandosi una mano dietro la nuca.
«Non so, magari riesci a ricordarti qualcosa di quel giorno...» ipotizzo io.
«Qualcosa di che tipo?»
«Tipo che persone erano i miei genitori, se c'era anche mio padre, e soprattutto in che città abitavano... Ad esempio, ti ricordi che erano venuti qui a Venezia in vacanza?»
«Sì» risponde lei lentamente, socchiudendo gli occhi, «ricordo che lei era corsa in ospedale con il compagno colta da spasmi e aveva ammesso di non aspettarsi di partorire qui. Mi aveva raccontato che era stata una cosa abbastanza improvvisa, ricordo come se fosse ieri quel giorno perché non avevo mai fatto nascere un bambino con una mamma così giovane. Sai, a quel tempo ero appena diventata ostetrica.»
Annuisco, con un breve sorriso. «Il compagno era il suo fidanzato? Sai se era mio padre? Ti ricordi qualcosa di lui?» chiedo poi.
«Sì, credo che fosse il suo fidanzato... era alto, moro, occhi scuri... non ne sono sicura, però non mi sembra che ti somigliasse.»
Annuisco per la seconda volta, questa volta senza saper cosa dire.
«Su questo però ne sono certa: venivano da Rapallo, in provincia di Genova. Lo ricordo bene perché io dovevo andarci in viaggio di nozze durante l'estate con il mio futuro sposo e avevo chiesto loro che tipo di posto fosse.»
«Oh» faccio, illuminandomi improvvisamente, «questo mi sarà di grande aiuto!»
Claudia mi sorride, compiaciuta. «Sono contenta di esserti stata utile.»
«Grazie mille, Claudia» dice Viola, sorridendo anche lei.
Lei fa uno scherzoso buffetto sulla guancia di Viola. «Figurati cara, lo sai che sono sempre felice di aiutare.»
«Ce l'abbiamo fatta!» esclama felice Viola, una volta che Claudia ha lasciato la stanza.
«Sì» confermo, sorridendo appena.
Non posso non dire di essere contenta di aver appena scoperto altre cose su mia madre, però devo ammettere di esserci un po' rimasta. Chissà chi è il mio vero padre... sicuramente non il ragazzo che è andato in vacanza con mia madre durante la gravidanza, anche perché il mio padre biologico non mi ha riconosciuta.
«È tutto a posto?» mi domanda Viola, sfiorandomi il braccio con dolcezza.
«Credo di sì» rispondo, esitante. «Sono sì contenta delle cose che abbiamo appena scoperto, solo che sono rimasta anche un po' scombussolata... speravo che mio padre mi avesse riconosciuta.»
«Capisco» mormora Viola, annuendo. «Ma non vuol dire che non ti abbia amata, anche se solo per un istante... è pur sempre l'uomo che ti ha dato vita, Evelyn, e stai facendo la cosa giusta nel cercarlo, nel voler sapere almeno chi fosse.»
«Lo spero» affermo, stringendomi nelle spalle. «Sai, sono così curiosa di conoscerlo, vedere che uomo è diventato, come ha conosciuto mia madre, che tipo di vita sta conducendo adesso, cose di questo tipo... Probabilmente non lo saprò neanche mai, però ho aspettato così tanto tempo che ora voglio almeno fare un tentativo.»
«Fai bene» mi rassicura lei.
Faccio un vago cenno di assenso con il capo, poi dico con un sorriso: «Comunque grazie davvero per tutto quello che hai fatto per me, non lo dimenticherò mai.»
«Non è niente» esclama, poi aggiunge, abbassando lo sguardo: «Sai, anche io sono stata adottata.»
Allargo gli occhi, presa alla sprovvista. Prima di parlare però lascio passare qualche istante, ho notato immediatamente che non è molto a suo agio dopo la sua confessione.
«Oh» borbotto, cercando le parole migliori da usare. «Dalla nascita anche tu?»
«Quando avevo sette anni gli assistenti sociali mi hanno tolta dai miei genitori. Sono stata presa in affidamento per qualche mese da una famiglia a Bologna, poi mi sono trasferita a Firenze dai Dumas. Mi hanno adottata un anno dopo» mi racconta lei, con un fil di voce.
«Oddio... io... mi dispiace davvero» sussurro, cercando di guardarla negli occhi per farle capire tramite il mio sguardo quanto sono rimasta toccata.
«È tutto a posto... voglio bene alla mia famiglia adottiva, molto più bene di quanto abbia mai voluto ai miei genitori biologici. Sono stata fortunata.»
«Oh, sì, è questa la cosa che conta alla fine. Anche io mi trovo benissimo con i miei genitori adottivi, li amo con tutta me stessa, e ogni giorno ringrazio il cielo che mi abbiano trovata loro.»
«Ehi, grazie per aver condiviso la tua storia con me. So quanto possono essere delicate queste cose. Credo davvero che tu stia facendo la cosa giusta cercando i tuoi genitori biologici... è importante capire da dove veniamo, cosa c'era nel nostro passato» annuisce lei, parlando lentamente. «Anche se ci troviamo meglio nel presente» aggiunge infine.
La guardo nei suoi occhi verdi e dall'intensità del suo sguardo capisco che è l'unica persona in grado di capirmi fino in fondo. Non posso fare a meno di abbracciarla, è un gesto automatico. Finalmente ho incontrato qualcuno come lei, che ha provato le mie stesse paure, i miei stessi interrogativi, le mie stesse convinzioni, anche se in maniera un po' diversa.
«Grazie a te, Viola, non ti dimenticherò mai» affermo con un sussurro, accarezzandole dolcemente la schiena.
Dio, la conosco da poche ore eppure provo un enorme affetto e simpatia nei suoi confronti.
«Ehi, ci rivedremo, no?» si accerta lei dopo un po', «prima di tornare a casa devi assolutamente passare qui e raccontarmi com'è andata» aggiunge, staccandosi dall'abbraccio per guardarmi in viso.
«Oh, sì, sicuramente» approvo immediatamente io senza smettere di sorridere.
«Cavoli, ora devo proprio andare» fa dopo poco, sbuffando. Prima di salutarmi, mi abbraccia un'ultima volta. «Buona fortuna.»
«Ne auguro tanta anche a te» rispondo, sincera.













*** Spazio Autrici ***

Ok, dire che siamo in ritardo è ancora troppo poco. Siamo in un fottuto ritardo.
Scusatemi, mea culpa. Quella tenerona della Linda ha provato di tutto per farmi sbloccare, ha scritto tanto quest'estate, ha insistito sul fatto che dovevo ancora scrivere le note eccetera, ma nulla è bastato xD
Perché è così, mi sento terribilmente bloccata, sono demotivata, ho passato tanto tempo a chiedermi perché lo faccio e se ne vale la pena... è orribile. Specialmente perché di conseguenza ho tenuto ferma anche la povera Linda che credetemi, se fosse per lei, saremmo già a pochi capitoli dalla fine. Eppure ci sono io che blocco tutto xD Ho scritto poco o niente pure quest'estate, fate un po' voi!
Non so esattamente cosa sia, probabilmente perché quest'estate ho voluto pensare solo a divertirmi e staccare dalla scuola – l'anno passato m'ero molto impegnata con lo studio, e sono arrivata alla fine dell'anno scolastico stanchissima. Quindi non ho aperto praticamente mai Word, ero sempre in giro con gli amici e a caccia di ragazzi ahahah – tra l'altro a inizio settembre mi sono pure messa insieme con uno, quindi adesso ho davvero il tempo contato x)

Bando alle ciance, basta parlare delle cose noiose. Visto com'è lungo il capitolo 7? :) Spero basti per farmi perdonare!
Finalmente si sa qualcosa in più sul passato di Evelyn, eh? E che mi dite del pezzo condiviso con il personaggio di Viola? Piaciuto? Mi auguro di sì! ^^

Per quanto riguarda la continuazione di Ds3 come ho già accennato prima, Linda è andata avanti tantissimo ed è al capitolo 22, mentre io sono rimasta al... – non lo voglio vedere ç____ç –  11, e non l'ho ancora finito... quanto è comico? (della serie ridiamoci su sennò rischio di non aprire mai più il documento di Ds3 causa depressione xDD)
Uh, invece siamo un po' andate avanti nella nuova storiella, the Eternity of our Moments (in sigla 'EM' ;D) che speriamo di pubblicare al più presto ;)

Bien, direi che è tutto per oggi. E dato che abbiamo pensato di aggiornare un po' più di rado, almeno fino a quando non mi smuovo un po', ci risentiamo tra un paio di settimane!
Un bacio enorme a tutti quelli che sono rimasti con noi nonostante il nostro ritardo indecente (e scusate ancora, spero di sbloccarmi al più presto x.x) e grazie davvero di cuore per tutto quello che fate per noi!!

Much, much love
Lalla and Leslie

   
 
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