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Autore: Silver Pard    30/09/2011    7 recensioni
Il lieto fine dipende dal punto di vista.
[ Raccolta di rivisitazioni fiabesche:
01 ~ Cenerentola – Lei era acqua, e non esiste ostacolo che non possa superare.
02 ~ La bella addormentata – Profondamente addormentata e indescrivibilmente bella: se l’è cercata.
03 ~ La bella e la bestia – Le manca la Bestia.
04 ~ Il gatto con gli stivali – Il Gatto non è più tanto accomodante.
05 ~ Cappuccetto Rosso – Facciamo un gioco.
06 ~ Le fate – A volte le si tagliavano così tanto le labbra che i diamanti parevano rubini.
07 ~ I sei cigni – Il sesto fratello, il sesto cigno si abbandona alla deriva, dilaniato tra due mondi.
08 ~ Biancaneve – E si sveglia con il labbro rotto a morsi e gli occhi neri di odio e il cuore pieno di ghiaccio.
09 ~ Mr Fox – Osa, osa, ma non osare troppo, o il sangue dentro il cuore ti si ghiaccerà di botto.
10 ~ Hansel e Gretel – Soprattutto, ha paura del modo in cui sua sorella guarda alla strega.
11 ~ Tremotino – Il tuo nome è panna nella sua bocca, ma nelle dosi giuste, tutto è veleno. ]
Genere: Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta, Traduzione | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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NdT: okay, forse è il caso di aggiungere una nota xD
Tutte le one-shot di questa raccolta sono delle rivisitazioni e rielaborazioni di fiabe molto famose. Le versioni che l’autrice ha scelto come base sono però generalmente più oscure, più cupe di quelle a cui siamo stati abituati, con radici talvolta addirittura medievali.
In alcune delle storie, l’autrice fa riferimento esplicito alla versione da cui ha preso maggiore ispirazione, citando spezzoni o frasi dagli originali – e, quando possibile, ho pensato fosse giusto segnalarvi quello a cui riesco a risalire, postandovi link delle traduzioni corrispondenti che sono riuscita a trovare in rete.
In generale, per una panoramica un po’ più completa, un giro almeno su wikipedia sarebbe consigliabile; non saranno pagine perfette, ma di sicuro riportano informazioni interessanti e non tanto ovvie.
Questa prima storia dovrebbe essere tratta dalla Cenerentola dei fratelli Grimm.



Ashes ~ Cenere






Mia madre era una strega. Non nel senso di cattiva persona. Semplicemente aveva un potere, e invece di flagellarsi, levando preghiere all’etere affinché cambiasse qualcosa che non poteva essere cambiato, lo ha accettato e sfruttato.

Era una persona impetuosa, mia madre. Mi ricordava il proverbiale vecchio gatto che impera sullo sgabello della cucina: indifferente; padrone di sé; da non scherzarci. Non sarà il paragone più lusinghiero che possa farle, ma è il più sincero, e rende meglio l’idea della sua natura: mia madre era il gatto che sceglie di entrare a causa del freddo, ma resta solo finché lo desidera, sempre pronto ad andarsene senza degnare di uno sguardo le persone che l’hanno adorato e accudito.

Come altrimenti avrei potuto sapere di chiedere a mio padre di regalarmi il primo ramo di nocciòlo che gli avesse urtato il capo sulla via del ritorno? Avrei preferito vestiti e gioielli come le mie sorellastre, certo che li avrei preferiti, ma mia madre era stata chiarissima nei desideri che aveva espresso sul suo capezzale, e si era premurata che capissi bene cosa chiedere.

Era una strega, mia madre, e lo sono anch’io.

Così ho piantato il ramo di nocciòlo, e l’ho guardato crescere per evitare la nuova moglie di mio padre. Era una donna superba, e ha portato con sé le due figlie, di una bellezza molto tenue, ornamentale. Non avevano fuoco, avrebbe commentato mia madre, tirando sdegnosamente su col naso. L’elemento di mia madre era l’acqua; lei corrodeva o aggirava i suoi guai. Presto o tardi, ogni cosa seguiva il corso che lei prediligeva.

Io non ho la forza di volontà di mia madre, il suo flusso costante. Io ho il fuoco. Troppo, forse. È per questo che non sono venuta a patti con la mia nuova matrigna. Non le ho dato il benvenuto, come ordinatomi da mio padre. Non mi sono fatta piacere le mie nuove sorelle, benché fossero, tutto considerato, persone piacevoli. Il problema di essere streghe, immagino, è che si è sempre costretti a sospettare dei secondi fini delle persone. Il rogo è una morte dolorosa.

Quando mio padre è morto, quasi non me ne sono accorta. Era un mercante, sempre lontano da casa; una figura che aveva sempre sbiancato di fronte all’energia di mia madre. Ma quando sono stati i libri in biblioteca, a sparire, me ne sono accorta eccome. Mi sono accorta di quando i mobili pregiati hanno fatto la fine dei libri. Mi sono accorta dei vestiti nuovi che andavano alle mie due sorelle (non mi interessavano le circostanze sotto cui erano stati comprati, non mi importava che la mia matrigna li avesse elemosinati in ginocchio, tra suppliche, prestiti e recite della parte della vedova impoverita). Mi sono accorta di quando i miei gioielli, ereditati da mia madre, hanno cominciato a fare pure loro la fine dei libri, e un bel giorno la mia matrigna mi ha trovato con in mano delle forbici affilate, circondata dagli stracci dei vestiti nuovi che le mie sorellastre non avrebbero mai indossato.

Quando ho capito che l’amicizia con le mie due sorellastre avrebbe potuto dimostrarsi vantaggiosa, mi sono resa anche conto di essermi già bruciata il loro aiuto. Erano brave persone, ma per chi ha sempre conosciuto benessere, la perdita delle ricchezze è terrificante, fa perdere il controllo e la pazienza, senza contare che erano loro i vestiti nuovi che avevo ridotto a brandelli senza alcun rimorso.

Durante il giorno, appartenevo al fuoco e alla terra; ho imparato a cuocere il pane, a tener vivo il fuoco e a stare nel retrocucina, tutte arti di fuoco che ero lieta di apprendere e che mi sono valse il disprezzo delle mie sorelle. Alla notte, andavo all’albero di mia madre e danzavo come danzava mia madre, facevo magie come le faceva mia madre, e in fondo ero felice.




Era ovvio che le cose non rimanessero così. La magia di mia madre era forte, e non lo avrebbe permesso.

Lei era acqua, e non esiste ostacolo che non possa superare.




Ero invidiosa, quando sono andata all’albero di mia madre per chiederle di farmi andare al ballo. Avevo diciassette anni e avevo voglia di ballare, di sapere cosa le mie sorelle ci trovassero di gratificante negli sguardi interessati degli uomini, di sapere cosa si provasse ad essere una ragazza normale per una volta, solo per una volta.

Così ho indossato il vestito procuratomi da lei, ho infilato le scarpette tutte d’oro, mi sono legata i capelli e li ho fissati con dei gioielli, come lei aveva stabilito per me. Mi sono alzata, sono uscita e ho danzato come fuoco che può finalmente scatenarsi. Ho ballato con il principe. Non ho avuto voce in capitolo – era il principe; come potevo dire di no? E ho ballato con il principe fino alla mezzanotte, sperando fino all’istante stesso del rintocco dell’orologio che mi lasciasse andare, che mi lasciasse ballare con qualcun altro nella mia sera di libertà, che mi lasciasse libera. Ho danzato, e danzato, e l’ho odiato, e al contempo l’ho amato, perché la magia di mia madre era d’acqua e la mia di fuoco, e in un sentimento potente come l’amore dobbiamo essere sempre in contraddizione.

Al rintocco della mezzanotte, sono scappata a casa, e ho buttato via il vestito maledicendo mia madre e la sua magia, perché sapevo che sarei tornata la notte successiva, e quella dopo ancora.

E così è stato, sebbene sperassi ogni volta che la magia di mia madre allentasse la presa su di lui, che mi lasciasse in pace solo per un paio d’ore per ballare con qualcun altro, chiunque egli fosse, chiunque io desiderassi – non è buffo come, dopo aver ricevuto il sogno di ogni ragazza, me ne volessi sbarazzare?

Alla terza notte, quando sono scappata via, speravo ancora che quello non fosse che un interludio della mia vita, soltanto tre giorni che brillavano di magia, a cui guardare con affetto nel lontano futuro – ah, figli miei, avrei potuto essere una principessa se solo avessi voluto. Solo che non volevo.

Ma il mio principe era astuto, e mia madre era forte, determinata a impormi un lieto fine, a darmi il meglio che si potesse chiedere dalla vita.

Il principe ha fatto spalmare della pece sugli scalini, e una delle belle scarpette che mi hanno donato le colombe di mia madre ha ceduto ed è rimasta incollata, e per quanto abbia tirato non sono riuscita a staccarla.

A casa, in cucina, mentre scrutavo le ceneri per intravedere il futuro che mi avrebbero predetto, non ho visto altro che fango.




Quando alla porta di mia madre sono arrivati degli uomini che portavano la scarpetta, io sono rimasta nel retrocucina, mentre le mie sorelle si facevano prendere dal panico e dalla speranza, e si studiavano i piedi con un singolare misto di pessimismo e speranza.

Sapevo che a loro non sarebbe entrata. Creata per il mio piede con la magia, sarebbe stata sempre troppo grande o troppo piccola per qualunque piede che non fosse il mio. Ma io non volevo sposare un principe. Avevo ballato con lui, e mi era piaciuto. Ma sposarlo? Neanche tutto il potere di mia madre avrebbe potuto convincermi del tutto che era quello che volevo. Non volevo diventare principessa o regina, essere inibita, rimodellata e costretta a rientrare nell’aristocrazia. Mia madre avrebbe potuto farcela, ma io sono fuoco, e un’esistenza come quella mi avrebbe ridotto in cenere.

Così, quando la più giovane delle mie sorelle è entrata in cucina, in lacrime, ho visto una via di scampo. Glielo si leggeva in viso con quanta disperazione volesse partire, andare incontro a quel lieto fine.

« Per favore, per favore aiutami » mi ha pregato. Ricordavo di come aveva pianto nel cuscino, ricordavo le sue labbra mute e il volto rosso davanti alla lingua acida della sorella, ricordavo di come avesse sempre scelto l’ultimo dei doni, perché sua sorella sceglieva sempre per prima.

Volevo aiutarla, perché era la più gentile delle mie sorellastre, e volevo ferirla, perché sono una persona vendicativa e non dimentico i torti. Mi sono poi resa conto che le due cose non erano completamente incompatibili.

« Dammi il tuo piede » le ho detto. Non le ho mentito, non le ho detto che non le avrebbe fatto male.

« Resta immobile » le ho detto.

« Resisti » le ho detto.

Lo scricchiolio della lama sull’osso somigliava molto al rumore delle articolazioni dei polli che si spezzavano.

L’ho aiutata a uscire dalla cucina, pallida come il latte e la caviglia legata stretta. « Si sente mancare al pensiero di rivedere il suo principe » ho detto loro, e li ho guardati mentre l’aiutavano a montare a cavallo, sperando che il principe ci cascasse.




Un servitore mi ha raccontato in seguito che una delle colombe sull’albero di mia madre ha iniziato a cantare al loro passaggio

(voltati e osserva la sposina, voltati e osserva la sposina, ha del sangue nella scarpina)

ma l’aiutante di campo, prossimo a un esaurimento nervoso e sfinito da una ricerca così futile, ha ribattuto seccamente che uno di loro si sarebbe accorto del sangue che filtrava, se ce ne fosse stato. Ho maledetto la magia di mia madre, che aveva creato una scarpa trasparente come il vetro.

(per il suo piede è troppo stretta, ancor la sposa in casa t’aspetta)

Quando la mia sorellastra maggiore è entrata in cucina, non ho avuto bisogno di sentirla parlare e non ho avuto bisogno di tempo per essere certa del mio intento. Quando è uscita, era nello stesso stato della sorella; per la prima volta nella loro vita, erano pari.

Sapevo già che avrebbe fallito, ma io sono fuoco, e non mi curo di chi brucio.

Le colombe di mia madre hanno cantato, e la squadra di ricerca è tornata alla casa, dove mi hanno trovato ad attenderli.




Il matrimonio è passato in un turbinio di pizzo e di cambi infiniti di abiti, tutti assurdamente stravaganti. Il vestito era talmente pieno di gioielli, e lo strascico era tanto lungo, che potevo fare solo passetti leziosi; la corona era così pesante che a stento riuscivo a tenere alta la testa.

Ho pronunciato i miei voti e ho pianto, e forse il mio principe le ha interpretate come lacrime di gioia, come il popolo, e la testa mi girava per via di tutte quelle strane espressioni, per gli echi che rimbombavano sulle mura della cattedrale, per la baraonda di cuochi, sarti e domestiche che ricercavano tutti la mia approvazione, per la regina che mi studiava con i suoi freddi occhi indagatori, che si chiedeva chiaramente che razza di principessa sarei stata.

Me lo chiedevo anch’io. Il mio principe no. Mi ha portato nella camera nuziale e mi ha insegnato ciò che desiderava che io sapessi.




« Non ti è permesso possedere un coltello » ha detto. « Non ti è permesso possedere un pugnale, non ti è permesso possedere una spada. Preferisco che le mie dita di mani e piedi restino come, quante e dove sono. Non confondermi con i tuoi parenti. »




« Non devi spazzare, non devi accendere il fuoco, non devi cucinare, non devi rassettare. Per queste faccende esistono i domestici. »




« Non ti è concesso lasciare i confini del palazzo senza accompagnamento. »




« Non è necessario che tu vada a visitare l’albero di tua madre. Verrà sradicato e ripiantato nei nostri giardini. »




Fai questo. Non fare quello.

Sei una regina, non una domestica. Sei una bambola, non una persona.

Ero fuoco, ma mia madre era acqua, e oramai sono cenere.
   
 
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