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Autore: SunriseNina    30/09/2011    11 recensioni
Un ritorno al passato di TK.
Un passato che lo ha portato fin dove ha iniziato a combattere Tenshi.
Un passato che è stato una condanna.
Genere: Malinconico, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'What happened before the death?'
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-Non ti preoccupare, Thomas- singhiozza la donna–La mamma… la mamma ti vuole bene!-
Gli accarezza le guance, gli scompiglia i folti capelli biondi; il bambino la fissa con i grandi occhi smeraldini, le afferra la mano, la stringe con le piccole dita, è tutto quello che può fare.
La donna si asciuga una lacrima con un singhiozzo. Sul dito le rimane una sbavatura nerastra di trucco.
Sa che non può sentirlo.
Sa che non può rispondergli “Ci proverò” o “Ti voglio bene mamma”, ma glielo legge nello sguardo.
Sente anche la sua voce, quella voce che non riesce ad usare, rimbombarle nella testa dicendo “Non andartene, mamma”. La sente, come il richiamo malinconico e supplicante di uno spettro.
Lo solleva e lo posa sul divano cigolante. Afferra il telecomando infossato tra i cuscini dai bordi sfilacciati e lo punta contro la tv; dal comodino su cui è poggiato, l'apparecchio si accende e il piccolo soggiorno si riempie con i ritmi hip hop di un qualche canale musicale, insieme al rumore scrocchiante delle interferenze.
 -Mamma torna, Thomas. Mamma torna sempre, ok?- gli bacia la fronte e poi scappa via dalla porta d’ingresso nel tacchettare delle sue zeppe vertiginose.
Thomas rimane da solo, il segno rossiccio e appiccicoso del bacio sulla fronte. Solo come sempre.
Fissa le rovinate immagini in movimento della televisione, senza riuscire a sentirne nemmeno una nota.
Il cantante muove convulsamente le labbra, come tutti fanno intorno a lui, bambino di nove anni che non riesce a vivere come gli altri.
Thomas si alza dallo scomodo divano, corre in cucina e afferra dei fogli ripiegati sotto il frigorifero ronzante.
È il suo nascondiglio.
Qualche volta gli è capitato di tagliarsi i polpastrelli, perché le schegge di vetro sono insidiose e si nascondono insieme al luridume sotto il frigo.
Schegge brillanti e verdastre, come i suoi occhi; ogni tanto sente quando la madre fa cadere sul pavimento le bottiglie: lui si chiude in bagno, facendo scattare la serratura, e aspetta lì in mezzo alle trousse di colori variopinti sparse ovunque, fino a quando la casa non è invasa dal silenzio; allora esce dal suo rifugio, passa accanto alla madre che russa rumorosamente stravaccata sul divano o per terra, va in cucina, prende uno straccio e asciuga la birra con molta attenzione, cercando di raccogliere tutti i frammenti di vetro e di non lasciare il liquido in terra, perché sa che altrimenti diventerà una macchia appiccicosa.
Questa volta, per fortuna, non si taglia; con i fogli stretti in mano, torna nel salotto, si siede sul tappeto grigiastro davanti alla televisione e dispone in ordine i suoi fogli spiegazzati davanti a sé.
Sono testi di canzoni.
Thomas sa leggere, e il suo desiderio più grande è quello di poterle dire, quelle parole.
Alcuni testi glieli ha stampati mamma, perché vedeva che il figlio era molto interessato a quella musica che non poteva sentire ma che mimava con le labbra. Il bambino scorre con l’apice dell’unghia sulle parole, poi si alza di scatto e guarda il televisore.
Imita un po’ di street dance, incrociando le gambe e girando su se stesso, muovendo le mani in tutte le direzioni senza logica e senza regolarità.
Ed eccolo, il piccolo Thomas, immerso nella tetra miseria di quell’appartamento sudicio e disordinato, a imitare i suoi miti, le loro parole, i loro gesti con l’innocenza di chi desidera qualcosa con tutto il cuore.

Thomas lo fa anche per tutta la sera, tutta la notte, fino quando fuori dalle persiane il cielo non diventa nero come la pece e il salotto è illuminato solo dall’apatica luce di un lampadario rotto che pende dal soffitto. Arraffa qualcosa dal frigorifero, la mastica con voracità e torna al suo ballo, a quel ritmo che sente nelle vene ma che non può ascoltare.

Danza.
Mima delle parole inesistenti con le labbra. La mamma tornerà.



La mamma torna sempre, dopo ogni notte.
La vuole aspettare, così la aiuta a togliersi quegli abiti succinti e il trucco abbondante e sbavato; non si muove tanto bene, dopo la notte.
Sembra non capire dove si trova, o non volerlo capire, non volersi arrendere all’idea di vivere in quel lurido locale con un figlio così.

Balla, balla ancora, instancabile, la fronte imperlata di sudore.
Ogni tanto ciondola in preda al sonno, ma si riprende, e continua.
Deve aspettare la madre sveglio.

La mamma tornerà. La mamma torna sempre.





Le persiane filtrano i primi raggi color albicocca dell’alba, e poi la luce prorompente della mattina.
Thomas è seduto sul pavimento, gli occhi gonfi e iniettati di sangue, i fogli con i testi delle canzoni sparse in giro, la tv accesa da ore e ore.
Fa ondeggiare la testa, come cullando i pensieri. Il suo sguardo passa sulle parole del foglio che tiene in mano senza riuscire effettivamente a capirle.
Thomas si alza, spegne la tv, accartoccia il foglio che teneva in mano, lo getta contro la parete; si accascia sul divano e piange.

Piange, piange, piange.



Capisce che c’è qualcosa.

Perché mamma non torna?
 





















Sono passati anni, ormai, da quella sera maledetta.
La vita di sua madre si è spenta in un tuonare di clacson e nella luce accecante dei fari di una macchina.


Non riesce più a sopportare il dolore.
Avrebbe voluto vederla, riuscire a dirle “Ti voglio bene, ti stavo aspettando, dove eri finita?”, urlarlo con una voce potente e squillante.
Tutti i giorni vive immerso tra camici bianchi e sorrisi sconsolati. 
Studia da solo. Non lo hanno mandato a scuola con gli altri ragazzi, perché quando a dieci anni la sua vita è precipitata tra le mani di dottori e servizi sociali era troppo grande per potersi adattare, per poter sperare di essere come tutti gli altri.
È come vivere in una prigione che ti guarda con dolcezza per nascondere la sua freddezza e la crudeltà della vita: questo gli dicevano tutte quelle pareti candide, gli oggetti immacolati, quelle espressioni serene e obbligate nei suoi confronti.

Thomas guarda la sua immagine nello specchio e stringe l’impugnatura della lama, tremante.
Pochi minuti. Sa che, se riesce bene, ci impiegherà pochi minuti.
Pochi agonizzanti minuti.

Avvicina il coltello lucente al collo che sussulta per il respiro affannato. Deve solo prendere l’arteria.
Sente la gola vibrare: sta forse urlando, o dicendo le sue ultime preghiere? Non può saperlo.



“Arrivo, mamma”.

 
 











 
-Ha sentito la tragedia? Il ragazzo, quello lì di diciassette anni, dell’Istituto…-
-Sedici anni, mia cara, l’ho letto sul giornale. Povero, povero ragazzo. Sordo muto, e con un passato così disgraziato...-
-Ma sanno chi fosse il padre?-
-Un fidanzato della madre, non sono mai stati sposati... Si chiamava Arthur Keegan. Il ragazzo si chiamava Thomas, Thomas Keegan-.
-Che il buon Dio lo faccia vivere in pace!-
-Davvero, mia cara, davvero- l’anziana scuote la testa e alza gli occhi al cielo, come per intravedere fra le nubi il volto del giovane suicida, senza sapere che il ragazzo, in quel momento, sta combattendo contro il Dio che stanno invocando.

































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Spazio Autrice:

La fine di Angel Beats mi ha lasciato davvero l'amaro in bocca, perché non hanno detto niente sui passati dei protagonisti. Ho inventato la storia di quello più stravagante e misterioso, TK, interpretando le sue stranezze. Questo è stato lo spunto principale. Non so quanto possa essere attendibile, lo ammetto xD
Spero vi piaccia :)
   
 
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