Anime & Manga > Il grande sogno di Maya
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Autore: editio    05/10/2011    1 recensioni
L'amore impossibile di Genzo...
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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All’ombra della dea

 
Si sollevò a fatica dalla scomoda posizione che aveva involontariamente assunto nel sonno; appoggiò un piede a terra e si puntellò sul ginocchio dell’altra gamba, poi con un gemito si issò lentamente in piedi. La Sensei stava ancora dormendo, ne vedeva il petto alzarsi e abbassarsi regolarmente, e gli occhi muoversi veloci sotto le palpebre chiuse. Per il momento non si sarebbe svegliata, quindi fece scorrere delicatamente lo shōji e uscì nel corridoio. Come prima cosa si diresse verso il bagno per soddisfare le più immediate necessità corporali, poi uscì nel giardino. L’aria era tersa e frizzante, come sempre a quell’ora in montagna. Chiuse un attimo gli occhi e inspirò profondamente: l’odore della notte stava svanendo per lasciare spazio a quello più dolce dei fiori, dell’erba e delle ninfee che iniziavano a schiudersi nel piccolo stagno lì vicino. Riaprì gli occhi, si spostò sotto i rami sporgenti di un ginkyō e prese posizione.
Aveva preso l’abitudine di iniziare la giornata con gli esercizi del Rajio Taisō quando era un soldato, ancora ragazzo. Non aveva neppure più il coraggio di pensare a quanti anni fossero passati da allora, gli sembravano secoli, e li sentiva tutti pesare sulle spalle. Come accadeva ogni volta che il pensiero tornava indietro ai tempi della sua giovinezza, il ricordo di quell’ultima battaglia riaffiorò prepotente agli occhi della memoria.
 
Tremava. Avrebbe voluto smettere ma la paura era più forte della sua volontà. Più forte di qualunque altra sensazione. Più forte della fame, della sete, della stanchezza. Più forte persino dell’onore. Si aggrappava al fucile come se fosse l’unica sua via di salvezza. E lo era, in effetti. Almeno così gli avevano insegnato. Lo stringeva con la forza della disperazione, e dei desideri. Premeva il corpo contro i sacchi di sabbia della trincea e puntava l’arma davanti a sé, verso l’aria impregnata dell’odore della polvere da sparo, verso il rumore dei cingolati che risalivano la scarpata, verso il fragore assordante degli spari e le urla smorzate dei soldati. Tremava e cercava di scorgere le ombre che si muovevano oltre la cortina di nebbia fumosa. Stavano arrivando, le voci concitate del comandante e del telegrafista non lasciavano dubbi sull’esito della battaglia giù alla spiaggia. Gli americani stavano arrivando e lui aveva paura di morire. Deglutì con forza cercando di ricacciare in fondo alla stomaco il conato che già da un po’ sentiva premere in fondo alla gola. Poi un fischio acuto perforò l’aria e un boato tremendo gli fece girare di scatto la testa indietro e vide terra che volava dappertutto e oscurava anche quella poca luce che ancora riusciva a filtrare attraverso il fumo nero. E i colpi di fucile sempre più vicini, e le grida, i rantoli dei feriti, il sibilo dei proiettili. Tutto fuso nelle sue orecchie e nella sua testa. La sua stessa voce che si univa a quella dei compagni e dei nemici, ad ogni colpo sparato. Terrorizzata. Sgomenta. Urlava per darsi coraggio. Urlava per trovare in sé una motivazione. Urlava perché non sapeva cos’altro fare.
Poi il dolore. Forte, bruciante, stordente. Si lasciò cadere giù, le gambe come cera fusa. Mosse lentamente la testa e vide i suoi compagni muoversi come sott’acqua, le bocche che lasciavano uscire parole mute. Molti erano distesi a terra, sanguinanti, immobili; altri avevano il corpo scosso da brividi di morte. Portò la mano alla spalla e non seppe trattenere un gemito quando le dita sfiorarono la ferita. Abbassò la testa e vide la manica della divisa inzuppata di sangue, il suo sangue. Tutto, davanti a lui, sembrò ondeggiare e si trovò in balia del dolore più atroce che avesse mai sentito. Ormai era finita. Freneticamente cercò il pugnale. “Darsi la morte per non incorrere nel disonore della prigionia”, ecco ciò che i suoi superiori gli avevano ordinato. Appoggiò la lama sullo sterno e premette leggermente, quel tanto che bastava a sentirne la puntura leggera proprio sopra al cuore. Ma il coraggio della spinta finale, quello gli mancò. Lo allontanò da sé e lo scagliò lontano, rimanendo inginocchiato tra la polvere e il sangue a urlare la sua frustrazione verso un cielo impassibile.
 
Per anni quel suo gesto di codardia lo aveva perseguitato, ma ormai aveva perdonato se stesso. Aveva espiato e riscattato la propria vita in un compito altrettanto onorevole.
Piegò il busto nel ringraziamento rituale ad un maestro invisibile e si diresse con passo fermo verso l’abitazione. Percorrendo il corridoio davanti alla stanza della Sensei, appoggiò l’orecchio al sottile e rigido foglio in carta di riso e cercò di percepire qualche rumore. Silenzio. Pensò che poteva anche concedersi un bagno veloce prima di occuparsi della colazione.
Immerso nell’acqua fumante e circondato solamente dal canto degli uccelli e dal gorgogliare della fonte tentò di fare qualche programma per la giornata, ma faticava a concentrarsi: sembrava che quel giorno la sua mente volesse ripercorrere inesorabile i sentieri tortuosi del passato. Sfiorò con mano leggera il laghetto, provocando solo una piccola increspatura sulla superficie placida, e ricordò la notte in cui, in quello stesso luogo, aveva fatto il bagno con la Sensei. La notte in cui aveva, prima e unica volta, toccato il corpo nudo di una donna.
 
Ichiren-sama era morto da quattro giorni e lei non parlava, non mangiava, non rispondeva. Si limitava a starsene immobile al buio, con negli occhi ancora l’immagine di quel corpo penzolante dalla trave del soffitto. Dopo che le aveva fermato la mano con cui voleva togliersi a sua volta la vita e l’aveva convinta a portare avanti il sogno di Ichiren-sama non l’aveva più lasciata un attimo. Aveva pianto insieme a lei, le aveva parlato, le aveva asciugato la bocca dal vomito, le aveva urlato contro, l’aveva anche schiaffeggiata, ma non era riuscito in alcun modo a scuoterla da quel suo stato catatonico. Alla fine l’aveva presa tra le braccia, pesava come uno scricciolo, l’aveva adagiata in macchina e aveva guidato per quindici ore filate prima di arrivare nella Valle dei Susini. Lei aveva dormito per quasi tutto il viaggio, e quando si era svegliata non si era guardata intorno, né aveva posto alcuna domanda, ma era rimasta seduta immobile all’ombra dell’engawa dove lui l’aveva lasciata mentre scaricava i pochi bagagli e li portava nelle stanze. E non si era mossa neppure mentre lui consumava velocemente un po’ di riso bollito e di pesce secco per stemperare i morsi della fame e mentre decideva che entrambi avessero bisogno di un bel bagno nel laghetto termale del giardino.
L’aveva spogliata lentamente, un indumento dopo l’altro, con le mani tremanti e il cuore appesantito da una sofferenza quasi insopportabile. Poi si era denudato a sua volta, l’aveva sollevata e si era immerso insieme a lei nell’acqua fumante. L’aveva lavata con cura, sfiorando delicatamente ogni curva, ogni piega di quel corpo che era stato l’ultima consolazione terrena di Ichiren-sama. Lei lo aveva lasciato fare, indifferente. Ma anche lui stava iniziando a cedere: la stanchezza, la disperazione, l’incertezza stavano cominciando a sgretolare il muro che aveva costruito a protezione del suo dolore e del suo cuore.
«Chigusa-san vi prego, reagite. Non potete abbandonare adesso tutto quello per cui Ichiren-sama ha lottato ed è morto. Non potete tradire in questo modo la sua fiducia. Vi ha lasciato in custodia la sua anima, non potete…» non era più riuscito a trattenere i singhiozzi «…non potete lasciarla morire così. Non potete lasciarlo morire un’altra volta.»
Gli occhi di lei si erano allora riempiti di lacrime.
«Non posso» aveva sussurrato. «Non posso.»
 
Il tintinnio dei campanelli mossi dal vento lo destò e lo richiamò ai suoi doveri. Uscì dall’acqua, indossò il morbido yukata, e andò nella sua stanza a vestirsi. Aveva pochi abiti, tre completi all’occidentale e un kimono tradizionale, più qualche tuta che usava quando doveva svolgere lavori particolarmente pesanti. Era sempre stato un uomo di poche pretese: curava il suo aspetto perché credeva nel rispetto delle leggi divine e nell’ordine, ma sapeva di non essere mai stato attraente, neppure quando era ancora un giovanotto nel pieno delle forze. Aveva imparato ad amare il teatro e aveva anche cullato il sogno di diventare un attore nonostante tutto, ma la sua vita aveva imboccato sentieri diversi; paralleli, ma diversi. Tuttavia, per quanti fossero i desideri mai realizzati e le aspirazioni accantonate, non rinnegava o rimpiangeva nessuna delle occasioni perdute. Ogni sua scelta era stata voluta e ponderata. Alla fine della guerra aveva deciso di trasferirsi a Tokyo perché si era innamorato e sentiva di non poter vivere lontano dall’oggetto del suo amore. Anche se non era ricambiato. Anche se sapeva che avrebbe sofferto. Dopo la morte di Ichiren-sama aveva scelto di rinunciare a fare l’attore per continuare ad occuparsi di Chigusa-san perché lei aveva ancora bisogno di lui e perché era l’unico modo che aveva per onorare l’uomo che amava.
 
«Buongiorno Sensei, come vi sentite oggi?»
«Meglio, Genzo, grazie» rispose lei con un sorriso. «Sei rimasto al mio capezzale tutta la notte?»
«Sì. Ho preferito non correre rischi. L’attacco di ieri, seppur leggero, vi ha lasciata molto prostrata» disse, mentre le posava in grembo il vassoio della colazione. Non era mai stata una gran mangiatrice, neppure in gioventù, sempre troppo presa dai suoi pensieri o dalla recitazione, ma negli ultimi anni, da quando la malattia si era aggravata, mangiava veramente come un uccellino. Le aprì la scatola laccata contenente il riso bollito e le versò una tazza di tè verde, denso e profumato. La Sensei seguiva con attenzione ogni suo movimento, osservandolo con uno sguardo pacato e quasi dolce.
«Da quanti anni sei il mio assistente, Genzo? Quante difficoltà abbiamo condiviso per arrivare a questo punto? Ma ormai siamo vicini alla fine, tra poco una nuova Dea Scarlatta illuminerà il mondo con la bellezza dell’anima di Ichiren-sama.»
Genzo si immobilizzò con la teiera ancora in mano a pochi centimetri dal tatami e la guardò con gli occhi sgranati dalla sorpresa.
«Avete deciso, allora! Sapete già a chi affidare il ruolo della Dea…»
«Ormai sì, sono quasi sicura» dichiarò lei con un sorriso enigmatico. «Ma non te lo dirò. Non finché non ne avrò la certezza.»
Non le rispose. Aveva sentito un impeto di rabbia nascere nella profondità del suo cuore a quell’ultima affermazione, e sapeva che se avesse detto anche solo una parola non sarebbe stato capace di trattenerlo. Le aveva dedicato tutta la vita e lei continuava a trattarlo con quel misto di riserbo e condiscendenza con cui ci si rivolge ai servitori! Capitava, ogni tanto, che chiedesse il suo parere, ma raramente lo ascoltava e ancora più raramente gli spiegava cosa le passasse per la testa. Le era sinceramente affezionato, l’ammirava e la rispettava ma a volte avrebbe voluto scuoterla e dirle che lui era lì, che anche lui aveva sacrificato tutto se stesso sull’altare di una Dea spietata e di un amore impossibile, e che avrebbe voluto almeno qualcosa in cambio. Sì, ma cosa? La risposta a quella domanda non l’aveva ancora trovata.
La Sensei cominciò a mangiare il suo riso con lentezza, di nuovo persa nei suoi pensieri e lui rimase inginocchiato vicino al futon, in attesa.
“Chissà chi sceglierà?” pensava tra sé. Le due candidate erano entrambe bravissime, anche se in modi molto diversi. Ayumi-san aveva il fascino della bellezza, della forza, di un’incredibile tecnica: sarebbe stata una Dea perfetta. Maya-chan invece aveva il cuore di Akoya, la sua innocenza, la sua capacità di perdersi e annullarsi in quello che la circondava. E in più aveva l’amore. La Sensei aveva notato che ultimamente Maya era innamorata, ma non aveva capito di chi. E, di conseguenza, non si era neppure accorta che era ricambiata. Abbassò la testa impercettibilmente e nascose un sorrisetto tra i baffi.
A volte gli veniva la voglia di prenderli entrambi e scuoterli e urlare loro: «Svegliatevi! Per l’amor del cielo, svegliatevi! Perché state lì a perdere tempo a ferirvi quando vi siete già trovati? La vita è così breve, non sprecatela con scrupoli inutili!»
La vita è breve, esisteva forse una frase più comune di quella? Eppure nella sua banalità era una delle verità più profonde. Ma finché si è giovani si pensa di poter disporre dell’eternità, di avere il tempo di fare qualsiasi cosa, anche dimenticare. Purtroppo, o per fortuna, ci sono cose che non si dimenticano. Mai. Neppure volendo. Lui non avrebbe mai dimenticato la guerra, l’esperienza più sconvolgente a cui un essere umano possa andare incontro; e neppure avrebbe mai dimenticato la prima volta che aveva visto la Dea Scarlatta.
 
Non sapeva come ma era riuscito a sfuggire alla morte e alla prigionia e dopo quell’ultima terrificante battaglia era stato rimandato a casa, convalescente, ancora debole e febbricitante, ma non in pericolo di vita. La sua famiglia abitava nella prefettura di Nara, in mezzo ai monti, un luogo quasi fuori dal mondo per quanto era isolato, e lontano dagli orrori della guerra, almeno da quelli immediatamente visibili.
Un giorno mentre stava passeggiando li aveva visti. Un uomo dall’aria triste ed elegante e una giovane donna dalla bellezza straordinaria. Lei si muoveva lieve come se sfiorasse appena il terreno anziché camminare. La sua figura era flessuosa come i rami del salice mossi dal vento ma la sua espressione era distante e irraggiungibile come certe statue degli dei. L’uomo le stava parlando, stava raccontando la storia della valle protetta dal drago, una vecchia leggenda che tutti in quei luoghi conoscevano.
Si era avvicinato e si era seduto dietro a un masso, la schiena appoggiata alla superficie ruvida e irregolare, perso nell’evocazione di cruente battaglie, di uomini spietati e mondi in disordine e poi dell’armonia e della tranquillità della natura. Di volta in volta la voce modulata e chiara dell’uomo diventava lo stormire del vento tra gli alberi, il divampare silenzioso della fiamma, il fragore dell’onda di piena, il profumo ricco e seducente della terra bagnata dalla pioggia. E poi ancora l’acciaio della volontà divina, e lo struggimento dell’amore. L’universo intero sembrava racchiuso in quella vibrazione profonda e pura.
Era rimasto affascinato dalla potenza delle parole, dalla loro capacità evocativa, dal senso profondo che risvegliavano in lui. Ed era rimasto stregato da quella voce. Conquistato al punto di averla sognata quella stessa notte. Velluto e seta tra le sue dita ruvide di contadino, era come una sorgente fresca a cui potersi dissetare, solo che più ne beveva e più ne desiderava, più l’ascoltava e più ne sentiva il bisogno.
Aveva chiesto in giro chi fossero quei due, si era informato e li aveva spiati per tutto il tempo che erano rimasti. Ma un giorno non erano andati a provare sotto i rami intrecciati del susino centenario, e neppure quello seguente e allora aveva capito che erano partiti, aveva capito che la Dea era pronta per mostrarsi al mondo.
 
Passeggiavano vicini per i sentieri di ghiaia del giardino. La Sensei sembrava essersi ripresa dal malore del giorno prima e dopo una giornata trascorsa stesa nel futon aveva detto di aver bisogno di un po’ d’aria e movimento. Il sole stava rapidamente scendendo dietro la montagna colorando l’aria dei riflessi sanguigni dei petali dei susini in fiore.
«C’è un pensiero che mi tormenta, Genzo» disse all’improvviso rompendo il silenzio che li avvolgeva come una coperta calda.
La guardò in tralice per un attimo prima di rispondere. Il tempo aveva lasciato i suoi segni anche su di lei: lo sguardo luminoso della giovinezza si era indurito e assottigliato, conferendole un’aria severa e impenetrabile. Le rughe attorno alla bocca e agli occhi trasmettevano una sensazione di amarezza e ostilità. Quel corpo che tanti aveva fatto sognare e da altrettanti bramato si era asciugato, come un pezzo di legno esposto per troppo tempo al sole bruciante dell’estate; aveva perso la linfa vitale e quello che ormai la manteneva in vita era solo la cieca ostinazione a non volersi arrendere, a non voler rinnegare la tacita richiesta che Ichiren-sama le aveva lasciato in eredità insieme alla propria opera. La Dea Scarlatta era nata come reazione alla distruzione e al fallimento, una voce che si levava a inneggiare alla comunione contro la divisione, all’amore contro l’odio e la guerra. Eppure, aveva anch’essa lasciato dietro di sé una scia di morte e dolore e rancore. A volte Genzo si chiedeva se c’era veramente un senso profondo nei versi di quell’opera o se tutto non si esaurisse, in realtà, in belle parole e movimenti eleganti. La Sensei voleva che l’anima di Ichiren-sama, che i pensieri, i desideri, i sogni che egli aveva riversato dentro al suo capolavoro, non venissero dimenticati, che toccassero i cuori degli spettatori e li infiammassero del loro fuoco purificatore. Ma era veramente possibile una cosa del genere? Poteva un’opera teatrale cambiare le persone? Lui era convinto di no. Poteva regalare loro un bel ricordo, un tepore nel petto, ma una volta fuori dal teatro le loro vite avrebbero seguito il percorso di sempre, la via tracciata da ogni singolo destino. Che poi, a pensarci bene, era quello che diceva anche Ichiren-sama: le anime gemelle si incontrano perché così è scritto, perché non possono stare separate, è il loro essere comune che le reclama. Peccato però che nella vita potesse anche capitare di innamorarsi di qualcuno che non fosse la propria anima gemella, qualcuno che non avrebbe mai corrisposto lo sguardo appassionato che gli veniva rivolto e il dolore della privazione non era certo inferiore in quel caso.
«Mi stai ascoltando, Genzo?»
«Eh… sì Sensei, scusate!»
«Mi sembri lontano oggi. Stai bene?»
«Sì, è solo che… oggi il ricordo di Ichiren-sama è più presente del solito.»
Chigusa Tsukikage abbassò lo sguardo sui suoi piedi e sul vialetto di ghiaia che stavano percorrendo. Il fantasma di un sorriso le increspò le labbra.
«Non lo hai mai dimenticato neppure tu, vero? Il tuo amore per lui, intendo.»
Genzo lasciò uscire un profondo sospiro prima di rispondere. Gli occhi fissi sui rami dei salici che si muovevano appena al soffio della brezza leggera.
«No, non ci ho neanche mai provato seriamente, a dire la verità.»
 
Quando si era accorto di essersi innamorato di Ichiren-sama? Dopo la loro partenza dalla Valle dei Susini aveva cercato di scrollarsi di dosso la forte impressione che quelle immagini rubate gli avevano lasciato. Si diceva che era solo colpa della febbre causata dalla malattia: la debolezza lo aveva reso suggestionabile e inerme di fronte alla novità. Ma, nonostante gli sforzi e l’impegno che ci metteva, alla fine si ritrovava sempre sotto i rami del susino secolare a ricordare le parole, i movimenti, le espressioni di quello straniero. Di notte la sua voce piena ed educata gli parlava nel sonno, la sentiva raccontare ancora e ancora la storia di Akoya e Isshin, con toni ora delicati, ora forti e imperativi. Poi, una sera, qualcosa era cambiato. Nel buio l’aveva sentito rivolgersi direttamente a lui, aveva sentito quella voce meravigliosa fremere e irruvidirsi di piacere mentre lui, nel sogno, accarezzava con le mani e la bocca la sua intimità. Si era svegliato sudato e umido, il membro ancora pulsante e lo yukata sporco del suo stesso umore.
Aveva cercato di negarlo e di imporsi un’altra via, aveva combattuto a lungo contro quello che evidentemente gli dei avevano deciso per lui, ma era stata una lotta impari che lo aveva lasciato svuotato. Una parte di lui sembrava essere andata via insieme a Ichiren Ozaki e a lui non restava altro da fare che seguirlo per poter capire e decidere. Perché si può vivere senza l’anima, ma non senza il cuore.
Non ci aveva messo molto a trovarli, e ancora meno a farsi assumere come comparsa al teatro Gekko. Rivederlo dopo tutto quel tempo lo aveva lasciato senza fiato. Lo sguardo lontano e deciso che aveva sempre avuto in montagna era scomparso sostituito da un calore che a volte sembrava sfiorare la beatitudine, soprattutto quando guardava la sua pupilla interpretare la Dea. Dopo aver visto quello sguardo lui avrebbe voluto pugnalare Chigusa Tsukikage dritto nel cuore.
 
«Ma ditemi, cos’è che vi tormenta?»
«Un pensiero, un timore a dire il vero. L’unica cosa che mi trattiene dallo scegliere Ayumi come prossima Dea.»
Genzo sollevò un sopracciglio.
«E quale sarebbe questo timore?»
«Ayumi è solo interessata alla recitazione, tutte le altre questioni non hanno importanza per lei. Non sono sicura che farebbe del suo meglio per impedire che i diritti della Dea finiscano nelle mani di Hayami.»
«Di tutti gli Hayami, o solo di Eisuke Hayami?» chiese lui, continuando a camminare. Rimase qualche secondo in silenzio poi proseguì. «Eisuke Hayami è solo un uomo e neppure tutto il suo potere gli impedirà di morire prima o poi, esattamente come un qualsiasi altro essere umano. Io, e solo io forse, capisco l’odio che nutrite per quell’uomo. È lo stesso che provo io, e vederlo ferito e alla mia mercé quella volta in montagna mi ha dato una soddisfazione come non ne avevo mai provata prima. Avrei potuto ucciderlo, fargli pagare tutto quello che ci ha fatto patire in questi lunghissimi anni, ma mi sono reso conto all’improvviso che anche lui è nient’altro che un vecchio ormai, vecchio e malato, e che la morte sarebbe stata forse una liberazione. Per questo sono venuto a chiamarvi e vi ho condotta da lui.» Si fermò e si voltò a guardarla negli occhi. « E sarei anche disposto a scommettere che gli stessi pensieri hanno attraversato la vostra mente quando lo avete visto coricato ai vostri piedi in quella sporca capanna.»
La Sensei si lasciò sfuggire una risatina. «Oh sì, puoi esserne certo. Avrei voluto spaccargli quella sua testa dura e farne uscire tutte le ossessioni che ci hanno rovinato la vita. Ma, proprio come te, ho capito che ormai non sarebbe servito a niente. Individui del genere portano in sé i semi della propria stessa fine, e lui non è certo l’eccezione.»
«Siamo proprio invecchiati Sensei. Una volta avremmo voluto vederlo mangiare la polvere per quello che ci ha fatto, adesso abbiamo quasi pietà di lui. Eppure, è a lui che dobbiamo tutto: morte, sofferenza, fallimento.»
«E non sono forse le stesse cose che Eisuke Hayami sta raccogliendo? A cosa è servita la sua vita? Le nostre esistenze hanno avuto un senso, se non vitale, almeno positivo. Ma la sua? Solo violenza e dolore.»
“Già, e il senso della mia di vita, qual è stato?” pensò Genzo, mentre continuava a camminare accanto alla donna con cui, suo malgrado, quella vita aveva condiviso.
 
Un giorno Ichiren-sama lo aveva chiamato in disparte e gli aveva detto che aveva un favore da chiedergli. Aveva avuto la sensazione che il cuore potesse esplodergli di felicità in quel momento e aveva dovuto fare uno sforzo enorme per trattenersi dal rispondergli che avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui, qualsiasi cosa. «Ti sto osservando da qualche tempo, Genzo, e ho notato che sei un ragazzo serio e posato, un gran lavoratore che non perde il suo tempo a giocare o bere come fanno i tuoi colleghi.» Il fuoco della rabbia gli aveva illuminato lo sguardo per un momento mentre pronunciava le ultime parole. «Per questo vorrei che tu diventassi l’assistente di Chigusa. Ha bisogno di qualcuno di cui potersi fidare che la segua e la protegga, se necessario.» Non c’era stato bisogno di altre spiegazioni, Genzo aveva capito perfettamente a cosa si riferisse. Diventare il sostegno di Chigusa-san. C’era forse qualcosa di più doloroso che il suo amato Ichiren-sama potesse chiedergli? Aiutare e proteggere colei che invidiava di più al mondo, la sua avversaria, la sua antitesi. Ma soprattutto l’unica persona che riuscisse a far scaturire l’emozione negli occhi di Ichiren-sama quando la guardava vestire i panni della Dea.
Era rimasto fermo e muto, indeciso se stracciare il suo cuore fino alla fine o se cercare ancora una via di salvezza.
«Ti prego» gli aveva allora detto Ichiren-sama, posandogli una mano sul braccio e stringendoglielo leggermente.
E lui aveva capitolato, incapace di resistere. Era sbagliato, lo sapeva benissimo, se ne rendeva conto con ogni fibra del suo corpo, ma i sentimenti che nutriva per lui erano più forti e tenaci di qualsiasi ragionamento. Più forti persino del più semplice istinto di conservazione. “Non permetterò a niente e nessuno di farle del male,” lo aveva giurato nella profondità del suo cuore, nel momento stesso in cui, con il pugno stretto e tremante e la testa abbassata, aveva risposto: «Sì, Ichiren-sama. Non preoccupatevi di nulla, penserò io a lei.»
 
«E del figlio, invece, cosa ne pensate?» le chiese dopo qualche minuto di silenzio.
«Masumi…» rifletté la Sensei, «forse lo odia quanto e anche più di noi.»
“Ed è innamorato…” si fermò, indeciso se dar voce o no ai propri pensieri. Se i diretti interessati non avevano voluto parlarne, poteva forse farlo lui? Sapeva quanto fosse faticoso e frustrante tenere un sentimento chiuso e nascosto dentro di sé ma era, e rimaneva, una scelta personale di cui nessun altro avrebbe dovuto farsi carico. Però, in questo caso, le scelte di alcuni avrebbero deciso il futuro e dato un senso al passato di altri. Ma non era poi sempre così? Le vite delle persone, di tutte le persone, sono legate da milioni di fili invisibili che si intrecciano gli uni con gli altri e una singola azione, magari insignificante, può far sì che vengano stretti o allentati nodi distanti chissà quanto. Si era chiesto spesso, nel corso degli anni, ogni volta che il pensiero andava alla Dea Scarlatta e alle esistenze che essa aveva influenzato, se la vita fosse semplice caos oppure destino. Se esistesse veramente la possibilità di scegliere. Non l’amore, questo lo sapeva, ma il resto? Oppure tutto, in definitiva, girava attorno a quel semplice perno, l’amore?
“Sto diventando un vecchio, sciocco filosofo sentimentale” sorrise tra sé, prima di decidere di non dire nulla e lasciare che le cose prendessero da sole la giusta direzione. Lui aveva tenuto fede alla sua promessa: aveva protetto Chigusa-san, l’aveva sorretta, le aveva anche voluto bene in un certo senso. Era stato amico, fratello, consigliere. Non avrebbe umanamente potuto fare di più.
 
Dopo l’incidente, quando i soldi erano finiti e lei cominciava ad accusare i primi disturbi al cuore, aveva fatto due, a volte tre lavori contemporaneamente per riuscire a mantenere entrambi e a pagarle le cure. A quel punto aveva già completamente rinunciato a una vita sua. Certo, aveva avuto delle storie, aveva anche voluto molto bene a qualcuno dei suoi compagni, ma non si era mai lasciato coinvolgere in qualcosa che andasse oltre al semplice rapporto fisico. Lo avrebbe voluto, a volte. Magari si sarebbe anche reso conto che il sentimento che lo aveva legato, peggio incatenato, a Ichiren-sama altro non era che il primo di tanti amori, fino a trovare quello giusto per lui. Non se lo era mai permesso però. Era rimasto vincolato alla propria promessa, a un senso della parola data che non poteva infrangere. E questo non perché fosse lui a crederci fermamente, ma perché Ichiren-sama lo aveva fatto. Fino a che il maestro era vivo aveva fatto di tutto per non deluderlo, non avrebbe sopportato che lui gli avesse rivolto uno sguardo carico di delusione, o peggio che avesse sofferto per una sua mancanza; e dopo la sua morte, dopo quella morte, era stato intrappolato dai ricordi prima e dall’onore dopo.
Aveva anche pensato di uccidere Hayami con le sue stesse mani. Niente avrebbe potuto dargli più soddisfazione che piantargli un pugnale nel petto e spaccargli il cuore, vedere il suo viso perdere lentamente colore e il sangue fluire dal corpo assieme alla vita. Ma lui non era un assassino, e soprattutto, se avesse fallito che cosa ne sarebbe stato di lei? Sentiva che, nonostante la diffidenza e la gelosia, lei non era diversa da lui. Avevano amato lo stesso uomo, e questo li univa quasi alla stregua di un legame di sangue. A distanza di anni quel legame si era rafforzato nell’affetto e nel rispetto reciproco. Il passato li aveva avvicinati, ma era l’aspettativa per il futuro a tenerli uniti.
 
E adesso che quel futuro era finalmente raggiungibile, sarebbero state l’abitudine e l’attesa della morte. Proprio come per una qualsiasi coppia di coniugi.
«In fondo di cosa potrei lamentarmi? Non è da tutti poter sposare una dea!» disse sottovoce, alzando gli occhi verso il cielo viola del crepuscolo.
 

  
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