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Autore: Nadir de Orpheus    15/10/2011    6 recensioni
Ricordo. E non ha significato dire che la ricordo, ora che lei è distesa accanto a me –una mano posata sull’onda dei capelli sparsi sul cemento. Sparsi sul suo viso sottile, e sparsi come sul mio cuore. Lo sento rallentare. Venisse il sonno. Venisse l’oblio, ora che scende la sera.
Voglio ricordare di lei ancora una volta, mentre le guardo le ciglia.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Io mi ricordo di lei.
Ho questo ricordo di lei che si ferma lungo la strada, piega il collo, ed apre la bocca per catturare la pioggia. Scendeva torrenziale lungo ogni fibra del mondo –lungo ogni fibra di me. Ogni fibra di lei.
Non sorrideva e non piangeva, restava solo lì, solo a raccogliere pioggia sulla lingua. Esile, lei, bianca come la porcellana, sottile come un capello. E quegli occhi quasi troppo grandi per il suo viso, di quel verde che addolciva tutto. Il suo sguardo. In mezzo alla strada, non sentiva i clacson.
Non sentiva niente –nemmeno me, che la chiamavo. Raccoglieva la pioggia.
La raccoglieva e la beveva come fosse l’ultima pioggia della sua vita.
Io mi ricordo di lei. Me la ricordo avvolta nella luce, e chiusa in un’ombra fangosa. La ricordo.
Bella come solo le cose fragili. Bella come solo le condanne e le rovine. Bella.
Ricordo. E non ha significato dire che la ricordo, ora che lei è distesa accanto a me –una mano posata sull’onda dei capelli sparsi sul cemento. Sparsi sul suo viso sottile, e sparsi come sul mio cuore. Lo sento rallentare. Venisse il sonno. Venisse l’oblio, ora che scende la sera.
Voglio ricordare di lei ancora una volta, mentre le guardo le ciglia.
 
 

J.

 
 

I
Memories.

Mi chiamo Jamie.
Di me non c’è molto da sapere –se mi incontraste per strada non vi voltereste a guardarmi. A chi interessa un ragazzo di ventidue anni né alto né basso, con dei ricci bruni che non restano fermi neppure in assenza di vento, e che porta sempre occhiali da sole? Forse questo ha poco senso, perché probabilmente i miei occhi sono la sola cosa degna di nota che abbia, grigio-azzurri come sono. Ma la luce mi è nemica –quando batte contro la retina sembra ucciderla.
Mi vedreste camminare con gli auricolari nelle orecchie, ma non sapreste che non sto ascoltando musica, né altro. Nessun suono, non dalle cuffie. Ed oscuro il rumore del mondo.
Forse avrei addosso la maglietta del college di Jacksonville, che ho frequentato per un anno, o forse avrei la divisa blu dei commessi di Blockbuster. Non importa a nessuno. Mi vedreste e vi voltereste.
Io non me la prendo, non m’interessa –e so come vanno queste cose. Camminereste. Io farei lo stesso, e le nostre strade incrociate sarebbero irrilevanti, un momento perduto nel caos, come tanti altri. Nessuno di voi si farebbe delle domande –io invece sì.
Me le farei –me le facevo, anzi, prima che crollasse il cielo. Ho smesso di farmele.
Mai stato un filosofo, ho preso i miei giorni e li ho vissuti. Avevo una vita normale. Una vita semplice fatta delle piccole banalità che possono renderla piacevole –e i grandi interrogativi, le questioni che Gauguin scioglierebbe in un quadro non mi sono importate mai, o comunque non ancora, allora. Ero al college. Tutto scivolava. Il futuro era domani, il futuro era racchiuso nella sequela di giorni che pensavo di avere –c’era l’idea che hanno tutti appena usciti dal liceo, che il futuro non sia ancora, non davvero, qualcosa che li riguarda da vicino. Il futuro è infinito.
La quantità di respiri, è infinita. E respiravo. Ho continuato a farlo –anche quando non sembrava avere più senso, anche quando mi ha toccato la tragedia. Quella che per me, era la tragedia.
Il mondo era cambiato –il mio mondo aveva assunto nuove forme, suoni sconosciuti. Ero mutato.
Allora imparai il sapore del sangue, e a coprire gli specchi quando la luna s’attondava in cielo –un cerchio pieno. Ed io, a respirarne l’argento blu, in attesa. Anche questo, ricordo.
Ricordo com’era rannicchiarsi nei bagni che nessuno usava aspettando che la notte passasse, con preghiere distorte nel cuore. Guardarsi e non riconoscersi –questo sì, questo sì che ti ammazza.
A volte prendevo la strada. Scricchiolava sotto di me che non avevo scarpe e cercavo di non provare nulla –cercavo l’ebrezza del vuoto, ma c’erano solo schianti. Continui schianti di carne e di ossa, e lacerazioni di stoffa –tutto, mi restava sotto le unghie con cui avevo graffiato la terra.
Mentre invocavo al cielo.
Non avevo la speranza che durasse, quel mio nascondermi. Potevo fuggire e farmi minuscolo nella notte –potevo cancellare le tracce. Ma ero diventato un lupo. Ululavo omelie alla luna piena.
Senza avere in me nessuna libertà, e neanche nessuna logica.
Che sapevo dei lupi? Non potevo imparare niente se non da me stesso.
Ed accadde che quasi uccisi un ragazzo, e lasciai il college –mi rintanai nella periferia, lasciai ogni cosa. E mi presi addosso la notte –ne sfilacciavo ogni sfumatura, la ricamavo sulla mia pelle, con una goccia della sua essenza all’angolo della bocca.
Respiravo ancora, come tutti.
Ma capivo che non avevo mai respirato prima, perché niente era come la luna piena –la scarica di vita che grattava le vene e tendeva i muscoli tanto da piegare le ossa.
La passione. Niente.
Al mattino non restava niente. Eppure ero un lupo.
Un lupo che non trovava nemici ed inghiottiva necessità –qualche volta sceglievo zone malfamate sperando di trovarmi incastrato in criminali da punire. Trovai che sbranare era inumano.
E che mi piaceva –che al lupo in me, quello che non si chiamava Jamie e che aveva un folto pelo rossiccio, a lui piaceva. Gli cercavo un nome, nei pomeriggi silenziosi e nelle mattine arrancanti –perché quello era ancora il tempo in cui lui ed io eravamo divisi, due nuclei in un corpo, due specchi posti di fronte che rimandavano immagini differenti. Ed un diaframma di vuoto, tra di noi.
Che solo la luna colmava –il lento dipanarsi dei suoi raggi, uno sull’altro, come radici.
Non ero più Jamie, e non sapevo cosa fossi. Chi fossi, né perché. Come ci fossi caduto, nella trama fantascientifica della mia vita, in cui non ero né l’eroe né l’antagonista. Ero niente ed ero troppo.
Passavano i mesi e passarono gli anni.
Una notte dopo l’altra.
In silenzi lacunosi.
Credevo di aver imparato cosa fosse la violenza. Credevo di conoscerne l’intimo sapore, di averci fatto sesso, con la violenza –che la violenza mi avesse fecondato come fossi una donna e lei il mio uomo, perché in me c’era altro, c’era del nuovo, c’era quell’altra vita. Il selvaggio della naturalezza con cui ero capace di dimenticare cosa fosse un uomo. Di essere io stesso, un uomo.
Mi tenevo lontano dalla gente, ed inselvatichivo. Lento, facendomi animale –facendomi sensi ed istinto, pronto a lasciarmi scivolare in gola il sangue. Quello era il punto. Il non ritorno.
Nessuno sa quale sia, finchè non l’ha superato e non ce l’ha alle spalle –finchè non sbriciola tutto tra le proprie mani, e non deve pagare delle conseguenze. Non c’erano conseguenze, per me.
Qualche bastonata ogni tanto. Ma lo specchio del lupo si ingrandiva. Ed io non c’ero quasi più.
Più nessun Jamie, più, da nessuna parte –senza sentirne la nostalgia.
Perché la mia vita era diventata febbre, ed era diventata caccia, e non valeva altro. Avevo la luna.
Avevo la solitudine più pura, sublimata nell’istinto e nel parossismo dell’inseguire, sempre, qualcosa –e non sapere che cosa, verso cosa correvo, da cosa fuggivo, scappando così, verso o da quale mondo. Non c’era modo di saperlo, e non erano domande che mi facevo. Io ero.
Esistevo, ed esistevo così. Avevo smesso di scacciare il lupo o rinchiuderlo –mi ci ero abbandonato.
Come ci si abbandona all’acqua, quando ci si addormenta.

 
  
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