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Autore: esmeralda92    19/10/2011    1 recensioni
La fanciulla si sentì afferrare improvvisamente al gomito. Era un braccio scarno, che usciva da un pertugio praticato nel muro, e che la teneva come una mano di ferro.
"Tieni forte!" disse il prete."E' la zingara che è scappata. Vado a cercare le guardie. La vedrai impiccare."
A quelle sanguinanti parole rispose dall'interno del muro una risata gutturale: "Ah! ah! ah!"
La zingara vide il prete allontanarsi di corsa in direzione del ponte di Notre Dame. Da quella stessa parte si udì lo scalpitìo della cavalleria.- passo tratto dal romanzo di Victor Hugo]
Cosa accadrebbe invece se a un tratto l'arcidiacono cambiasse direzione e tornasse indietro per salvare Esmeralda? Accetterebbe il suo aiuto? lo perdonerebbe mai per ciò che ha fatto al "suo amato Febo"? E se si incontrassero dopo anni dai fatti descritti nel libro? Riuscirà l'Amore a vincere l'orgoglio?
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Claude Frollo, La Esmeralda
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Claude Frollo

La notte era fredda e ormai si intravedevano le primi luci dell’alba. Erano di un rosato tenue, confuse con il color oro arancio del Sole che ormai si avviava a sorgere su uno sfondo che andava dall’azzurro celeste al nero profondo della notte. Ormai mancava poco al momento in cui tutti avrebbero saputo che la zingara era fuggita, non si trovava più nella cattedrale, era sparita. Come per magia. Quella stessa magia di cui era stata accusata per aver ferito il capitano Febo di Chateaupers. E quella stessa magia, molto più gentile e forte che aveva portato l’Arcidiacono Claude Frollo lontano dal suo Re e Signore, Dio.
Tornava dal Buco dei Topi, dove aveva lasciato la bella gitana in compagnia della reclusa Gudule, dopo che la prima aveva preferito la forca a lui. Un pezzo di legno che non le avrebbe dato alcuna gioia. Anzi, avrebbe soltanto riso quando quell’esile quanto bello corpo di fanciulla avrebbe danzato per l’ultima volta per lei e per tutta quella plebaglia troppo ignorante per capire che quella dolce fanciulla era una vittima innocente, non dell’uomo, ma della vita e della fatalità con la corda al collo sospesa tra terra e cielo, tra vita e morte, tra Inferno e Paradiso.
A quei pensieri che gli si agitavano fortemente nel petto, tanto da far scuotere ogni angolo più recondito del suo cuore e del suo spirito, Claude Frollo si fermò nel vicolo in cui camminava da un po’ senza meta alcuna e si sedette sui gradini di una casa. Si guardò indietro e si accorse di non aver fatto poi molta strada dalla Place de Grève, dove immaginava che a ogni secondo di più si delineassero i contorni scuri della forca, del patibolo che con tanto ardore la giovane aveva preferito a lui. In un improvviso moto di rabbia, l’Arcidiacono pensò di andare dal Capitano delle guardie, l’amato Febo che da lui era stato ferito senza che mai lo sapesse, e rivelargli dove si trovava la zingara. Si alzò come per far diventare realtà quel pensiero, ma qualcosa lo fermò: l’amore incondizionato e infinito, ne era certo, che sentiva nei confronti della Esmeralda. Quella ragazzina che aveva guardato con disprezzo, insultandolo, chiamandolo “Assassino”, ferendolo più di quanto un uomo potesse essere ferito dalla donna che ama. Non aveva mosso un muscolo quando le aveva confessato ripetutamente l’amore che provava per lei; i suoi occhi erano rimasti aridi quando l’aveva visto piangere per lei; lo aveva guardato con indifferenza, con odio, per aver ferito Febo. Eppure, anche se lei ormai sapeva che il suo amato capitano era vivo, aveva continuato a chiamarlo assassino. Ogni spiegazione che aveva cercato di fornirle, non era valsa a niente. Lei lo odiava e così avrebbe fatto per tutta la vita, breve o lunga che fosse.
Ripensò al suo viso, ai suoi capelli ricci, neri, ai suoi occhi che coprivano le sfumature dal miele all’ambrato al nocciola; a quel corpo sinuoso che lei muoveva con grazia e sensualità ogni volta che danzava. Si era dannato nell’istante in cui aveva visto il corpo di lei. Sentì la propria anima bruciare, il corpo andare a fuoco e tremare di scosse violenti. Bruciava, si consumava ogni giorno, ogni ora, ogni minto, ogni secondo, ogni istante di più per quella fanciulla, e nonostante lei lo odiasse, lui continuava ad amarla, anzi.. sembrava che più lei lo odiasse, più il suo amore per lei aumentasse.
L’avrebbe amata per tutta la vita, si sarebbe dannato per l’eternità, sarebbe bruciato tra le fiamme dell’Inferno per lei. Anche all’istante. Come poteva affermare di amarla, se poi la consegnava alle guardie? Se la faceva condannare dopo averla salvata solo perché lei lo aveva rifiutato. Si era tolto da quel vicolo e stava camminando avvolto nella scura veste da prete diretto al Palazzo di Giustizia, quando quel pensiero gli balenò in mente. Si strinse nel mantello per il freddo, si voltò e si diresse verso la Place de Grève a passi lunghi e veloci. Doveva sbrigarsi se voleva che la ragazzina attraversasse la piazza senza essere vista, cosa che iniziava a diventare molto improbabile con il Sole che si innalzava sempre più e gli abitanti di Parigi che si svegliavano. Claude tornò al Buco dei Topi e chiamò la reclusa.
- Gudule… Gudule!- ripeté più volte a bassa voce.
-Chi siete?- domandò la donna dalla perpetua ombra della sua cella.
-Sono colui che vi ha portato la zingara!- lei si avvicinò.
-Voi mi avete portato non una zingara, ma mia figlia! Siate benedetto, signore.- l’Arcidiacono, che benedetto non si sentiva proprio e che aveva ben altri progetti che far conversazione con la reclusa, non perse tempo, non sapendo inoltre come rispondere a una frase del genere, visiti i pochi rapporti umani che aveva avuto durante la sua vita, se non con uomini colti e sapienti.
-Ho bisogno che mi riconsegnate la fanciulla. Devo portarla dagli zingari prima che sia troppo tardi e che venga vista attraversare la piazza e impiccata.-
-Non privatemi della mia bambina, signore, non ora che l’ho ritrovata dopo quindici lunghi anni..- fece pregandolo.
-È l’unico modo per evitare che venga trovata.-
-Io non me ne vado senza mia madre. E poi.. Non vi voglio. Io appartengo solo a Febo. – disse in tono duro Esmeralda guardandolo a testa alta. Lui cercò di ignorare la fitta di dolore che aveva colpito il suo cuore e che lo aveva fatto sanguinare. Non avrebbe mai potuto averla, mai avrebbe potuto amarla come neanche il capitano poteva pensare si potesse amare una persona, la propria amata.
-Peccato che l’unica persona disposta ad aiutarvi ora sia IO e non il vostro bel capitano.- ribatté con altrettanta durezza, come per sottolineare il concetto.
-Dove ci volete portare?- chiese la donna che non aveva compreso il motivo della durezza nella melodiosa voce della figlia.
-Nel posto in cui vostra figlia è cresciuta. È l’unico posto dove sarete al sicuro. Dopo l’assedio di Notre Dame della notte appena trascorsa, non posso garantirvi sicurezza e protezione all’interno delle mura della cattedrale, giacché il diritto di asilo è stato infranto dai ministri del Re. - parlò così e guardò le due donne, e poi volse lo sguardo verso il cielo. –Sarà bene che prendiate in fretta una decisione. Se restare qui e temere, o seguirmi e ritrovare la Libertà.- disse tenendo lo sguardo fisso su Esmeralda, mentre pronunciava queste ultime parole. Le due donne si guardarono e annuirono.
-Vi seguiremo- affermò alla fine la donna più anziana.
Claude annuì. E aiutò a passare le due donne attraverso il buco neanche un’oretta prima, la madre aveva aperto per far entrare la figlia.
Quando le due donne tornarono alla luce del sole, sorrisero. Poi Esmeralda senza che dicesse niente, iniziò a camminare davanti ai due, guidandoli.
L’arcidiacono la seguì. D’altronde, lui non sapeva dove si trovasse con precisione. La seguì, senza mai distogliere lo sguardo da quella figura che possedeva una grazia e una bellezza incredibile e indicibile, anche se portava ancora i segni della prigionia, nonostante il suo soggiorno a Notre Dame. Allora gli era sembrata un fantasma. Ora aveva ripreso un po’ di forze grazie al cibo e alle attenzioni che lui tramite il gobbo e Quasimodo stesso si erano premurati di darle.
Camminava sicura, con passo veloce e aggraziato sul selciato freddo di Parigi, quasi stesse danzando, e non stesse fuggendo dalle guardie che molto probabilmente non avendola trovata nella cattedrale, quei pagani profanatori della Casa del Signore!, si sarebbero subito messi alla sua ricerca.
Lei questo probabilmente lo ignorava, o forse non se ne dava pensiero per la sua ingenuità. Sta di fatto che quella zingara, correndo, danzando stava guidando se stessa, la madre appena ritrovata, a dire della donna, e l’anima dell’Arcidiacono verso la salvezza.
Sì, anche l’anima di lui, perché, nonostante sapesse che non avrebbe mai potuto possederla o amarla, saperla viva avrebbe fatto nutrire in lui la speranza che un giorno, dimentica sia di ciò che lui aveva fatto al capitano, sia dell’amore provato per quel bel giovane che l’aveva aggirata, illusa solo per il proprio piacere, avrebbe potuto amarlo. Allora tutti i tormenti che fino ad allora avevano scosso il cuore dell’Arcidiacono, sarebbero svaniti per sempre, lasciando posto alla felicità e all’amore per lei.
Pensava a questo quando la bella gitana si fermò. Lui si fermò a sua volta a debita distanza.
-Cosa succede?- chiese egli guardandola.
-Non potete seguirci. Siamo alle porte di Parigi, qui inizia la Corte. Non è consigliato agli stranieri entrare.- disse rimarcando il termine stranieri con una nota di disprezzo nei suoi confronti. –Sempre che voi teniate alla vostra pelle.- aggiunse poi. Lui annuì.
-Sarà meglio per voi non farvi più vedere a Parigi. Almeno il tempo necessario perché tutta questa vicenda. Madonna, conto sul vostro buonsenso.- disse poi rivolto alla madre. La donna annuì. Lui rivolse alla fanciulla un ultimo sguardo e quello che ottenne in cambio fu uno sguardo colmo d’ira nei suoi confronti. Le labbra serrate e il capo chino mentre gli occhi erano fissi nei suoi e lo guardavano con odio. L’uomo di Dio dovette fare una fatica immensa per ricambiare lo sguardo. Non tanto per il timore di ferirla, visto che lei non sembrava assolutamente curarsi dei suoi sentimenti. Piuttosto per il fatto che quegli sguardi colmi d’astio, quel tono duro e colmo di disprezzo che la giovane usava sempre quando gli rivolgeva la parola, lo feriva, vedendosi allontanare sempre più la già flebile speranza che la gitana potesse amarlo.
Distolse lo sguardo dopo pochi istanti e si rivolse alla madre di Esmeralda.
-Che il cielo vi assista, Madonna. Pregherò per le vostre anime.- le disse con cortesia.
-Che il cielo assista anche voi, monsignore. Dio le renderà grazia per averci salvate.- rispose lei sinceramente riconoscente. L’uomo chinò il capo e tornò sui suoi passi, senza mai voltarsi indietro.  Quando arrivò nei pressi della piazza principale, la aggirò ripercorrendo la strada che quella stessa notte, poche ore prima, aveva percorso tenendo per mano la zingara. Quella dolce piccola e morbida mano che aveva accettato senza protestare la sua, che l’aveva stretta per paura di essere lasciata indietro ed essere portata a morire. Quella stessa strada che lui aveva percorso trascinandola senza opposizione da parte di lei fino al patibolo. Lei che l’aveva seguito intravedendo una speranza di vita, o forse semplicemente, troppo terrorizzata dalla morte ventura, troppo spaventata dal futuro, per poter avere da ridire in quel momento.
Quando arrivò alla porta laterale che dava l’accesso a una rampa di scale che dava sulla galleria, entrò. Percorse di fretta le scale e si gettò sul letto non appena arrivò nella sua stanza.

 

                                                                                                               ***

 

Esmeralda rimase ferma in mezzo al viottolo a guardare l’uomo che si allontanava finché non lo vide più. Il suo sguardo era ancora carico d’odio e disprezzo; infatti, anche se l’Arcidiacono aveva distolto lo sguardo, troppo debole, preso dalla sua passione per lei, ebbene, lei non si poteva dire avesse fatto altrettanto. Non aveva distolto lo sguardo da lui un solo istante.
-Tesoro, stai bene?- chiese la voce di sua madre. lei distolse lo sguardo da quel punto fisso e la guardò. E tutti i suoi problemi e le preoccupazioni, soprattutto legate alla salute del suo amato Febo, sparirono. Ora era con sua madre!! Con la sua vera madre! L’aveva ritrovata finalmente.
-Sì, madre, sto bene! Benissimo ora che siete con me!- rispose abbracciandola mentre sentiva finalmente il suo cuore sciogliersi dalle catene della paura della morte, che tanto l’aveva accompagnata in quegli ultimi mesi. –Dai, vieni, ti porto alla corte! Sarai sicuramente la benvenuta!- disse prendendola per mano e mettendosi a correre leggiadra come una farfalla tra le vie anguste che si diramavano al di fuori della città. La donna sembrò aver ritrovato le forze di un tempo, perché la seguì senza arrancare. La gioia di aver ritrovato la sua piccola le aveva una ragione per vivere, e avrebbe fatto di tutto per tenersi stretta la sua bambina. Nessuno l’avrebbe più separata dalla sua Agnès.
Dal canto suo, la giovine, felice, continuava a correre. L’unico pensiero che affollava la sua mente era quello di essere tornata a casa. Di essere nuovamente libera. Era viva e libera. E presto avrebbe rivisto il suo amato Febo. Appena fatto passare il tempo sufficiente per poter tornare a Parigi e non essere catturata, sarebbe tornata in città e si sarebbe gettata tra le braccia del suo amato Febo, del suo Sole. Forse la città si sarebbe dimenticata di lei, ma lui no! La amava. Come avrebbe potuto dimenticarsi della sua amata. L’avrebbe amata e l’avrebbe sposata. Al diavolo la iettatura di quel prete assassino. O che quantomeno aveva cercato di ucciderlo. Non avrebbe mai avuto lei, né tantomeno il suo amore. Lei era solo del suo Febo. E di nessun altro.

Camminò a lungo tra i vicoli felice, talmente tanto da non rendersi conto che le strade erano deserte, e che la solita musica non c’era e che le risate, provenienti dalla taverna centrale, il cuore pulsante della Corte, dove si tenevano le riunioni e venivano prese le decisioni importanti, anche quelle, quella sera mancavano. Se ne accorse quando ormai erano all’inizio del vicolo. Era troppo silenzioso. Si fermò di botto e si guardò intorno. Era tutto deserto.

Presa dal panico strinse forte la mano della madre. che ricambiò ancora più spaventata della figlia. Fino a quel momento lei si era sentita al sicuro in quel posto. Era il luogo in cui Agnes viveva e l’aveva seguita senza alcun timore. Se però adesso anche sua figlia era terrorizzata, lei lo era cento volte di più.
-Perché non sento le loro voci?- domandò la giovane gitana più a se stessa che alla madre, con voce tremante e flebile. Lentamente si diresse camminando verso la taverna. Passò davanti alle finestre che davano sulla strada, ma si rifiutò di guardare per paura di quello che avrebbe potuto vedere, o meglio, non vedere. Mille pensieri, uno peggiore dell’altro, si affollarono nella sua mente. Continuò a stringere la mano della madre, mentre si fermava di fronte alla porta.
La mano esitò un attimo sospesa tra il suo corpo, fragile come un cristallo, e l’anello di ferro della spessa porta di legno borchiata dello stesso materiale del grande anello. Poi si decise: stare fuori dalla porta non aveva senso, e prima o poi avrebbe dovuto sapere cos’era successo agli altri, alla sua famiglia. Afferrò con forza l’anello e tirò. La pesante porta si aprì e un fascio debole di luce illuminò la strada. Lei entrò imitata prontamente dalla madre.
La stanza era vuota. I tavoli ancora da sparecchiare, i boccali di vino erano rovesciati sui tavoli o per terra e le sedie erano state ribaltate. In quel posto regnava il caos più assoluto. Guardò istintivamente verso il camino e vide che la fiamma si stava spegnendo lentamente. Andò subito a prendere altra legna e ve la gettò sopra. In poco tempo la fiamma si ravvivò e tornò nella stanza lo scoppiettio tipico del fuoco.
La madre si avvicinò alla figlia.
-Cosa è successo?- chiese preoccupata.
-Non.. Non lo so.. Di solito resta sempre qualcuno qui. Deve essere successo qualcosa di davvero importante perché si siano allontanati tutti dalla Corte…- fece triste. La madre la abbracciò forte a sé come per tranquillizzarla e infonderle coraggio. La giovane rimase tra le braccia della madre a lungo, finché il sole non fu alto nel cielo. Allora con la madre si alzò da terra e iniziò a mettere a posto quel luogo. Solo quando ebbero finito, ormai era arrivato il mezzodì, sentirono gli effetti della stanchezza. Quelle ultime ore erano state così intense e le emozioni erano tante e tanto forti che l’adrenalina aveva fatto loro dimenticare che erano mesi per la giovane, e anni per la donna che non dormivano in un letto.
-Preparo il pranzo e poi… andiamo a riposarci.- affermò la gitana con voce atona.
-Come… Come desideri.- asserì la madre. anche se quei gitani le avevano portato via la sua bambina, lei era cresciuta con loro. Erano diventati la sua famiglia. Lei era affezionata a loro. E vederla così fragile le fece stringere il cuore. Non era giusto. Aveva sofferto troppo la sua bambina. Non era giusto che soffrisse ancora. E pregò la Maria Vergine che la famiglia della piccola tornasse a casa.

 

                                                                                                           ***

 
Claude Frollo si svegliò che il sole era già alto nel cielo terso. Si preparò e scese nella cattedrale dove di lì a poco si sarebbero raccolti i fedeli per la S. Messa. Percorse l’intera galleria a passo lento. Pensando a cosa avrebbe potuto dire alla folla quella mattina?
Si fermò meravigliato quando notò che la porta che dava sulla stanza dove fino a quella notte la zingara era stata scardinata dalla folla dei gitani che erano venuti a cercarla. O forse erano stati i soldati. Poco importava. Era una barbarie che nessuno poteva permettersi di commettere per poi continuare a professarsi cristiano.
Guardò dentro la stanzetta. Gli sembrò ancora di vederla lì, distesa con la schiena rivolta alla porta, che dormiva di un sonno angelico. A quell’ora era già sveglia e si apprestava a intrattenersi con Quasimodo, l’unico di quel mondo parigino di cui sembrava accettare la compagnia e con il quale avesse instaurato un legame.
Quanto avrebbe voluto che quell’angelo avesse preferito lui al patibolo. Perché non accettava di capire che quel soldataccio da caserma, per quanto potesse essere bello, non la amava e probabilmente la volta in cui l’avesse rincontrata… l’avrebbe arrestata e fatta condannare? Non era un concetto difficile da capire. Eppure era certo che non gli avrebbe dato ragione neanche se l’avesse visto con i propri occhi.
Sospirò e riprese a camminare. Non percorse molti metri che inciampò in qualcosa. Era un cadavere. il corpo di un gitano, vista l’assenza di uniforme, era riverso a terra  con una pozza di sangue che si spargeva intorno alla figura all’altezza del ventre. Era stato passato con la spada di un soldato. Fece il segno della croce, e poi furioso si diresse verso le scale. Con sua grande sorpresa quel corpo non fu il solo che incontrò lungo il tragitto che portava alla cattedrale. A un tratto decise di non contare neanche più, tanti erano i corpi, di soli zingari, che aveva incontrato. E quello fu niente rispetto a ciò che lo aspettò nella cattedrale. L’immensa cattedrale era tutta cosparsa di corpi ovunque.
-Kyrie Eleison per costoro che hanno profanato il tuo tempio e si sono permessi di irrompere armati nella tua casa e infrangere il sesto comandamento sotto ai tuoi occhi. O Dio onnipotente, perdonali perché nella loro presunzione hanno peccato e si sono condannati all’Inferno. E perdona anche me che nella mia miseria e nullità mi permetto di giudicarli; proprio io che pecco ogni istante pensando a quella fanciulla, che antepongo lei a te, mio Signore. Che sono arrivato a ferire un uomo spinto dalla passione e dall’amore per quella fanciulla. Volevo soltanto impedire che quell’uomo le facesse del male. Fisicamente e soprattutto spiritualmente..- poi si fermò. Cosa c’entrava l’amore per lei con il massacro che quegli empi avevano commesso? Niente. –Perdona il tuo pastore che discerne più la realtà dal sogno, ciò che è amore… da ciò che è vana passione. Perdona questo dannato e le anime dei soldati che hanno compiuto questo sacrilegio. Sia fatta la tua volontà.- disse terminando la sua preghiera. Poi tornò su nella galleria e andò a cercare Quasimodo. Lo trovò che era nella cella dove aveva vissuto per quel mese la zingara.
-Dov’è?- chiese il guercio con la voce roca di chi parla raramente.
-Al sicuro. Alla Corte.- rispose lui sospirando.
-Davvero?-
-Sì, Quasimodo. Davvero.- rispose l’arcidiacono di josas. Egli annuì, parendo convinto della risposta.
-Chi.. Ha fatto tutto questo?- disse riferendosi a un corpo morto poco distante dalla cella. L’ennesimo clandestino.
-I soldati del Re.- affermò l’uomo in nero. –E quell’uomo non è il solo. Ne hanno uccisi molti. Anche nella cattedrale. Mi daresti una mano a… portarli via?- chiese poi. Il gobbo annuì, e mentre il sole raggiungeva il suo apice in cielo, la galleria si illuminava rendendo ancora più reale quel massacro. La cattedrale illuminò tramite i colori sgargianti delle vetrate quello scempio donando una luce irreale a quello spettacolo crudo cui il prete dovette assistere.
Quel girono le campane di Notre Dame non suonarono.

 

                                                                                                                         ***

La fanciulla si svegliò che il Sole anche quel giorno era giunto ormai al termine del suo corso. Osservò il luogo in cui si era addormentata. Era vicino al camino della Grande Sala della Corte, ormai vuota. Il fuoco era ancora acceso e nell’aria si sentiva un ottimo profumo di zuppa e di pane fresco. Si alzò a sedere appoggiandosi con le mani per terra. E con una visuale più ampia, notò sua madre dietro al bancone che toglieva il lenzuolo di sopra alle pagnotte appena lievitate e che si avvicinava al camino. Quando la vide sorrise.
-Finalmente ti sei svegliata, tesoro! Alzati così posso cuocere il pane…- lei sorrise e si tolse. Guardando il pentolone dove si sentiva ribollire la zuppa.
-Come… Hai fatto?- chiese stupita.
-Mi sono arrangiata con quello che ho trovato. Era avanzato ancora qualcosa..- asserì la donna.
-Bene! Ho una fame..- esclamò lei felice.
-Sono contenta! Intanto apparecchia la tavola..- disse la madre mentre la figlia prontamente ubbidiva. Non poteva crederci… Finalmente era con sua madre. aveva sognato tanto a lungo quel momento.. Istintivamente guardò verso il trono e sentì le lacrime velargli il viso. Clopin.. Dove sei? Perché non sei qui? Dove siete andati? Perché mi hai lasciato qui, sola? Non mi hai mai abbandonata. Mi giurasti che non sarebbe mai successo… Perché mi hai abbandonata? Pensò la zingarella sull’orlo delle lacrime. Si sentiva così fragile senza nessuno della famiglia accanto.
-Tesoro… Cosa è successo?- chiese Paquette.
-Non… Non ci sono.. Mi hanno abbandonata.- disse lei per poi scoppiare a piangere come una bambina.
-Sono sicura che se la caveranno. Sono persone di mondo, sanno ciò che fanno.- disse la donna.
-Ma mi avevano giurato..- poi il suo cuore balzò fuori dal petto al sentire qualcuno passare per la strada e uno scalpiccio come di zoccoli dietro all’uomo. Arrestò il pianto e si nascose dietro la finestra sulla strada per poter identificare chi fosse.
Il mio Febo è venuto a portarmi via! Ce ne andremo insieme da qualche parte tutti e tre insieme! Sarà contento di conoscere mia madre! lui mi ama tanto!! Pensò la giovine in trepida attesa sentendo i passi dell’uomo avvicinarsi così come lo scalpiccio, figurandosi già di vedere il suo amato in armatura che teneva per le redini il proprio cavallo, sul quale avrebbe viaggiato insieme alla madre verso un luogo dove avrebbero potuto amarsi liberi dal fatto delle loro condizioni sociali.
I suoi sogni furono ben presto infranti quando vide passare il poeta Pierre Gringoire affiancato dall’inseparabile capretta Djali. Delusa ma contenta in fin dei conti di vedere di non essere stata abbandonata, uscì di corsa dalla taverna e cose loro dietro.
-Djali!!- esclamò tutta contenta con la sua melodiosa voce da bambina. La capretta nel riconoscere la voce della padroncina si voltò e le corse incontro saltellando felice. Il nostro beneamato poeta, invece, fece ancora qualche passo continuando a filosofare. Quando si accorse che la sua intelligentissima allieva però non era più al suo fianco, si voltò e sorrise nel vedere quella graziosa fanciulla che era oltretutto sua moglie, secondo i costumi zingareschi, sana e salva e ben lontana dal pericolo. La capretta felice di rivedere la propria padroncina le saltò in braccio belando allegra. Pierre raggiunse entrambe le creature che gli avevano radicalmente cambiato la vita. La ragazza, felice di vedere finalmente una faccia amica, lo abbracciò.
-Finalmente! Che cosa.. è successo? Perché Clopin… Non c’è?- chiese poi spaventata. –Dove sono tutti gli altri?- Aggiunse. Gringoire la guardò. Quegli occhi ancora da bambina terrorizzati dal vuoto che li circondava, lo guardavano con la speranza che i suoi più grandi timori fossero smentiti. Povera piccola graziosa rondine, cosa puoi saperne tu dei dolori della vita? Questo non è che l’inizio di tante e future disgrazie che incontrerai. Tu, che ballavi spensierata e leggiadra come una farfalla e allietavi il buon popolo di Parigi, tu, o dolce zingarella, che ne sai delle sofferenze che toccano noi umani? Mi dispiace che tocchi proprio a me il ruolo di latore delle tue disgrazie, piccola. Non avrei mai voluto che le cose andassero così.
-Entriamo in casa, non mi piace rimanere in strada a parlare.- disse lui per poi cingere affettuosamente le spalle di Esmeralda con un braccio. Ed entrare in casa. Quando vide la madre, Paquette, guardò la giovane sorpreso. –Chi è costei?- chiese l’uomo.
-Mia madre, Paquette la Chantefleurie.- disse sorridendo orgogliosa la figlia. E brevemente raccontò al poeta cosa era successo da quando loro due, quella notte, si erano divisi.
-Sono molto contento per voi, signore mie.- fece lui davvero contento. Almeno aveva qualcuno al fianco che sarebbe stato forte per lei.
-Ma ora dimmi, poeta, che cosa è successo a Clopin! Ti supplico!- esclamò tra le lacrime come una bambina. E fu allora il turno del poeta di narrare i fatti.
-Perché? Perché mi avete portata via da lui?! Cosa volevate da me?- fece piangendo.
-Nulla, solo salvarti. Se fossi rimasta non l’avresti visto comunque Clopin. È morto prima di mettere piede nella Cattedrale di Nostra Signora.- fece triste. –Comunque… Qualcuno si è salvato e starà sicuramente vagando da queste parti. Ne sono sicuro.- rispose lui.
Ma la giovine rondine ormai non dava più ascolto a nessuno, si era chiusa nel suo piccolo quanto stravolto mondo interiore e rimase tutta la sera muta come la più bella statua di Venere.
Cenò e poi  salutando con un lieve e flebile mormorio, andò a coricarsi in un angolo.

 

                                                                                                             ***

Aveva impiegato tutto il giorno a sgomberare la chiesa e a pulirla dal sangue versato da quei….. Non sapeva neanche come definirli! Sentiva montargli una rabbia dentro di sé ogni volta che pensava all’orrore che era stato consumato tra quelle sacre mura. E Quasimodo, per tutto il giorno gli era stato vicino e lo aveva aiutato. L’unica persona pura e innocente oltre la sua bella rondine! Era lui, semplice e ingenuo, che faceva tutto ciò che lui gli chiedeva di fare. Povero Quasimodo! Sospirò. Poi un passo cadenzato e metallico lo distolse dai suoi pensieri. Si voltò verso l’entrata. E vide il capitano Febo di Chateaupers. Sentì la rabbia montargli addosso. Lui! Che aveva rubato il cuore della sua piccina! Che l’aveva fatta innamorare perdutamente del suo bell’aspetto e della sua magnifica armatura! Lui che l’aveva illusa e abbandonata! E che aveva osato profanare la casa del Signore!
-VOI!! Come osate recarvi ancora in Chiesa armato e con aria tanto spavalda, dopo aver profanato questa stessa Dimora di Dio! Uscite immediatamente! Che sia di monito una volta per tutte.-fece duro in volto trattenendo a stento la propria ira.
-Non mi fate paura, prete.- disse canzonatorio.
-Arcidiacono.- puntualizzò per poi sospirare. –Voi potete mentire a voi stesso, a quei servi che stanno con voi. Ma sappiate, capitano- disse marcando il titolo con disprezzo- che scappare però non potrete giammai perché qua, vi sta guardando Notre Dame. Sarà ella stessa a giudicarvi. E Dio nell’altro mondo. Rimetto a Dio ciò che non è di mia competenza, sta a voi scegliere se seguire una volta per tutte sulla retta via e salvare la vostra anima, o bruciare per l’eternità tra le fiamme dell’Inferno.- disse mentre lo sguardo diventava glaciale e il tono calmo, tanto che avrebbe disarmato il diavolo in persona. E poi si voltò per poi tornare verso l’altare, donde era venuto. Quando si voltò poco tempo dopo, il valoroso capitano degli arcieri di Re Luigi XI era sparito. –La tua spavalderia serbala per gli  idioti del tuo seguito, non usatela con me. - mormorò più a se stesso che non davvero al Capitano con un piccolo sorriso trionfante sulle labbra.
La sera mangiò e si coricò nel letto troppo stanco per sperimentare ancora filtri nel suo piccolo laboratorio di alchimia. Se solo mi avessi visto quest’oggi in Chiesa, ti saresti accorta di quanto il tuo “amato Febo” sia solo un involucro contenente pura e semplice boria e nulla più. Poi si riscosse. È inutile prendersi in giro, Claude, ti avrebbe odiato solo di più. E con questi pensieri in testa rimase sveglio tutta la notte a rigirarsi nel letto.

 

  
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