Elegia privata
They saw me knocking at your front door,
And they saw me smile when you let me in.
(Love at First Feel, ACDC)
Ci vuole coraggio anche per una piccola cosa, così semplice e banale come
vergare sulla pergamena le ultime righe del tuo necrologio, Albus.
Sono patetico. Non faccio altro che piagnucolare e anche questo ultimo omaggio
non riesce ad essere un lavoro razionale degno della tua mente, amico mio.
Dicevi che non dovevo vergognarmi di essere emotivo, ma la verità è che eri
l’unico che non mi giudicasse per le mie lacrime facili e per il mio balbettare
nervoso, quando sono agitato. Era ridicolo quando eravamo ragazzi ed è patetico
adesso e tu sei semplicemente sempre stato troppo buono per rinfacciarmelo.
La mia magra consolazione è che dalla mia penna non si vedrà quanto mi costa
scrivere queste poche, ultime parole.
È morto come è vissuto: lavorando sempre per il bene superiore e, fino all’ultima ora, altrettanto pronto a tendere la mano a un bambino con il vaiolo di drago quanto lo fu il giorno che lo conobbi.
Quando finalmente poso la penna non sento il sollievo di un lavoro finito, la
soddisfazione del testo completo. Solo l’emicrania dovuta alle lacrime ed un
gran senso di vuoto all’idea di aver concluso questo mio ultimo regalo, e di
averlo fatto, nonostante le mie buone intenzioni, in un modo così sciocco e
incompleto.
In queste righe non c’è niente di quella storia che l’abominevole Rita (parole
tue, ricordi?) ha cercato di estorcermi, e c’è così poco di te che è quasi una
vergogna ricordarti in una maniera così misera.
Ma come potevo parlare davvero di quello che ricordo senza mettere in piazza un
secolo di sentimenti intimi e privati? Fin dal primo momento la nostra amicizia
è stata segnata da quello che ho sempre provato per te; tu, dal canto tuo, l’hai
sempre saputo grazie a quel tuo modo di scoprire le cose più segrete. Quello che
chiamavi “intuizione” e che io chiamavo invece “genialità” o “barare
spudoratamente”, a seconda di quanto mi desse fastidio essere letto come una
pergamena srotolata.
Quanto abbiamo sempre riso insieme, Albus… quanti momenti di te non ho ricordato
nella tua elegia, di quante cose non ho potuto parlare… Non potevo confessare a
tutti la nostra storia, i tetti su cui mi inseguivi e le coperte del tuo letto,
i tuoi momenti di sconforto e il tuo sorriso quando confessavo di amarti e tu
eri troppo onesto per dire lo stesso a me. Ti volevo bene; questo si capirà
anche dal necrologio, e tutto quello che ho omesso continuerà a farmi compagnia
per il resto di questa notte, insieme alla tua presenza.
Quando ho scritto di come ci siamo conosciuti ho taciuto la parte migliore di
quella storia.
Ti sei avvicinato a me lentamente, come se avessi paura di spaventarmi. Sapevo
chi eri dalle chiacchiere dei ragazzi alla stazione, ma in quel momento non mi
importava: ero troppo occupato ad autocommiserarmi e ad asciugarmi il viso
chiazzato per prestare attenzione all’unica persona che mi avesse seguito.
«Credo che avranno problemi a far partire il treno, con te sul tetto» mi hai
detto, sedendoti vicino a me come se fosse la cosa più naturale del mondo. «In
effetti, il responsabile della stazione si sta chiedendo come tu abbia fatto a
salirci senza che nessuno se ne accorgesse».
Ho tirato su col naso, senza guardarti. «Non l’ho fatto apposta» ti ho risposto.
«Finisco sempre sul tetto, quando sono arrabbiato».
«Magia spontanea?» mi hai chiesto. Ero scorbutico e inquieto, e ti ho ignorato,
credo per l’unica volta in tutta la mia vita. «Io do fuoco alle cose» hai detto,
ridacchiando. «Non spesso. Ma quando ho bruciato la scopa di mio padre perché
non mi ci lasciava volare ho passato un bel guaio».
Ricordo di aver riso, senza neanche pensare a tuo padre e alle chiacchiere che
si erano diffuse per tutto il binario al tuo arrivo.
«Albus Dumbledore» ti sei presentato subito dopo quella prima risata, tendendomi
la mano.
Nessuno porgeva la mano ad un ragazzino con le cicatrici del vaiolo di drago sul
viso. Neanche dopo il periodo di contagio: era semplicemente un rischio che non
si correva ai nostri tempi, quando ancora quella malattia era mortale in un caso
su dieci. Ho preso le tue dita e posso dire con assoluta certezza ancora oggi,
dopo cent’anni, che in quel momento ho sentito qualcosa di indescrivibile e
totalmente coinvolgente, mentre mi presentavo, al punto che sono riuscito a
incepparmi balbettando persino sul mio nome.
Ma tu hai solo sorriso. Hai sempre e solo sorriso, Albus, quando mi comportavo
da sciocco e mi sentivo inadeguato. Non mi hai mai fatto pesare nulla, e ancora
oggi credo di non averti mai detto quanto io ti sia stato grato, quanto ancora
adesso io ti sia grato, di questo.
«Che dici,» mi hai detto quel giorno, dopo che ci siamo presentati, «scendiamo
di qui e andiamo ad Hogwarts?»
«Nessuno vuole dividere lo scompartimento con me» ho piagnucolato, ancora
arrabbiato per non aver trovato un solo posto dove sedermi, salendo sul treno.
«Che coincidenza» hai detto. «Nessuno vuole neanche me, nello scompartimento.
Credo che dovremmo trovarne uno tutto per noi; ce n’è uno vuoto proprio in cima
al treno, se te la senti di affrontare un Molliccio prima di metterci comodi».
Ricordo ancora di aver sgranato gli occhi a quel primo assaggio del tuo modo di
fare.
«Tu sai affrontare un Molliccio, Albus?»
Hai annuito. «Per coincidenza casa mia ne è sempre infestata. Mia madre non ne
poteva più di mostri senza testa e lupi assetati di sangue che scorrazzavano per
il salotto, così mi ha insegnato come liberarmene».
Ero ammirato. E lo sono sempre stato, da quel giorno fino a quando ho saputo che
te n’eri andato, vittima del tuo stesso coraggio e della tua stessa grandezza.
Credo di non esagerare nel dire che già in quel primo momento ho cominciato ad
innamorarmi di te.
Nemmeno il vino stanotte ha sapore, Albus.
Questo bicchiere tra le mie dita non servirà a nulla, né a riposare meglio, né a
ricordarti. È solo qualcosa da fare per occupare le mani mentre ricordo.
Gli anni della scuola sono stati i più belli. Sono stati quelli in cui ti ho
scoperto, ho imparato tanto di te, al punto che quando sono finiti già sapevo
che la mia vita aveva trovato un sole attorno al quale potevo orbitare, lieto e
felice, fino all’ultimo dei miei giorni.
È stato il periodo di gioia prima della svolta di quell’estate che ha cambiato
la tua vita così tanto da toglierti per anni il sorriso. Non prendertela se lo
ricordo come il più bello, Albus.
Io so qualcosa di quanto è successo quell’estate, soprattutto dalle parole di
tuo fratello dopo il funerale di Ariana; so anche che hai avuto qualcosa di così
bello ed importante, mentre io giravo l’Europa, che perderlo così come l’hai
perso ti ha distrutto e cambiato oltre ogni dire. Ti ho conosciuto ed amato dopo
quei fatti.
Ma prima…
Eri l’amico migliore che si potesse avere, quando eravamo a scuola.
Se ripenso a quante volte hai studiato con me tutta la notte, perdendo il sonno
per farmi compagnia mentre lottavo con la Trasfigurazione o andavo in panico per
un’esercitazione di Pozioni, ancora oggi mi sento colmo di gratitudine e mi
chiedo da dove ti venisse tanta pazienza e generosità verso la mia ignoranza. Te
ne stavi lì a mangiare Gelatine mentre io cercavo di renderti fiero facendocela
da solo, e mai una volta mi hai rinfacciato che alle fine, per quanto ti
invitassi spesso a lasciarmi perdere ed andare a dormire, ero quasi sempre
costretto a chiedere il tuo aiuto. Mi guardavi e sorridevi.
Mi perdevo nel tuo sguardo, in quei momenti, come facevo quando ridevi di una
sciocchezza o quando ci esercitavamo e ti accigliavi, concentrato, prima di
riuscire immancabilmente a produrre un incantesimo perfetto al primo colpo.
Ero innamorato perdutamente della sensazione di averti vicino. E tu lo sapevi.
Credo tu l’abbia saputo dal primo momento in cui l’ho capito io; o forse da
prima, da quel giorno sul treno. Perché non te l’ho mai chiesto? Di cosa potevo
vergognarmi, stupido ragazzo e ancor più stupido vecchio, quando mi hai sempre
conosciuto così bene?
Ma non è tempo di recriminare. È quello invece di ricordarti, Albus.
Di pensare alla prima volta che ti ho baciato.
Mi avevi di nuovo seguito sul tetto, questa volta su quello della Guferia. Erano
giorni che ti evitavo, perché stavo meditando se lanciarmi o meno in quella
follia che pensavo non avresti mai approvato, e credevo sinceramente che tu
l’avessi capito. A dire il vero, lo credo ancora oggi.
Ti ho baciato ed è stato come essere colpito da uno Schiantesimo; una sensazione
che, con te come abituale compagno di esercitazione e duelli sportivi, conoscevo
davvero bene. Nessuno degli scenari che mi ero figurato (tu che ti ritraevi,
disgustato; tu che mi lanciavi una fattura; tu che mi scagliavi giù dal tetto)
si è avverato, dopo quel bacio.
Tu sei arrossito e abbiamo semplicemente parlato, per ore ed ore, congelandoci
per il vento della sera, ma troppo impegnati a chiarire tutto quello che
sentivamo per curarci dei raffreddori che ci stavamo procurando. L’incoscienza
della gioventù. Non ricordo precisamente le nostre parole, ma mi è sempre
rimasta in mente la delicatezza con cui hai trattato i miei sentimenti: non ti
sei preso gioco di me, non hai sminuito la nostra amicizia e non mi hai mentito,
non mi hai illuso neanche per risparmiarmi un dolore, e sei stato così
convincente e chiaro che non abbiamo mai più avuto bisogno di ripetere quel
discorso, in cent’anni di avventure, dolori, guerra e amicizia, e del mio amore
che è ancora quello di quel giorno.
Ero innamorato delle tue mani, dopo. Fin dalla prima volta che mi hai toccato la
schiena e per tutta la nostra gioventù, non potevo guardarle senza che la mia
mente le trasformasse nel simbolo delle notti in cui sgattaiolavo fuori dal mio
letto per infilarmi nel tuo, quando tutti dormivano.
Ci abbiamo messo un po’, allora, a renderci conto che ci parlavano alle spalle.
Per un periodo siamo stati probabilmente la chiacchiera più diffusa della
scuola, come spesso capita alle nuove coppie. Con la differenza che quel che si
sussurrava di noi era crudele, il più delle volte: tanti dicevano che eravamo
qualcosa di disgustoso, di immorale e, mentre tu ti lasciavi scivolare addosso
queste cose, io temevo il giorno in cui ti avrebbero portato lontano da me. Come
se fossi mai stato il tipo che si faceva fermare dalle chiacchiere, tu. Ma ero
un ragazzino e lasciavo parlare le mie insicurezze.
Sono certo di ricordare una conversazione del genere, con te, proprio il giorno
in cui mi hai proposto di partire insieme per l’Europa, finita la scuola.
«Tu ed io?» ti ho chiesto. «Dici davvero?»
Quanto ero stupido. Dicevi sempre davvero; non mi hai mai preso in giro, anche
se ne avresti avuti i motivi, tante volte, piccolo e sciocco com’ero al tuo
confronto.
«Certo» mi hai risposto. Eri così bello, nascosto dalle lenzuola e appoggiato su
un gomito, e mi guardavi. Guardavi il mio viso per vedere quando avrei capito
che dicevi sul serio e per ricambiare il mio sorriso prima ancora che lo
facessi, probabilmente.
E ti ho sorriso, in quel momento. So di averlo fatto, come sempre quando
dimostravi di conoscere le mie paure così a fondo da cancellarle prima ancora
che io ti confessassi di averle. Che parlassero, ho pensato in quel momento. Che
parlassero tutti di noi sodomiti quanto volevano, con tutta la loro malignità:
noi saremmo andati in Europa e tu mi sorridevi.
Adesso ricordo quei momenti. Ricordo quanto ero felice.
Ho ancora una cartolina del mio viaggio solitario in Europa sulla scrivania.
È indirizzata a te, come tutte quelle che ho spedito durante quel viaggio;
ritrae la Porta di Brandeburgo: ero a Berlino quando mi è arrivata la tua
lettera che annunciava la morte di Ariana e sono rientrato ben prima di
inviartela.
Ho bussato alla tua porta la mattina presto, e mi hai aperto tu. Avevi gli occhi
rossi per il pianto, eri in disordine come non ti avevo mai visto, nemmeno la
mattina appena sveglio. Sembravi invecchiato di anni nei pochi mesi in cui ero
stato lontano da te.
Non sono mai stato un bravo lettore di persone; ma qualcosa da te avevo
imparato, negli anni, perché il senso di colpa lo vedevo bene sul tuo viso, e
sapevo che era fuori luogo, qualsiasi cosa tu potessi pensare di aver fatto o
mancato di fare. Ti ho abbracciato e credo sia stata l’unica volta in cui ti ho
incontrato e la mia prima reazione non è stata quella di sorriderti.
Sei stato tutta la mia vita, Albus.
Sembra così banale da dire. Sono passati tanti anni da quei giorni, tanti
momenti in cui ho desiderato averti vicino e tu c’eri, per me. Tanti momenti,
dopo quell’estate, in cui tu ti sei rivolto a me e sono stato fiero di poter
essere il tuo amico, il tuo amante, la tua consolazione. Tante risate, anche.
Ogni volta che ti ho cercato, che ho bussato alla tua porta, mi hai aperto e mi
hai accolto con calore; ogni volta che ti ho visto venirmi incontro ho sorriso.
Sono stanco. Ho scritto fino a tardi per non renderti comunque giustizia con
le mie parole. Sono un vecchio uomo che si affatica facilmente e tu non sei qui
a tenermi compagnia. Perdonami se presto andrò a riposare e dovremo interrompere
questa conversazione.
Vale la pena di ricordare un ultimo momento. L’ultima volta che ti ho visto da
questa parte della morte.
Mi avevi preparato.
Non ho mai saputo molto dei tuoi piani, della guerra di cui ero felice di essere
solo un soldato, lasciando alle tue mani ben più capaci le redini di questo
carnaio in cui ci siamo ritrovati. Ti avrei sollevato volentieri dal peso di
qualcuno dei tuoi segreti, ma non me lo hai chiesto e ho sempre voluto
rispettare la tua riservatezza. Ma quando hai capito che la tua ora era vicina
mi hai scritto una lettera che conserverò sempre, che sarà sepolta con me quando
morirò.
Mi hai detto addio a modo tuo, con garbo e buon umore, senza preoccuparti di
altro che non fosse la mia serenità. Come la tua consapevolezza che mancava poco
alla fine di questa tua grandissima vita si leghi al racconto della tua morte io
non pretendo di saperlo; quanto avessi ragione l’ho scoperto, mio malgrado.
Mi hai scritto per dirmi addio, ma io dovevo farlo a modo mio, e mi hai
accontentato ancora una volta.
Sei venuto, come diceva il mio biglietto, alla Testa di Porco, una sera di
qualche mese fa. Il tuo passo sulle tegole del tetto era più esitante di come lo
ricordavo; ma quante volte mi sono rifugiato vicino al cielo a pensare e tu sei
venuto a cercarmi? Avrei potuto dire ad occhi chiusi che eri tu a venirmi
incontro, e dal tuo odore non avrei avuto dubbi su chi si era seduto di fianco a
me a guardare il cielo.
«Sai, Elphias,» hai detto, circondandoti le ginocchia con le braccia magre,
simile in maniera impressionante al ragazzo di sedici anni sul tetto della
scuola e all’uomo di sessantaquattro che cercava conforto sopra la casa del suo
più vecchio amico, «sembra che tutte le nostre conversazioni migliori siano
avvenute sui tetti».
Ho scosso la testa. «È colpa mia» ho ammesso. «Mia madre diceva che mi rifugiavo
sul tetto anche a tre anni, quando mi rimproverava».
«Non stento a crederlo» hai risposto, ridacchiando. «Col tempo è diventata
un’abitudine. Devo ammettere che la trovo molto adatta a te».
«Perché?» ti ho chiesto, prendendo tempo come uno sciocco.
«Sembri sempre sul punto di tentare di volare via» mi hai risposto. «Come se
volessi dimostrare di essere più di quello che sei, senza mai renderti conto di
quanto grande tu sia, così come sei».
È come ho scritto nella tua elegia, Albus. Sei sempre stato disposto a vedere
nelle persone così tanto di buono e grande da spingerle ad andare sempre oltre.
«Ti sono infinitamente grato per la tua amicizia, Elphias» hai detto.
«Dovrei dirlo io a te» ti ho risposto, sinceramente. Hai riso, scuotendo la
testa, come se fossi incorreggibile. «Se volevo volare, era solo per starti
dietro, Albus».
Sei rimasto zitto, per un poco. Ti ho preso la mano destra, annerita e distrutta
come mi avevi accennato nella lettera. Era fredda, ma non so se fosse per l’aria
o per la promessa di morte che si portava dietro. Ti sei avvicinato un po’ a me,
posando la testa sulla mia spalla come facevi quando eravamo ragazzi. Ti ho
baciato i capelli, come allora. Siamo rimasti in silenzio, sul tetto, due vecchi
uomini, uno troppo grande, l’altro troppo piccolo.
La nostra conversazione è finita così.
Le parole successive che ti ho rivolto sono tutte in questo monologo di stasera,
posata la piuma dopo aver lottato con l’angoscia della tua scomparsa per mettere
insieme un necrologio che non ti renderà giustizia, ma che rinchiude tutto
quello che sento, nascondendolo tra le righe della parte più banale della nostra
storia.
Perdonami, Albus, per non essere stato alla tua altezza ancora una volta.
Ma se davvero, come dicevi, la morte è l’inizio di una nuova avventura, sappi
che mi troverai di nuovo sul tuo tetto, un giorno non lontano. O forse, spariti
i limiti della mia forma mortale, finalmente busserò alla tua porta. E se vorrai
aprirla per me, Albus, credo che tutti potranno vedere quel mio sorriso che per
oltre cent’anni ha segnato il mio viso ogni volta che mi hai fatto entrare nella
tua vita.
Buonanotte, Albus.
Porterò con me il tuo ricordo prezioso, ovunque io vada.
Il tuo amico, per sempre,
Elphias Doge.
Note Noiose:
La prima cosa è che devo assolutamente ringraziare Chu per la betatura
velocissima e precisissima della fic. Giuro, ha fatto in meno di mezz'ora!
Poi...
La
citazione in corsivo in mezzo al testo viene direttamente da Harry Potter e i
Doni della Morte.
Questa fic ha partecipato all'ACDC
Contest, indetto da s0emme0s sul Forum di EFP, classificandosi prima e
vincendo questo splendido banner
e questo meraviglioso bannerino
extra.
Il pacchetto prevedeva di usare come traccia generale la canzone "Love
at first feel" come traccia generale, e in aggiunta ho scelto il
prompt "tetto" per questa fic.
Questo è il giudizio di Emme, che mi ha commosso...
Prima classificata: Miki, con "Elegia
privata"
Proprietà Linguistica e Stile: 10 punti
Non ho niente da dire, come sempre praticamente. Se c’erano errori grammaticali
o di distrazione Chu ha fatto un ottimo betaggio!
Lo stile, eh, seriamente, visto che questa è una cosa ufficiale ne parlerò in
modo approfondito, come mai ho fatto con te.
Prima di tutto lo ritengo molto pulito, nel senso che non esageri con le
metafore o con inutili abbellimenti. Quando ci sono solo delicati e giusti.
Inoltre sai inserire tra le righe, con parole semplicissime, quasi banali, dei
concetti talmente elevati che sollevano con loro anche le parole più umili. Un
po’ come Albus fa con Elphias.
Sei perfetta, Miki. In ogni tua produzione non riesco, nemmeno sforzandomi, a
trovare qualcosa, qualsiasi cosa da correggere o da segnalare.
Caratterizzazione dei personaggi: 10 punti
Devo dire che ho trovato sia Elphias, sia Albus particolarmente IC, o almeno,
Albus lo è stato.
Di Elphias sappiamo poco, purtroppo, e per quello che sappiamo direi che sei
stata molto brava.
Infatti ho trovato particolarmente azzeccato il suo crogiolarsi
nell’autocommiserazione, e al contempo il suo disprezzarla, nel senso che sì, si
piange addosso, ma è consapevole di farlo ed è una caratteristica che non
vorrebbe - ovviamente - avere.
Albus visto dagli occhi di Elphias è filtrato dall’affetto, dall’amore,
dall’amicizia, dalla devozione, ma è sempre Albus. E sei riuscita a evidenziare
un lato di lui che quasi mai viene considerato: quello dell’amico
disinteressato.
Utilizzo della canzone: 10 punti
Devo ammettere che l’utilizzo della canzone non era semplice, e a dire la verità
credo che tu abbia fatto bene a lasciar perdere la prima strofa, perché c’entra
davvero poco con la coppia messa in gioco.
Ma hai usato perfettamente la parte centrale, con gli accenni ad una
disapprovazione della società che Elphias non potrebbe sopportare da solo, ma
con Albus, (un Albus che apre la porta e sorride), può farcela. Ho
particolarmente apprezzato la metafora (perché è una metafora vero?) della
porta: ovvero Elphias si rivolge ad Albus e lui è sempre disponibile per lui,
con il sorriso sulle labbra, lieto senza alcun secondo fine di stare con lui.
Un ottimo lavoro davvero.
Originalità: 10 punti
Sei consapevole che non posso toglierti nemmeno un punto?
Io avrei paura, ma comunque.
L’originalità è la base di questa fic, dato che nessuno al mondo - tranne tu ed
io - scrive su Elphias, e io non avrei mai potuto tirare fuori una cosa del
genere, quindi direi che se esistesse un premio originalità lo avresti vinto.
(E, no, non esiste).
Ho particolarmente apprezzato il legame tra il vero epitaffio, e quello privato,
il primo una menzogna, come una menzogna è stata praticamente tutta la vita
pubblica di Albus, e il secondo la verità, mescolata con un emotività e un
patetismo (in senso buono) che solo un’amicizia di questo tipo, condita da
ammirazione, stima, amore e rispetto (da entrambi, ovviamente) poteva generare.
Trama e svolgimento: 10 puntiPrima di tutto, complimenti per l’utilizzo
del Prompt. Per quanto il Tetto fosse un elemento un po’ anomalo su cui basare
una storia, sei riuscita a renderlo plausibile e a porlo come fondamenta di
tutta la fic in modo naturale. Al solito è Albus a far notare l’ovvio, ovvero
che proprio sui tetti si sono svolte le loro conversazioni più importanti, ma,
credo, che per una volta non era necessario che lo dicesse: credo che Elphias
sia perfettamente consapevole di questo fatto e che ricordando tutti quei
momenti più importanti trascorsi con l’amico gli venga naturale prendere in
considerazione quelli svolti nei luoghi a lui più familiari e amati e in cui si
sentiva al sicuro. I tetti. Decisamente adorabile.
L’idea di base è di per sé splendida, un’ elegia privata è qualcosa che ad Albus
sarebbe piaciuta davvero tanto, credo che lo avrebbe trovato molto azzeccato e
forse abbastanza ironico, visto che la sua morte è avvenuta per propria
decisione.
Gradimento personale: 10 punti
Il fatto è che ti amo. Sposiamoci.
Aehm... ok, fingiamo di essere seri per un momento, e per fare ciò devo
analizzare la cosa in maniera concreta e razionale, altrimenti scriverei solo
AWWWWWW e non sarebbe interessante.
La parte che mi è piaciuta di più è in assoluto il momento in cui Elphias chiede
ad Albus se è davvero deciso a partire per l’Europa con lui. E’ incredibile come
sia uno scemo assoluto nel credere che Albus sia minimamente interessato alle
dicerie e alle malelingue che parlano di loro.
E quel sorriso, quel sorriso che da senso a tutta la vita di Elphias è qualcosa
di delicato, dolce e giusto.
Credo che in generale di questa fanfiction mi sia piaciuta la visione
assolutamente di parte di Elphias, lui non vede la vena malvagia che è in Albus
(perché c’è, intendiamoci), così come Albus non mostra di vedere le carenze
dell’amico. Si accettano entrambi, difetti e pregi, con assoluto amore.
Ho amato tanto anche la parte in cui Albus gli spiega come non possa ricambiare
i suoi sentimenti in modo completo... molto toccante il modo in cui Elphias lo
ricorda a se stesso, in questa muta conversazione.
[E possiamo dire addio alla razionalità]Ho trovato molto significativo il fatto
che Albus non gli abbia mai raccontato del tutto di Gellert e di quello che ha
passato con lui e per lui. Le cose dette e non dette aleggiano tra entrambi, ma
non sono motivo di litigio o separazione, semmai avvicinano ancora di più i due
amici, rendendoli partecipi di un dolore privato, intimo e segreto.
Sei stata un portento, come sempre, e sono assolutamente certa di essermi
dimenticata qualcosa da dire. Spero che esca fuori prima della fine.
Totale: 61/60 punti (MA SI PUO’?! NON TI VERGOGNI?!)