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Autore: fiorediloto87    28/06/2006    9 recensioni
Un romanzo medievaleggiante in cui ho investito moltissime delle mie energie e del mio tempo, e a cui tengo particolarmente. La vita di Raphael, studente nel monastero di Serven, e di Gregory, novizio dal passato oscuro e tormentato, sarà radicalmente sconvolta dalla scoperta dell'amore reciproco e dall'infinita serie di avventure che ne seguirà...
NOTE: Il contesto del romanzo è medievaleggiante, ma non medievale: i luoghi sono luoghi inventati, e così popoli, lingue, usi e costumi. Unico tratto reale è la religione cristiana. Al popolo gitano ho rubato soltanto il nome e la tradizione della vita nomade.
Genere: Avventura, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Gregory
Side Story: "La canzoncina gitana"


 


Ý
– I?
– No… più lungo: ý
Ý…?
– Sì, e poi… an ljepša
Ljepša?
– Sì, bravo, e infine… ge
– Ge?
– Perfetto. Ý an ljepša ge.
Ý an… ljepša… ge. – Raphael sorrise. – Adesso mi dici cosa significa?
– “Io ti amo”.
Per difendersi dal freddo, e non solo per quello, stavano stretti nel piccolo giaciglio come se dovessero fare spazio ad una o due altre persone. L’aria tutt’intorno era talmente gelida che presto, pur trovandosi al chiuso, i loro respiri avrebbero dato vita a piccole nuvolette di vapore. Era stato in quell’abbraccio caldo che Raphael gli aveva sussurrato: – Insegnami qualcosa di gitano.
E cosa insegnargli prima del più dolce “io ti amo”? Adesso avevano un’altra lingua per dirselo.
– È una pronuncia impossibile – sorrise il ragazzo. – Non voglio neanche immaginare come si scriva…
– Non si scrive – rispose Gregory, semplicemente.
Il ragazzo sollevò gli occhi, vagamente sorpreso, le labbra distese in un breve sorriso. – Insegnami qualcos’altro. Qualcosa di… particolare.
– Particolare? – sussurrò il giovane, maliziosamente.
– In qualsiasi senso tu lo intenda.
Gregory, no, Rega, sospirò leggermente mentre metteva in moto le meningi, mordicchiandosi pensosamente l’interno della guancia. Sporse il labbro inferiore in una smorfietta che Raphael trovò deliziosa, tanto che non poté sottrarsi dal baciarlo, furtivamente, mentre lui si perdeva dietro la ricerca fatta a suo unico beneficio. Ma quando l’altro si riscosse e volle approfondire il contatto, Raphael si tirò indietro. – Allora?
– Mi è venuta in mente una canzone, ma è molto lunga e forse troppo difficile…
Il ragazzo sorrise. – Insegnami una strofa. Così possiamo cantarla insieme.
– Non ne saresti felice… non sono molto intonato.
– Allora la canterò io per te – stabilì Raphael, tranquillo. – Forza, iniziamo. Com’è il titolo?
Il giovane lo sistemò meglio nel suo abbraccio da cui, frenetico com’era, Raphael si era scomposto. Gli aggiustò la coperta sulla striscia di pelle nuda della spalla, non prima di avervi depositato un tiepido bacio. – Non ha titolo. È una canzone d’addio…
– Triste?
– Non ti piacciono le canzoni tristi?
– Mi piacciono moltissimo. Com’è la prima parola?
Gregory sorrise, un sorriso dolce e malizioso insieme, che pareva nascondere qualcosa: ma niente impediva a Raphael di pensare che questo qualcosa fosse la semplice tenerezza per ciò che stavano per condividere, e che li avrebbe avvicinati ancora un po’ nella reciproca comprensione.
– Ti insegnerò la prima strofa, e poi la tradurrò tutta insieme. Parola per parola sarebbe più difficile. La nostra è una lingua molto flessibile.
– La nostra – sorrise il ragazzo, compiaciuto.
– Stai attento perché la pronuncia è molto difficile.
– Sì, maestro – rispose Raphael.
Il più grande si assestò ancora una volta sotto di lui. Pareva lievemente emozionato, appena rosso in viso, abbastanza perché Raphael se ne accorgesse.
– Sei imbarazzato… – sussurrò, stupito ma felice.
– È… una canzone che amo molto – replicò, stirando le labbra in un sorrisetto. – Sono felice di potertela insegnare.
– E allora comincia, su! Stai perdendo tempo.
– Con calma – sorrise il più vecchio, e poi: – Ý an rucaka… i gya meštjas – scandì, con lentezza, per consentirgli di cogliere debitamente ogni capriola che la sua lingua compiva in bocca per formulare le difficili parole gitane. – È il primo verso.
Raphael ripeté, lentamente, incespicando a più riprese. Quando gli parve di essere riuscito, il sorriso di Gregory come assenso, domandò un secondo verso, come un bambino che stenda le mani anelando a un frutto prelibato.
A ý an podzgu gy jungrajg – continuò Gregory, ma non prima di aver rubato un bacio senza permesso a quelle labbra dischiuse, vicinissime alle sue; volutamente troppo veloce, così da costringerlo a domandare spiegazioni… e a dargli un altro bacio in pegno per riceverle. Una mano scivolò sulla sua schiena, mentre ripeteva con calma. Sorrise del brivido che sentì scuoterlo.
– Non distrarmi… – mormorò Raphael, ma con poca convinzione. – A ý an… – alla mano si unì l’altra – an popod… ecco, vedi… mi fai perdere il filo…
A ý an podzgu gy jungrajg – ripeté, paziente, ma senza cessare di tormentargli, sfiorando appena, la linea arcuata della sua schiena… giù… giù… fino ai lombi.
E Raphael ripeté a sua volta, impeccabilmente, pur con un tremore percepibile nella voce che si andava facendo più roca, all’intensificarsi delle sue carezze sfacciate, eppure sorprendentemente caste.
– Suvvia… siamo già a metà… – sussurrò Gregory. – A knjeci ljepšnik mý
Raphael si mosse e si sistemò per bene disteso sopra di lui. Le carezze avevano fatto effetto, ma la smorfia decisa sulle sue labbra avvertiva che non avrebbe pensato ad altro prima di aver finito con la canzone. Gregory si rassegnò tranquillamente, conscio che mancava solo un verso, e con pazienza lo scandì: – Ý an ymnu gý vidjela kegola
Raphael ripeté, velocemente, desideroso anche lui (e quanto desideroso!) di arrivare presto alla fine, e poi, dopo la conferma dell’amante che era stato bravo, azzardò domandargli che gliela canticchiasse, almeno per intuirne il motivo. Gregory assentì, ma eseguì prendendo a toccarlo in tutto il corpo senza ritegno, sfacciataggine cui Raphael non pensò nemmeno di sottrarsi. La canticchiò un attimo dietro di lui, poi, già preso da migliori propositi, si avventò sulla sua bocca come un felino e prese a divorarla, voracemente, come era solito quando di aspettare non ne poteva proprio più.
– Sei un maestro poco presente… – gli rimproverò, in un ansimo, inarcandosi per dargli modo di baciargli il petto. – Distrai… i tuoi allievi… dalla lezione…
La risposta non venne, e del resto Gregory era tutto impegnato a tormentare tra le labbra uno dei piccoli capezzoli di Raphael; le mani invece gli stringevano l’interno delle cosce, premendo per divaricarle un poco, pizzicando con le dita la carne sensibile e infuocata.
Non sarebbe stato un amore dolce né languido: avevano troppa fretta di concludere, Gregory che vi meditava da un po’, Raphael esasperato dal suo tormentarlo. Con un sospiro che era anche un gemito, appoggiandosi con le mani alle sue spalle, si lasciò scivolare su di lui.
Gregory lo ribaltò sulla schiena e si prese quel che gli era stato offerto, in tutti i sensi.
Più tardi, nella penombra ormai fitta di quel pomeriggio avanzato, Raphael gli domandò, sonnolento: – Allora… che cosa significa?
Gregory non ricordò, o finse di non ricordare. – Cosa?
– La canzone…
– Ah, la canzone… – corrugò la fronte, concentrandosi – suona più o meno così… “Tu sei la mia vita… vivo solo per i tuoi occhi… ma devo lasciarti… prima che s’alzi il sole”.
– Oh – mormorò Raphael.
– Deluso?
– Pensavo a qualcosa di più poetico.
– Ma lo è – sorrise Gregory. – Lo è, te l’assicuro.

Il mattino seguente, Raphael si era dato ad un metodico riordino del caos del loro carro. Condivideva le inclinazioni dei suoi per il disordine, in una certa parte, ma sedici anni di monastero non erano passati invano, ed egli era stato educato a mantenere sempre i suoi averi nell’ordine più asettico, pena severe punizioni. Una stanza ordinata, si sentiva dire spesso, è segno di una mente ordinata.
Raphael non credeva di avere una mente ordinata, e le regole del monastero gli erano sempre andate strette, ma in confronto ai suoi genitori era come il più pignolo dei monaci di Serven.
Così, non volendolo fare Katrina e Neekla, lo stava facendo lui. E chino sui cassetti del piccolo comodino, mentre tirava fuori e risistemava le cianfrusaglie che vi erano contenute, canticchiava la canzone insegnatagli da Gregory, allegramente, correggendosi di tanto in tanto quando gli pareva di aver sbagliato.
L’aveva memorizzata piuttosto bene, e la cantava con sicurezza, a voce piena.
– Jeevan?
La voce di Neekla lo fece riscuotere con un sussulto. – Papà – sorrise, voltandosi. – Che…
– Ma… che stai cantando?
Il sorriso si allargò. – Me l’ha insegnata Gregory. Come ti sembra la mia pronuncia? – Esitò. – Sarà penosa, scommetto, ma dovete darmi un po’ di tempo e migliorerà…
– Rega, eh? – ribatté il gitano, scuotendo la testa. – Ci avrei giurato…
– E chi altri? – replicò Raphael, imperturbabile, staccando un cassetto per rovesciarne il contenuto sul pavimento. – Tu e la mamma non vi siete mai offerti di insegnarmi… tu in particolare sei sempre occupato con le vendite…
– E di cosa parla esattamente questa canzone, Jeev? – gli giunse la domanda del padre, inaspettata, dalle sue spalle. C’era un pizzico di ironia nella sua voce, o si sbagliava?
– Non la conosci? – replicò, voltandosi. – È una canzone di addio.
– Addio, eh?
– Sì, addio… Gregory me l’ha tradotta, aspetta, lascia che mi ricordi… tu sei la mia vita… vivo per i tuoi occhi…
Neekla attraversò lo spazio ristretto del carro fino a raggiungerlo, un sorriso sempre più largo sulle labbra sottili. – Questa canzone non esiste, lo sai, Jeevan?
– Non esiste? Ma…
– No. Dice più o meno questo… – E si chinò su di lui e gliela tradusse, a bassa voce, con evidente divertimento negli occhi color del cielo uguali ai suoi.
– Gregory! – ruggì Raphael, saltando su, paonazzo. – Io ti ammazzoooooo!!!

Ho fame della tua carne
bacerò il tuo giocattolo
e caro amore mio
avrò il tuo bel sederino

 

  
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