C’era una volta un sultano, un sultano bello e ricchissimo che
governava su un paese felice e prospero. Questi aveva una bellissima moglie, che
amava teneramente, ed era suo grande amico il capo delle Guardie di Palazzo. Un
giorno, dovendosi recare in visita presso il sovrano del regno confinante, mandò
a chiamare il capitano e gli disse: «Amico mio, io devo partire. Starò via forse
una settimana. Nel frattempo ti prego di aver cura della mia sposa come sempre
hai avuto cura di me». Il capitano fece un inchino e la solenne promessa di
adempiere al suo compito.
Il sultano, "solo e senza alcun sospetto", partì con la sua scorta e si
trattenne presso il regale ospite cinque giorni. Il soggiorno fu principesco,
come del resto è lecito aspettarsi, il re gli mise a disposizione tutto il suo
castello e ogni sorta di agi e divertimenti... donne seducenti, buon cibo e bei
ragazzi a cui pizzicare le natiche - e non solo quelle. La quinta sera, però,
affacciatosi al balcone della propria camera da letto dopo una solenne baldoria
in compagnia di quattro o cinque ragazzi uno più sbronzo dell’altro, scorse in
lontananza Venere, il primo astro della sera, e preso da un moto di malinconia
sospirò e lamentò la mancanza non tanto della sposa quanto del caro amico. Così,
decisosi su due piedi, diede ordine ai servi di raccogliere la sua roba, fece
svegliare la scorta e in quattro e quattr’otto si rimise in cammino per tornare
a casa, anche se ormai era notte. Fece ritorno che erano le prime luci
dell’alba, e silenzioso, intenzionato a fargli una sorpresa, si recò nell’ala
del palazzo dove si trovava la camera da letto dell’amico e scostò piano le
tende all’ingresso. Come vi dissi, era molto presto, e perciò una penombra
soffusa incombeva su tutta la stanza, e in particolar modo sul letto, che si
trovava dalla parte opposta alla finestra. Tranquillo e senza esitare -
conosceva bene la strada! - il sultano arrivò sino al giaciglio, scostò le
coperte di lato e vi si infilò, deciso a svegliare l’amico in un certo modo.
Ma... ma... cos’erano quelle... cose? Sobbalzò. Una donna! Si era portato a
letto una donna! Ma chi diamine... La sgualdrina si ridestò bruscamente,
svegliata dal brutale palpeggiamento, e mandò un gridolino. Era sua moglie! Il
sultano sentì il sangue andargli al cervello, con un moto di schifo si tolse le
coperte di dosso e saltò in piedi, e con tutta la sua regale indignazione
esclamò, fissando negli occhi non la sposa ma il capo delle guardie, che nel
frattempo, destato anch’egli dal grido della donna, si era messo a sedere e
aguzzava la vista nella semioscurità: «Tu, infido traditore! Con quale coraggio
hai potuto farmi questo? Tu, abietto tra gli abietti, tu, infame...» e qui l’ira
gli impedì di continuare. L’amico, colpevole, si limitò ad abbassare gli occhi e
non disse nulla. La sposa, invece, spudorata, si profuse in un pianto dirotto.
Il sultano non se ne curò: uscì nel corridoio, richiamò il primo soldato di
guardia che vide e gli diede ordine di incarcerarli entrambi. La loro pena
sarebbe stata la morte. Allora la sposa si sollevò dal giaciglio e si aggrappò
alle sue ginocchia, disperata, e con lunghi pianti invocò clemenza, se non per
sé almeno per il bimbo che portava in grembo, ché in effetti era incinta di un
paio di mesi.
«E come posso star certo che il figlio sia mio?» replicò il sultano, altero.
«Dovrei crescere un bastardo?» Niente è più orribile della delusione di un
amante tradito. Se pure quella fosse stata veramente la prima e unica volta -
come ella ripetutamente giurava -, egli non le poteva credere. Ed è comunque
facile intuire che il tradimento dell’amico gli bruciasse più di quello di lei.
Da quel momento, il fuoco divampante dell’ira del sultano divenne fonte di
rovina per sé e per gli altri: per sé, perché dopo aver provato i morsi atroci
della gelosia egli ne era rimasto profondamente mutato, e non in meglio; per gli
altri, perché la crudeltà che da quel giorno mise a punto superava di gran lunga
ogni limite.
Non voleva più risposarsi: la cosa, peraltro, non aveva mai riscontrato in lui
grande entusiasmo. Così decise che si sarebbe preso un concubino diverso ogni
notte.
Fece venire nella capitale i ragazzi più belli, e in tutto il regno si sparse la
voce che il sultano voleva consolarsi per il tradimento della moglie. Ogni città
o villaggio mandava gioiosamente i suoi fanciulli più splendidi in dono al
sovrano... ma dopo la prima notte tutto la gioia svanì come neve al sole,
lasciando il posto a un tremendo orrore.
Perché il sultano, passata la notte, aveva estratto la spada e ucciso il ragazzo
ancora addormentato, e così avrebbe fatto ancora e ancora, senza pietà, finché
non fosse riuscito a dimenticare il dolore del tradimento, forse anche
all’infinito. I bei giovani che erano raccolti nella capitale di colpo smisero
di rallegrarsi della fortuna capitata loro - essere concubini di un sultano
folle e sanguinario.
Ogni nuova mattina che sorgeva il regno si svegliava con un sussulto d’angoscia
per la giovane vita troncata, e un sospiro di sollievo nel constatare che non
era ancora capitato al proprio figlio, fratello, parente. Tra i pianti dei cari
e le speranze di tutti gli altri, non era raro sentire qualche vecchio
borbottare un catarroso: «Che si risvegli dalla sua follia, prima che sia troppo
tardi!»; e per troppo tardi si intendeva sempre il turno del figlio o nipote.
Fra i genitori tremebondi stava anche il gran visir del sultano. Questi,
piuttosto avanti negli anni, aveva avuto in tarda età un figlio di nome Karim,
una bellezza sfolgorante di quattordici anni, ritenuto da tutti il ragazzo più
bello che si fosse mai visto nel regno.
Un giorno, questi espresse al padre il desiderio di essere il prossimo concubino
del sultano. Inutile dire che il visir si oppose strenuamente alla cosa, non
aveva alcuna intenzione di perdere il figlio tanto atteso, tuttavia il ragazzo,
con non poca fatica, riuscì a farlo ragionare e a convincerlo di sapere il fatto
suo. Così, tremando un poco per il figlio, a sera il gran visir presentò il
ragazzo al sultano, con queste parole: «Mio signore, questi è mio figlio Karim.
Egli mi ha pregato a lungo di essere presentato a voi, nella speranza... nella
speranza...» gli tremava la voce, povero visir «che voi lo reputiate degno della
vostra attenzione.»
Il sultano studiò il ragazzo con interesse. Gli sfavillavano gli occhi. «Come ti
chiami, ragazzo?» chiese.
Ma il gran visir rispose per lui: «Mi dispiace, mio signore, ma Karim è muto
dalla nascita.»
«E perché un ragazzo così giovane dovrebbe desiderare di entrare nel mio letto?
Non sai che fine farai, Karim?»
«Lo sa, mio signore, ma... ecco, mio figlio mi ha fatto capire che ha così tanta
paura che venga il suo turno che preferisce sia subito e non dopo.»
«Bene, saggia decisione. Questa notte la passerai con me, Karim» sentenziò.
Ora, la camera da letto del sultano si trovava sulla torre più alta e più bella
di tutto il palazzo: torre lussuosissima, guardata a vista in ogni sua parte
dalle guardie personali del sovrano. Tranne in un punto. Prima di giungere alla
camera da letto vi era una piccola anticamera ombrosa, scarsamente illuminata,
nella quale il sultano non voleva vedere alcun soldato, e che egli doveva
necessariamente attraversare per giungere a destinazione.
Così fece anche quella sera. Il ragazzo, come tutti gli altri, attendeva già
nella camera. Lì per lì il sultano, colpito dalla sua bellezza, si era lasciato
accarezzare dall’idea di lasciarlo in vita più di una notte, ma poi il consueto
viaggio attraverso la torre gli aveva restituito la dimensione della sua
vendetta, e più risoluto che mai metteva ora piede nell’anticamera, a colmare la
poca distanza che lo separava dal nuovo concubino.
Poi, d’improvviso, una finestra si spalancò per un improvviso soffio di vento e
le luci delle torce si spensero tutte insieme. Incurante, il sultano proseguì
nell’oscurità, mise un piede di fronte all’altro per fare un passo... e si
bloccò. Perché l’aria di fronte a lui non era vuota, come sarebbe dovuto essere,
ma occupata da un corpo, e prima che avesse il tempo di formulare un pensiero
due braccia sottili gli cinsero le spalle e due labbra morbide premettero per
aprire le sue e una lingua umida si fece strada per toccare la sua, mentre due
mani rapide lo spogliavano audaci, lasciandolo in men che non si dica nudo in
mezzo al buio. Poi le stesse mani presero le sue, le portarono a toccare la
delicata consistenza di un corpo esile ma inequivocabilmente maschio, appena
protetto da una stoffa leggera. E infine lo attirarono giù, sul pavimento... il
sultano sentì di perdersi in una dimensione sconosciuta, dove l’unica costante
erano le carezze rapide e sapienti delle due piccole mani, le quali si muovevano
ora come animate di volontà propria, ora in sincrono, per dargli maggiore
piacere. E infine, sotto quel tocco delicato ma deciso, lo scioglimento.
Non ebbe neppure il tempo di riprendere fiato che già l’altro era scomparso,
sussurrandogli all’orecchio una singola parola: «Tornerò». Il sultano si rimise
in piedi in tutta fretta, raccolse i propri abiti dal pavimento, li indossò e si
precipitò in camera da letto. Il ragazzo dormiva già. Doveva essersi stancato di
aspettarlo.
E adesso, che fare? Il sultano non aveva più voglia di farci l’amore, ma neppure
voleva ucciderlo senza esserselo goduto... questo stravolgeva tutti i piani.
Però magari era proprio Karim il ragazzo misterioso col quale si era
intrattenuto nell’oscurità: da dove poteva essere fuggito, altrimenti, lo
sconosciuto? Non v’erano altre porte nella camera, solo un’ampia finestra che
dava sul vuoto. Che sapesse volare?
Si risolse di svelare il mistero, e così lo svegliò bruscamente, facendolo
sobbalzare. Il ragazzo gli puntò addosso gli occhi grandi, pieni di sonno e
stupore. «Dov’eri poc’anzi?» gli domandò il sultano, severo.
Il ragazzo indicò tutt’intorno a sé, la camera da letto.
«Non mi mentire, ragazzo. Tu non eri qui.»
Karim annuì forsennatamente.
«Non hai visto o sentito niente, allora?»
Karim scosse la testa come volesse staccarsela dal collo. Mimò l’atto di
dormire, con le mani giunte sotto il capo piegato.
«Va bene, basta così. Torna a dormire.»
Il ragazzo spalancò gli occhi, meravigliato.
«Sì, hai capito bene. Dormi.» E così dicendo gli diede l’esempio, si spogliò e
si infilò sotto le coperte.
Grande fu la meraviglia del visir quando, il mattino seguente, il figlio discese
dalla torre e andò ad abbracciarlo. Il vecchio lo abbracciò e lo baciò, convinto
che grazie a lui il suo sultano avesse recuperato la ragione, ma Karim gli fece
capire in un secondo che non era così, e che di sicuro la notte seguente il
sultano l’avrebbe voluto ancora nella torre. Quindi la sua vita era ancora in
pericolo. Il gran visir, che aveva creduto di scoppiare di felicità, ripiombò
nella tetraggine che l’aveva tenuto sveglio tutta la notte, e più agitato di
prima attese che il giorno passasse. Finché, a sera, seppe che il sultano aveva
richiamato il figlio nella torre, e vide il sovrano salire la ripida scalinata
per raggiungerlo.
Ora, non è che il sultano fosse uno stupido: i deboli dinieghi del ragazzo non
l’avevano convinto per niente. Ma per convincersi del tutto avrebbe dovuto
coglierlo in fallo, e per farlo doveva lasciare che le cose andassero come la
sera precedente. Così giunse all’anticamera, entrò, la finestra si aprì e le
luci si spensero, come da copione. Attese e lo sconosciuto apparve come un
fantasma ai suoi occhi ciechi. Subito questi prese a baciarlo e spogliarlo, come
la sera prima, e il sultano lo lasciò fare, ricambiandolo, poi giacque con lui
sul pavimento finché non venne il piacere - stavolta da una bocca affamata, e
non dalle carezze - e infine, prima che l’altro potesse fuggire, gli afferrò un
lembo del vestito e lo tenne stretto... tanto stretto che alla resistenza
dell’altro la stoffa si lacerò e un brandello gli rimase in mano. Rapido, il
sultano si ricoprì e corse nella camera da letto, certo di trovarvi il
truffaldino amante con la veste strappata, ma tutto ciò che vide fu il ragazzo
ancora una volta assopito sul letto, con indosso un abito completamente diverso
dal brandello che il sultano teneva tra le dita. E dunque? Qualcosa non
quadrava. Il sultano si aggirò per la camera come una belva in gabbia, scrutò
ogni angolo, sotto il letto, tra i cuscini, negli armadi: non vi trovò niente
che non vi fosse sempre stato. Svegliò il ragazzo.
«Dov’eri poc’anzi?»
Karim indicò la stanza.
«Non hai visto niente?»
Karim scosse la testa.
«Torna a dormire.»
E le cose andarono avanti così per molto, molto tempo. Una volta che pensò di
piazzare due soldati nell’anticamera, come leggendogli nella mente lo
sconosciuto gli mormorò, prima di sparire: «Se ci sarà qualcun altro, io non
verrò più».
E un’altra volta, quando gli chiese chi fosse, quello rispose: «Se cambiate
qualcosa, io non verrò più».
Ogni mattina si diceva: "Questa notte, appena lo avrò tra le braccia, me lo
terrò stretto e lo trascinerò fuori, nel corridoio: così non mi potrà
scappare!". Facile a dirsi, ma intanto non vi riusciva mai. Vuoi perché due
volte su tre il ragazzo lo distoglieva dal pensiero con la subdola arte che
conosceva tanto bene, vuoi perché, quando pure tentava, quel corpo esile pareva
sfuggirgli come aria tra le mani, e subito si dileguava nel buio come un sogno.
Che poteva fare il sultano? Più tentava e meno riusciva nei suoi propositi, e
meno riusciva più cresceva in lui il desiderio di svelare il mistero di quel
corpo senza nome, che non gli si concedeva mai, pur senza lesinargli tutta una
miriade di altre cose che in verità sapeva fare molto bene.
Peraltro, il sultano era talmente preso dal mistero dell’amante dell’anticamera
che si era ormai dimenticato della sua vendetta e pure di Karim, che ancora
attendeva trepidante la sua prima notte, e ogni sera si appisolava nell’attesa
sul suo letto.
«Dov’eri poc’anzi?»
Karim indicava la stanza.
«Non hai visto niente?»
Karim scuoteva la testa.
«Torna a dormire.»
E il fanciullo tornava a dormire, tirando un sospiro di sollievo.
Eppure niente gli toglieva dalla testa che l’amante fosse proprio lui, e che il
suo mutismo fosse solo una finzione. Spesso, durante il giorno, lo faceva
spiare, sperando di scoprire che egli in realtà parlava - perché se era così
allora era tutto risolto -, ma le spie tornavano sempre a rapporto con le pive
nel sacco: Karim parlava solo a gesti, o scriveva in bella calligrafia su un
quadernetto di pergamena che si portava sempre appresso.
Ma le trovate del sultano non si limitavano a questo. Una notte, astuto,
nascondeva un pugnaletto nella manica e, quando l’amante lo spogliava, rapido
gli tagliava una ciocca di capelli, solo per poi scoprire, alla luce, che ad una
parrucca aveva tagliato il ciuffo, e non ad una capigliatura vera. Un’altra,
senza perder tempo a vestirsi, faceva per precipitarsi in camera da letto, ma
l’ombra con un solenne spintone lo mandava a incespicare tra i vestiti gettati
sul pavimento, e quando finalmente raggiungeva la stanza trovava il ragazzo
sempre al suo posto, quieto, a dormicchiare.
«Non hai sentito niente?»
Karim scuoteva la testa.
«Dormi.»
Era più che una curiosità, ormai: era questione d’onore. Scoprire chi fosse
l’amante per lui era diventata un’ossessione. E non si rendeva conto, il
sultano, che questa sua patologica ostinazione era in un certo modo una forma di
amore, morboso forse, ma sempre amore. Così, mentre il sovrano inseguiva le sue
chimere notturne, il regno tirava sospiri di sollievo, ad ogni nuova alba che
sorgeva senza morti.
Mille notti trascorsero così, senza che il sultano potesse aver ragione
dell’astuzia dell’avversario, il quale sembrava prevedere e prevenire ogni sua
mossa, ogni sua pensata. Poi, alla millesima, accadde un fatto nuovo. Quando si
lasciarono, l’ombra non scappò via di corsa come le altre volte, ma si attardò
per mormorargli all’orecchio queste parole: «Se voi volete sapere chi sono,
dovete fare come vi dico. Prendete questo» gli mise in mano un piccolo oggetto
«e domani portatelo al gran visir. Lui saprà dirvi dove andare. Domani notte,
solo, e bendato. Una sola occasione. Altrimenti non mi vedrete mai più.»
L’oggetto in questione era un piccolo ciondolo a forma di goccia, colore del
mare. Quando lo mostrò al gran visir, il vecchio andò in visibilio. «Ma,
Altezza, è un oggetto rarissimo!» cinguettò non appena lo vide, a metà tra lo
stupito e il commosso. «Appartiene a un giovine demone delle fonti che dicono
risieda nelle acque di un’oasi poco distante da qui... come ne siete venuto in
possesso?»
Ardua la decisione. Offrirsi a una probabile imboscata o non scoprire mai il
nome del suo amante? L’idea di perderlo gli faceva male al cuore, eppure teneva
anche alla vita. Ma persolo, che vita sarebbe stata? L’ossessione era tale che
era pronto anche a farsi ammazzare per soddisfarla. Pensò e pensò e pensò, e
alla fine si risolse, come aveva sempre saputo, ad andare. Se era destino che
morisse, tanto peggio per lui: ma almeno avrebbe saputo.
Raggiunse l’oasi a cavallo, senza dir niente a nessuno, in piena notte. Era una
notte piuttosto buia, la luna era coperta e le stelle parevano eclissate, come a
conservare il segreto del giovane demone o uomo, qualunque cosa fosse. Giunto
alla sorgente, il sultano smontò da cavallo e prese una benda dalla tasca della
sella. «Ragazzo! Ci sei?» chiamò.
Dalla pozza parve provenire la voce dell’amante: «Non vi vedo bendato».
Il sultano si sistemò la benda sugli occhi. «Dimmi chi sei.»
«Dopo. Entrate in acqua.»
Avanzando a tentoni, il sultano raggiunse la pozza, si spogliò e vi si immerse,
solo per scoprire che l’altro era già lì, o forse vi era sempre stato, come il
giovine dio delle fonti che impersonava. E lì, in mezzo all’acqua placida
dell’oasi, nella notte profonda, lo sconosciuto si lasciò possedere per la prima
volta.
Poi, mentre il sultano si abbandonava al piacere, lentamente gli sfilò la benda
dagli occhi.
Il sultano si trovò di fronte, come aveva sempre saputo, il concubino che aveva
avuto ogni notte e mai avuto... e Karim, che ogni notte si era dato e non si era
dato mai, arrossendo forte si ritirò da lui. «Mi graziate?» mormorò, uscendo
dall’acqua sulla terra umida.
Il sultano rise forte e a lungo. «Sì che ti grazio» disse alla fine, uscendo a
sua volta. «Demone delle fonti... mille notti mi hai fatto penare per dirmi
ch’eri tu!»
«Mille e una» sorrise il ragazzo.