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Autore: fiorediloto87    28/06/2006    6 recensioni
Una storia d'amore natalizia, ambientata nella Londra elisabettiana, tra l'attore shakespeariano Edward Chambers e il giovane Lord Geoffrey Season...
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Periodo Tudor/Inghilterra
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Romeo e Giulietta
- Variazione sul tema -


 

 

“Possa discendere il sonno sui tuoi occhi, come la pace nel tuo cuore;

e foss’io quel sonno e quella pace che riposano sovra sì care membra!”

(W. Shakespeare)


 

 

Londra, 1680

 

Non aveva mai amato nessun altro, né mai l’avrebbe fatto.

“Non puoi farci niente: è il tuo destino. Nella tua vita ci sarà sempre una bella che fugge e tu la che la guardi andar via, ci sarà sempre amore e ci sarà sempre morte – tragica e prematura, ingiusta quanto vuoi, ma immutabile, perché così è scritto. E tu, mio piccolo Edward, non potrai mai farci nulla.”

Così gli aveva detto sua madre, e dieci anni buoni erano passati – non che le avesse mai creduto, povera vecchia – la chiromante era morta e lui invece vivo. Vivo e innamorato – innamorato, che parola, ma era così. Innamorato di un fantasma, di una pallida ombra, di una meravigliosa Giulietta di pura luce. Ma sempre innamorato era, anche se il suo amore non aveva corpo e neppure nome, anche se lo visitava solo di notte, e solo nei sogni. Quei sogni colpevoli dai quali si risvegliava col ventre bagnato e un’angoscia infinita nel cuore, ma che poi lasciavano un piacere soffuso e palpabile per tutta la giornata, morbido come i suoi capelli, delicato come la sua pelle. Quei sogni che attendeva come il dono più prezioso, che desiderava come un assetato una pozza d’acqua. Era innamorato, sì. Altri lo dicevano pazzo, per quell’amore sconclusionato e senza speranza, altri ancora scrollavano le spalle e lo chiamavano in altro modo: artista. Sì, artista. Agli artisti è concesso tutto. Lo dicevano pazzo, artista – era quasi un sinonimo, per loro – ma non se ne curava. E talvolta chiudeva gli occhi aspettandosi di riaprirli e trovarlo lì, il suo amore, la sua Giulietta dagli occhi azzurri e l’incarnato dorato dal sole.

«Signor Chambers! Volete cortesemente degnarci della vostra attenzione?»

Edward Chambers sobbalzò violentemente, dimostrando ancora una volta la sua palese distrazione.

«Un giorno o l’altro, signor Chambers, voglio che mi spieghiate come riuscite a dormire in piedi» infierì Gordon Walker, spingendo alla radice del naso gli occhialetti rotondi. «Silenzio. Non perché ora vi fate chiamare “Hamlet” avrete da parte nostra più riguardo di prima. È chiaro?»

Edward annuì, sopportando stoicamente la ramanzina e gli sghignazzi degli altri attori. Non era stato lui a scegliere quel soprannome, attribuitogli dal pubblico di Londra in occasione della prima dell’Hamlet, appunto. Ma ne andava fiero, perché il pubblico era l’unico metro di giudizio a cui volesse rifarsi, e l’unico destinatario della sua arte. Walker era un ottimo impresario, ma non amava che si creassero disparità tra gli attori, e dava il buon esempio trattando tutti con la medesima, arcigna scortesia.

«Ora, se il signor Chambers permette, assegneremo i ruoli per “Romeo e Giulietta”.»

Edward impallidì. «Romeo e Giulietta?» mormorò. «Quando… quando è stata scelta quest’opera?»

Walker scosse la testa, con aria esasperata. «Mentre voi vi crogiolavate nell’osanna del vostro pubblico, evidentemente. Ne abbiamo discusso proprio ieri, qui su questo palco, e voi eravate presente.»

Nuovo accesso di risate. Edward alzò una mano in segno di scusa. «Scusatemi, l’avevo dimenticato» borbottò.

«Bene. Dunque… Mercuzio: Richard Phillmore; Tebaldo: Nathan Wayne… …e infine Giulietta: Francis Danton[1]; e Romeo: Edward Chambers. Studiate le parti, ci troveremo domani per le prime prove.»

«Chambers? Il tuo copione.»

Edward alzò a malapena gli occhi. Un ciuffo lungo e rossastro gli dondolò per un attimo davanti al viso. Danton era un ragazzo affabile e di buon cuore, un bravo commediante e un amico riservato, ma la prospettiva di stringerlo a sé recitandogli parole d’amore non lo entusiasmava. Prese il copione che gli porgeva e accennò un sorriso di cortesia. «Grazie. A domani.»

La notizia lo aveva turbato. Conosceva l’opera, naturalmente, ma aveva pensato – sperato – che non l’avrebbero mai messa in scena. Nessuno, nel suo pensiero, poteva essere una Giulietta più degna del suo amore, ma col passar del tempo anche lui si era andato convincendo che esso non fosse più che un’illusione, un sogno. Non aveva smesso di amarlo – oh, no. Ma non credeva più che il destino gli avrebbe fatto trovare la sua “bella che fugge”. Non credeva più che avrebbe avuto modo di inseguirla.

Andò a casa. Desiderava soltanto dormire, adesso, dormire e sognare il suo amore – per trovare in lui conforto e ristoro. Dopo, ne era certo, il mondo gli sarebbe apparso migliore, e avrebbe potuto cominciare a studiare la parte.

Mentre tornava a casa, osservò distrattamente la coltre di neve accumulatasi quella mattina. Era quasi Natale, sì. Ma per lui lo scorrere del tempo aveva un valore relativo, superabile. Ogni tanto ne trovava un accenno in un filo grigio – prematuro in un uomo di poco più di vent’anni – che non si premurava di tagliare o nascondere. Nel complesso aveva un aspetto sano, forte, giovanile. Ma erano passati tre anni e il suo viso mostrava sempre lo stesso sentimento: rassegnazione. Giulietta non esisteva.

Quel pomeriggio non sognò nulla e si svegliò più nervoso e intrattabile del solito, malumore che gli durò fino a notte fonda.

Era ormai tardi e avrebbe dovuto coricarsi, ma l’aveva colto il terribile presentimento che il suo amore l’avesse lasciato – che avrebbe smesso di visitarlo e non sarebbe più venuto nei suoi sogni, e non avrebbero più fatto l’amore in quel modo dolce e lento che adorava. Il pensiero bastò a fargli passare il sonno, completamente. Prese la giacca, incurante degli strappi sulle maniche, e uscì.

Londra era avvolta in una cappa di oscurità e nebbia, notte perfetta per ladri, stupratori e assassini. Edward neppure vi fece caso. Non aveva nulla da farsi rubare, neppure la sua vita valeva granché. Se un ladro armato di coltello gli si fosse avvicinato, probabilmente Edward si sarebbe limitato a tirar fuori la fodera vuota delle tasche.

Ma cos’avrebbe fatto se davvero il suo amore l’avesse abbandonato? Come avrebbe continuato a vivere? Nonostante più d’uno fosse pronto a giurare il contrario, Edward non era pazzo. Non si era mai messo a parlare da solo, non aveva mai sofferto di allucinazioni e conosceva benissimo il confine tra il sogno e la realtà. Ma il sogno, i sogni in cui lui lo visitava, erano l’unica cosa che gli rendeva accettabile il resto. E se lui non fosse più venuto…

Si prese la testa tra le mani, scuotendo forte il capo. No. No. No! Non poteva pensarci, non poteva neppure considerare l’idea. Si sarebbe ucciso, piuttosto. Dio non poteva essere così crudele da dare un senso alla sua vita e poi strapparglielo, così, da un giorno all’altro, senza motivo.

«Non può essere… non di nuovo» mormorò, appoggiando la fronte a un ruvido muro. «Non di nuovo…»

Di nuovo? Edward risollevò il capo. Di nuovo, perché l’aveva detto? Non c’era stata una prima volta… non aveva mai amato nessun altro, che ricordasse. Si passò una mano sulla faccia. Forse davvero stava diventando pazzo.

Doveva tornare a casa e cercare di dormire, o l’indomani sarebbe stata la volta buona che Walker lo buttava fuori dalla compagnia. Ma aveva paura. Una paura folle di trovar ragione dei suoi presentimenti. Di addormentarsi e non trovarlo, lì come al solito, ad attenderlo. Il suo splendido, folle amore. Appoggiò la mano sul muro. Avrebbe passeggiato ancora un po’, ma non troppo, patteggiò con se stesso.

Riprese a camminare. Il quartiere non era dei migliori, ma Edward era disinteressato ai pericoli della strada. Per gli stessi motivi non temeva di trovare la casa svaligiata, perché i suoi pochi risparmi erano ben nascosti – ma erano veramente pochi. La bravura di impresario di Gordon Walker consisteva anche nella tenacità con cui riusciva a pagare una fame la compagnia di attori più acclamata di Londra.

La nebbia era così fitta che le urla gli giunsero all’orecchio prima di riuscire a vedere chi le aveva pronunciate. Una voce giovane, con una nota stridula di paura.

«Lasciatemi! Vi ho detto di lasciarmi!»

A malapena vedeva a tre passi di fronte a sé, tuttavia corse nella direzione della voce. Vide un’ombra, quella che stimò avesse gridato, stretta da due più corpulente, e lo scintillio dei pugnali. Senza pensare, approfittando del fatto che nessuno dei due l’aveva scorto, afferrò il primo per le spalle e lo spinse contro il muro vicino. Il ladro batté la testa e il pugnale cadde a terra; Edward lo raccolse in fretta. Per la verità non sapeva neanche come si usasse, un coltello di quel tipo: l’ultima volta che aveva avuto in mano un arnese simile l’aveva usato per tagliare il tacchino di Natale. Comunque badò bene di non sembrare preoccupato, anche se la nebbia nascondeva bene la sua espressione.

«Avanti!» lo incitò, e d’improvviso si sentì di nuovo Hamlet in duello con Laerte. Ricordò le prove - infinite – per imparare a tenere in mano una spada, anche se adesso disponeva solo di un coltello. Le prove gli servirono: schivò un affondo diretto al suo cuore e un altro più basso, tirato alla cieca. A furia di sentire la voce di Walker che gli straziava i timpani, aveva imparato la postura corretta per un duellante. Il ladro non l’aveva.

Il duello aveva raggiunto un punto morto. Un ladro giaceva svenuto più in là. Il derubato guardava in silenzio, o forse era scappato – non aveva il tempo di voltarsi a controllare. Il suo avversario continuava a tentare affondi sempre più scomposti. E lui non aveva alcun desiderio di ammazzarlo, giacché era riuscito ad arrivare alla significativa età di ventidue anni senza spargere sangue, e intendeva proseguire.

Il ladro gli si gettò addosso, sbilanciandosi, poi senza apparente ragione incespicò e cadde. Il pugnale volò via. Edward colse un’ombra – il passante che aveva soccorso – chinarsi a raccoglierlo. Il ladro contemplò la nuova situazione e corse via, lasciando il compagno svenuto al muro.

«Andiamo via» disse Edward. «Non vorrei che si riprendesse proprio ora…» Malgrado la sicurezza del tono, aveva il fiatone. Non era abituato ai duelli veri, e quello di Hamlet era considerevolmente più breve e meno impegnativo. L’altro annuì.

«Vi ringrazio» mormorò il ragazzo, perché tale sembrava dalla voce. «Non so come avrei fatto senza il vostro aiuto.»

«Non è nulla» rispose Edward, rigirandosi tra le mani il pugnale. Lo infilò in tasca. Poteva sempre tornare utile, dopotutto; se non altro per tagliare il tacchino. «Questa zona è pericolosa, non è consigliabile passeggiarvi da soli. Avete smarrito la strada?»

«Oh, no, no. L’asse della mia carrozza si è rotto e così ho preferito proseguire a piedi, mentre veniva riparato.»

«Doveva essere il destino…» mormorò Edward, senza pensare.

«Come?»

«Nulla. Permettete? Edward Chambers, al vostro servizio.» E si esibì in un elaborato inchino, retaggio d’altri tempi – gesto che gli lasciò addosso uno strano ma piacevole senso di déjà vu. «Forse mi conoscete di fama. A Londra mi chiamano “Hamlet”.»

Il ragazzo sorrise e gli tese la destra. «Geoffrey Season. Forse conoscete mio padre, Lord Season, Pari d’Inghilterra.»

Edward la strinse, ricambiando il sorriso. Ma subito gli morì sulle labbra quando poté scorgere da vicino i boccoli biondi del ragazzo, i suoi occhi grandi e azzurri, le sue labbra sottili. Gli parve che tutto il suo sangue defluisse alle caviglie – che tutto il suo mondo si sgretolasse in un attimo.

«Signor Chambers? Vi sentite bene?»

«Voi… io… voglio dire…»

«Sì?»

Edward riprese fiato, accorgendosi di averlo trattenuto fino a quel momento. «Casa mia non è molto distante. Volete… posso invitarvi a bere qualcosa con me?»

Il ragazzo si rabbuiò. «No, signore, scusatemi. È molto tardi e devo rincasare.»

«Aspettate!» Lo prese per un braccio, disperato di perderlo. «Aspettate, vi prego, non pensate male di me. Non ho cattive intenzioni, davvero. Forse voi pensate che voglia rapirvi per chiedere un riscatto a vostro padre…»

«Possibile» mormorò il ragazzo, ostile.

«No, no, non credetelo!» ribatté Edward. «Non avrei bisogno di portarvi da nessuna parte, se fosse così. Voglio… devo parlarvi. È una faccenda della massima importanza, credetemi.»

Il ragazzo si trasse indietro. «Siete ubriaco, signore?»

«Mai stato più sobrio, milord. Mai più di ora. Vi prego. Datemi fiducia.»

Geoffrey Season corrugò la fronte, scettico, e fece per rifiutare recisamente… poi esitò. «Come avete detto di chiamarvi?» domandò.

«Chambers. Edward Chambers.»

«Non ci siamo già conosciuti, vero?»

Edward sentì che il suo cuore premeva per sfondare il torace, impazzito. «Anche di questo vorrei parlarvi, se me lo consentite» mormorò.

Ancora non sapeva quale demone o dio si divertisse a giocare con la sua vita, ma guardando il ragazzo fermo in mezzo alla stanza fu certo che, per una volta, aveva deciso di fargli un regalo. Un meraviglioso, biondo regalo dagli occhi azzurri. Dopo tre anni, per la prima volta Edward si sentì pronto a scommettere che i sogni non sarebbero più tornati – e non ne provò dolore.

«Sedetevi, vi prego» gli disse, allontanando una sedia dal tavolo.

Era una casa piccola e certo troppo misera per il figlio di un Pari d’Inghilterra. Edward se ne vergognò immensamente. Che gli era saltato in testa di portarlo a casa sua? Il ragazzo avrebbe provato disgusto anche solo a sfiorare la sedia che gli porgeva. Avrebbe dovuto invitarlo in un altro posto, ma dove? Una taverna?

«Perdonate se casa mia non è Buckingham Palace, ma sono solo un attore» mormorò Edward, contrito.

«Credevo che Hamlet ricevesse compensi pari alla sua fama» osservò Geoffrey, accettando la sedia.

«Mortificato di avervi deluso, milord.»

Il ragazzo pareva nervoso, ma indifferente alla povertà della casa. Stava in mezzo alla stanza, vestito riccamente, coi guanti bianchi macchiati di polvere e le scarpe lucide, senza rendersi minimamente conto della stonatura che la sua persona costituiva in un tale ambiente.

«Di cosa dovete parlarmi, signor Chambers?» domandò, guardandosi intorno come a cercare inesistenti complici delittuosi.

«Edward. Solo Edward.»

«Bene, di cosa dovete parlarmi, Edward?»

«Posso offrirvi del vino?»

«Di cosa dovete parlarmi?»

L’attore allontanò un’altra sedia dal tavolo e sedette accanto a lui, appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «È una lunga storia… strana, molto strana, e forse quando la sentirete vi verrà voglia di uscire di corsa da questa casa. Ma dovete promettermi di ascoltarla tutta fino alla fine senza interrompermi. Me lo promettete?»

Geoffrey Season annuì.

Come poteva raccontare al suo unico, grande amore – una persona normale, inconsapevole, indifferente – di averlo amato per tre anni, ogni notte, in sogno? Come poteva sperare di non essere considerato pazzo?

Cominciò dall’inizio, senza guardarlo in viso se non raramente, a intervalli, per scrutare le sue reazioni. Quando vide il rossore tingergli le guance – stava parlando della loro prima notte – gli scappò un sorriso. Continuò a parlare, non seppe mai per quanto, descrivendo il suo amore con parole accorate e dolci che mai nessuno, neppure Romeo, Bassanio o Lisandro[2] avevano pronunciato più sincere.

Alla fine, alzò gli occhi su di lui e tacque. Geoffrey Season lo guardava imbarazzato. «È la verità, e non sono pazzo» mormorò. «Dovete credere almeno questo.»

«Come posso… voi non state bene, signor Chambers» ribatté il ragazzo.

«Sono sano di mente, Geoffrey. Molti vi diranno il contrario, ma vi assicuro che sono perfettamente padrone di me, e non vi ho detto altro che la verità.»

«Non posso credere a una storia del genere. È… è folle!»

«Ma è vera» replicò Edward.

Geoffrey Season si alzò in piedi. «È stato un incontro gradevole, signore, ma adesso è molto tardi e, come vi dissi…» consultò l’orologio «un’ora fa, devo rincasare. Vi sono grato per l’ospitalità e per il vostro provvidenziale intervento…»

«Renato.»

«Come avete detto?»

«Renato. È il nome con cui mi chiamate in sogno. Sempre lo stesso. Renato. Non vi ricorda niente?»

Il ragazzo impallidì violentemente. «Questo… questo non è possibile» mormorò.

«È la verità, Geoffrey. Te lo giuro su quanto ho di più…»

«No! Io penso che voi siate pazzo, Edward Chambers, completamente pazzo, e non ho intenzione di ascoltare una parola di più. Adesso io uscirò dalla vostra casa e vi prego di non tentare di cercarmi, qualunque sia l’entità del vostro folle sentimento… questa cosa distorta che voi chiamate amore. Io non vi conosco e non voglio conoscervi. Addio.» E uscì dalla casa, in tutta fretta. Edward si precipitò fuori dopo di lui, ma non ebbe il coraggio di inseguirlo.

… e tu che la guardi andar via…

«Tre settimane!» gridò nella notte. «Fra tre settimane al Royal Theatre! Non sono pazzo, Geoffrey! Non io! Non…»

Sospirò. Geoffrey era scomparso nella nebbia, come non fosse mai esistito.

 

Non si era mai sentito più triste di quel primo mattino senza il ricordo soffice delle sue labbra.

«Signor Chambers, maledizione! Avete tra le braccia la donna della vostra vita, non un manico di scopa!»

Edward scosse la testa, ritirando le braccia dalla vita di Francis Danton. «Scusatemi» mormorò.

«Scusate un corno!» Per la prima volta da quando lo conosceva, Gordon Walker scagliò il copione a terra in un impeto di rabbia. (Orrore – gli attori impallidirono. Qualcuno si affrettò ad afferrarlo e a batterlo tre volte sul pavimento in segno di scongiuro.) «Da quando avete messo piede su questo palco non fate altro che sbagliare le battute, fissare il vuoto e sbattere il povero Danton a destra e a manca!»

Sull217;affermazione si levò uno scroscio di risate. Il ragazzo arrossì fino alla radice dei capelli.

«Silenzio! Non c’è niente da ridere.»

Edward si passò una mano sulla faccia, sospirando. «Signor Walker, non mi sento bene» mormorò. «Io… forse è meglio che continuate senza di me. Scusatemi.» Senza aggiungere una parola, saltò giù dal palco inseguito dagli improperi dell’impresario, raccolse la giacca e uscì dal teatro.

L’avrebbe pagata cara, ma non aveva mentito: si sentiva uno straccio. Camminò a casaccio per un’oretta, e alla fine si accorse che i piedi l’avevano condotto a casa. Entrò senza neppure richiudere la porta. Si gettò sul letto e cominciò a tirare pugni al muro, in preda a un impeto di disperazione.

Non l’avrebbe più visto, mai più. Perché il destino lo tormentava in questo modo? Gli sarebbe bastato continuare a sognarlo, senza conoscerlo mai – se lo sarebbe fatto bastare. E invece adesso conosceva il suo nome, aveva visto il suo volto e stretto la sua mano, e non gli era mai stato più lontano di così. Geoffrey lo credeva pazzo, e lui… oh, di questo passo lo sarebbe diventato sul serio.

Ed era passata solo una settimana.

Chiuse gli occhi, sperando di trovare requie nel sonno, e dopo qualche minuto precipitò in un dormiveglia agitato.

«Chambers?»

Si riscosse di soprassalto. Si passò una mano sugli occhi, constatando con fastidio che adesso aveva un sapore amaro in fondo alla lingua e il collo dolorante. Chissà in che posizione aveva dormito…

«Chambers? Allora è vero che ti senti male…»

Gli occhi chiari di Francis Danton – azzurri? No, verdi – lo fissavano vagamente preoccupati. Si tirò a sedere, scuotendo la testa. «Come sei entrato?» mormorò.

«La porta era aperta.»

Edward scivolò giù dal letto. «Hai bisogno di qualcosa?…»

«Volevo vedere come stavi. Oggi eri pallido… anche adesso non hai una bella cera.»

«Sto bene» borbottò Edward. «Ho dormito poco stanotte, tutto qui.»

Passò nella stanza attigua e aprì gli sportelli della dispensa, da cui tirò fuori una bottiglia di vino rosso. «Bevi, Francis?» domandò, prendendo due bicchieri.

«Qualche volta» rispose il ragazzo.

«Bevi con me.» Riempì i bicchieri e si sedette, indicandogli di fare altrettanto.

Il ragazzo obbedì, posando sul tavolo un piccolo paniere di vimini. «Mia madre… ecco, ti manda queste mele. Sono dolcissime, le ha raccolte lei. Il nostro melo ne produce più di quante ne mangiamo, così…» Scostò il tovagliolo bianco dai bordi sfilacciati, prendendo un frutto di un rosso acceso e invitante. «Vuoi assaggiarle?» domandò, porgendoglielo.

Edward, il bicchiere accostato alle labbra, si arrestò con un sorriso strano. «Scena biblica» mormorò, senza fare un gesto.

Francis avvampò e lasciò ricadere la mela dentro il cesto. «Io… va bene, te le lascio qui» balbettò, ricoprendole con il tovagliolo.

«Ringrazia tua madre, Francis. È sempre molto gentile con me, per quanto non mi abbia mai visto. Forse non sa della mia pessima influenza…»

«Quella volta il signor Walker non diceva sul serio.»

«Sarà» ribatté Edward, guardando pensoso dentro il bicchiere. «Non bevi, Francis?»

Il ragazzo sorseggiò distrattamente, senza staccargli gli occhi di dosso. «Edward…»

«Mmm?»

«Le ho raccolte io, quelle. Mia madre non lo sa.»

«Ah.»

«Non sa neanche di te… credo.»

«Vale anche per il formaggio dell’altra volta?»

«Sì… tutte le volte» mormorò il ragazzo.

Edward scrollò leggermente le spalle, senza fargli domande. «Ringraziala lo stesso per non essersene accorta. O per aver fatto finta di niente.» Sorrise appena. «Grazie. Vorrei potermi permettere di fare i complimenti, ma la verità è che Walker non mi paga da due mesi.»

«Perché?» esclamò Francis, sbarrando gli occhi.

Hamlet scosse la testa. «Quell’incidente sul palco…»

«Quello non fu colpa tua, ma di Brown!»

«Daniel è messo peggio di me. Io non ho famiglia da sfamare, e quello che mi passa Walker mi basta… per ora.»

«Non è giusto, se il signor Walker ti desse quanto ti spetta tu potresti… potresti vivere molto meglio di così!» esclamò il ragazzo, animandosi.

Edward alzò gli occhi, sorpreso. «Ma guarda» mormorò. «Non pensavo di essere messo così male da fare pietà. Devo avere proprio un pessimo aspetto…»

«Non è pietà» balbettò Francis, arrossendo. «Mi preoccupo per te, semplicemente… Tu sei il migliore di noi e potresti…»

«Sto bene, Francis» disse il più vecchio, alzandosi. «Vivo bene così, non mi importa se Walker fa la cresta sulle nostre paghe o sulla mia soltanto; non mi importa di diventare ricco né di avere una casa più grande. A che mi servirebbe? Sono solo. Mi basta che Walker non mi affami, e per quanto ci stia provando con tutte le sue forze, ti assicuro che in un modo o nell’altro ho sempre di che mangiare. Con questo spero di aver placato la tua preoccupazione.»

«Io… io volevo solo… non voglio che tu… che tu stia male, ecco» bisbigliò il ragazzo, gli occhi fissi sul tavolo.

Edward sorrise leggermente. Povero ragazzo, si preoccupava per lui. Era stato troppo duro. Sollevò le dita ad accarezzargli la guancia, senza neanche stupirsi di vederlo arrossire. Arrossiva sempre per così poco, Francis…

«Non ci si può fare niente» mormorò. «Tocca a tutti, prima o poi. Ma tu non lo dirai a nessuno, vero?»

Francis prese la sua mano, stringendola con forza. «Che cos’hai?»

«Ah, Francis…»

«Dimmelo, Edward. Non siamo forse amici?»

Edward sorrise nuovamente, poi scosse la testa. «Credevo che fosse chiaro ed evidente per tutti… non sono il primo e non sarò l’ultimo a soffrire di questo male…»

«Che male?»

«Amore, Francis» mormorò Edward, guardandolo malinconicamente negli occhi – sforzandosi di cogliervi una sfumatura d’azzurro che li facesse assomigliare ai suoi. «Amore. Così semplice, eppure così dannatamente complicato…»

Stavolta fu il ragazzo a impallidire, ma Edward non se ne accorse. «Chi ami?» bisbigliò.

«Non posso dirtelo, Francis… non vorresti più vedermi.»

«No, Edward, non è vero. Te lo giuro» disse il ragazzo, stringendo più forte la sua mano.

L’attore abbassò lo sguardo sul tavolo, seguendo le mille crepe e le mille fessure del legno. «Un ragazzo, Francis…» alzò gli occhi, «un bellissimo ragazzo che non mi amerà mai.»

La reazione dell’altro lo turbò. Era molto pallido, ora, e sembrava sul punto di scappare via da un momento all’altro. Forse aveva esagerato – forse si era scoperto troppo. Che gli era saltato in mente? A ripensarci, tra loro non c’era mai stata grande confidenza. Ma aveva avvertito per la prima volta un desiderio irrefrenabile di liberarsi del suo peso…

«Ti capisco se vuoi andartene» mormorò Edward. «Lì c’è la porta. Esci pure, disprezzami, ingiuriami. Ti chiedo solo di non parlarne con nessun altro.»

«Non lo dirò a nessuno.» La voce di Francis gli giunse all’orecchio come un venticello carezzevole e caldo. Edward trasalì nel trovarselo così vicino, il petto quasi appoggiato al suo, un ginocchio contro la sua gamba. «Perché dovrei?» sussurrò il ragazzo. «Io… avevo visto come mi guardavi, ma pensavo di sbagliarmi… pensavo che per te quegli sguardi non significassero nulla…» Gli prese le mani, portandosele sui fianchi. «Edward… io…» Si tese verso un Edward più stupito che mai e lo baciò sulla bocca, con delicata intraprendenza. «Io ti amo…»

«Francis…»

«Shh.» Gli passò l’indice sulle labbra, poi tornò a baciarlo. E intanto le mani del ragazzo correvano alla sua camicia, allentando i lacci, cercando l’orlo…

«Francis, no» disse Edward, tirandosi indietro. «Non posso… no.»

«Perché…» mormorò Francis, baciandogli il collo. «Non lo saprà nessuno…»

«No.» Edward lo scostò da sé, con decisione. «È meglio se vai via, Francis.»

«Come…? Perché?» disse il ragazzo. «Te l’ho detto, io…»

«Tu mi hai frainteso» mormorò Edward. Fece qualche passo nella stanza. «Io… non parlavo di te» confessò, evitando il suo sguardo.

Ora il viso di Francis era livido, contratto. Non disse niente. Il rumore della porta che sbatteva risparmiò a Edward ulteriori spiegazioni.

Più abbattuto e più stanco di prima, l’attore contemplò malinconicamente il cesto con le mele. Malgrado si sentisse fisicamente come dopo tre ore di cavalcata, il sonno era scomparso. Aveva bisogno di tenersi impegnato. Tolse il tovagliolo che copriva il cesto e spostò le mele in un paniere vuoto. L’indomani avrebbe restituito a Francis il suo.

Quando le ebbe tolte tutte fece per mettere via il canestro del ragazzo – poi si accorse che ne aveva dimenticata una. Era di un bel colore acceso. La prese, la strofinò distrattamente sulla manica e le assestò un generoso morso.

Un vermetto bianco lo fissò dalle profondità violate della mela. Per un po’ rimasero a guardarsi, lui e la bestiolina senz’occhi, poi Edward voltò il capo di lato e sputò.

«Ad Adamo perlomeno è toccato un serpente» commentò, buttando via la mela corrosa.

 

“Mi ami, Romeo? So che risponderai affermando; e il tuo affermare mi empirà di gioia…”

 

Il coraggio di guardarsi nuovamente in faccia mancava a tutti e due, probabilmente. Ma quando Edward vide che Francis gli sfuggiva non trovò di meglio che inseguirlo dietro le quinte. Lo afferrò per un polso, gesto al quale il ragazzo rispose rivoltandosi come un serpente. «Che vuoi?»

Senza parlare, Edward lo attirò a sé e lo strinse in un abbraccio serrato finché Francis non si abbandonò completamente. «Mi dispiace» mormorò. «Giuro che non avrei voluto farti questo. E capisco se ora mi odi. Ma dobbiamo lavorare insieme, e se continuiamo così sarà un male per entrambi.»

Francis respirò contro la sua spalla, senza rispondere.

«Se non riesci a perdonarmi, almeno fingi di farlo. Sei un attore.»

«Sono uno stupido» mormorò il ragazzo. Si staccò dal suo abbraccio. «Dimentichiamo tutto, ti prego.»

Edward annuì, stancamente. «Vorrei amarti… sarebbe tutto più semplice» bisbigliò, pianissimo. L’altro non lo sentì: se n’era già andato.

Tornò sul palcoscenico, passandosi una mano sul volto. Aveva passato il resto della giornata studiando il copione, e a ragione poteva dire di conoscerlo tutto. La memoria era l’unica cosa veramente buona di lui. L’unica che gli avesse fruttato qualcosa nella vita.

Che giornata, pensò, guardando Francis che si soffermava a parlare con Richard Phillmore. L’alto commediante che aveva la parte di Mercuzio era uno dei pochi amici di Edward, contati sulle dita di una mano. Purtroppo, però, era ancor più legato a Francis, e Edward ebbe lo spiacevole presentimento che quanto era accaduto sarebbe giunto presto alle sue orecchie.

«Se avete finito di oziare, signori, è ora di cominciare le prove. Non siamo al mercato!»

Phillmore prese un pugnale di scena, uno di quelli con la lama che rientrava nell’elsa, e se lo conficcò nel cuore cacciando fuori la lingua. Francis rise. Edward si sentì un verme.

Le sue giornate erano scandite dalle prove. Era sempre stato così, da quando aveva cominciato a recitare. Sveglia, prove, pausa pranzo, prove, pausa cena, prove, a letto. Altre compagnie, che non avevano la fortuna o la disgrazia di essere gestite da Gordon Walker, dilazionavano maggiormente il lavoro per non stancare gli attori. Ma, come dire, Walker era un bastardo schiavista. Un fottuto bastardo schiavista. La prima ragione della sua fortuna era la rapidità con cui riusciva a metter su uno spettacolo. Per una compagnia, il tempo speso nelle prove era tempo bruciato – tempo in cui non si guadagnava un soldo. La gente non sborsava per vedere le prove. Walker riusciva a realizzare un ottimo spettacolo nella metà del tempo, e a guadagnarci il doppio. Un po’ come mietere il raccolto due volte l’anno, mentre gli altri stavano ancora arando il terreno.

Tutto ciò, comunque, per Edward aveva sempre avuto un’importanza marginale. Nella routine delle prove interrotta solo dagli spettacoli viveva bene, la fatica non era un problema. E negli ultimi tre anni l’unica cosa di cui aveva avuto veramente bisogno l’aveva visitato ogni notte.

Era mezzogiorno, ormai. Walker concesse loro un’ora di pausa, e tra gli attori ci fu un collettivo sospiro di sollievo. Edward non pensò neanche al pranzo. Uscì fuori dal teatro a prendere una boccata d’aria.

La neve si stava sciogliendo sotto un sole tiepido, malaticcio. Pensò che mancava poco al Natale, distrattamente, con l’attenzione minima che riservava a tutte le festività. Pensò che avrebbe volentieri scambiato la sua parte di Romeo con quella della balia, se in cambio avesse potuto rivederlo – una volta, una sola, da lontano.

Non aveva finito di pensarlo che gli parve di vedere Geoffrey passargli accanto. Scattò in piedi e afferrò il giovane per un braccio. «Geoffrey!»

«E voi chi diavolo siete?»

No, non era lui. Balbettò una scusa e si fece indietro.

Dormiva così poco… Non avrebbe retto per molto. Con un sospiro si passò le mani sulla faccia, tirando indietro i ciuffi scomposti.

«Ti senti bene, Edward?»

«No.»

Phillmore gli sedette accanto, scrutandolo.

«Ho dormito poco e male.»

«E…?»

«Nient’altro, Rick.»

Il Mercuzio dagli occhi scuri mormorò qualcosa riguardo al tempo, più uggioso che mai. «Sarà per questo che siete tutti di malumore, oggi. Francis ha il morto davanti.»

«Avrà i suoi motivi» mormorò Edward, guardando altrove.

«Lui sì, ma tu?» Gli diede di gomito. «Che ti prende? Ieri notte la fanciulla bionda ti ha lasciato in sogno?»

Si alzò. «Vado a ripassare la parte.»

 

Non era mai stato più disinteressato alla prima di uno spettacolo. Il fatto poi che fosse anche il 25 Dicembre lo lasciava del tutto indifferente. Nell’osservare dalle quinte la gente che prendeva posto in teatro, il suo pensiero era uno solo: “Non verrà”. E tuttavia non riusciva a staccarsi da quell’osservazione morbosa.

«Edward? Chi cerchi?»

Neppure si voltò. «Chi vuoi che cerchi?»

«La ragazza…? Non esiste solo nei tuoi sogni?»

«No.»

«La conosci?»

«Mi crede pazzo.»

Richard rimase un attimo in silenzio. «Forse non avresti dovuto tirar fuori tutta la storia…»

«Non importa.» Si voltò, richiudendo il lembo del sipario. «Non verrà.»

Mercuzio gli morì tra le braccia, a metà dello spettacolo, ma Giulietta rimase fino alla fine. Edward si sentiva distante, estraneo al suo stesso corpo – come se la sua anima avesse preso il posto di uno spettatore laggiù in fondo, invisibile, mentre il resto continuava ad andare avanti come al solito.

Recitò bene. Era quasi un fatto meccanico, ormai. Non si lasciava influenzare da niente, non dall’umore e a volte neanche dal malessere fisico. Ma non mise un briciolo di passione in quel che faceva finché, a metà dello spettacolo, il defunto Mercuzio lo spronò dietro le quinte: «Un po’ di vita, Edward! Sembri un cadavere messo in piedi!».

Lo guardò, offeso, prima di riconoscere a se stesso che aveva ragione. Da quel momento recuperò la verve che ci si aspetta da un Romeo alla prima dello spettacolo.

Pianse lacrime vere sulla Giulietta sbagliata, morta per finta.

 

«Aspetta.»

Lord Geoffrey Season si fermò in mezzo al teatro, infilandosi nervosamente un guanto bianco. «Magnifico spettacolo, signor Chambers» disse, continuando a voltargli le spalle.

«Posso parlarti?»

«Ho… molta fretta.»

«Solo qualche minuto.»

Il biondino si diresse verso l’uscita. Edward era stanco e sudato, e il trucco scenico sbavato ai lati degli occhi gli dava un’aria vagamente oscena, tuttavia Geoffrey parve non notarlo. «Sono felice che tu sia venuto» mormorò l’attore, le braccia immobili lungo i fianchi, le mani nervose.

«È stato un bellissimo spettacolo. Non avevo mai assistito a…»

«Credevo che non volessi più vedermi.»

Il giovane scosse la testa. «Sono stato oltremodo sgarbato, quella volta. Debbo domandarvi scusa.»

«Mi chiamo Edward.»

«Lo so…»

Gli sembrava che Geoffrey stesse tentando in tutti i modi di mantenere la conversazione su un piano neutro, impersonale, ma non era questo che lui voleva. Lo strattone al cuore che aveva sentito vedendolo tra il pubblico tornava a ogni parola.

«So che mi credi folle. Anch’io, tante volte, l’ho pensato. Ma… nessuna follia può spiegare ciò che ho visto… nessuna può spiegare te, e ciò che so di te…»

Il ragazzo inspirò, lentamente. «Se tu sei folle, forse lo sono anch’io. Da quando ti ho incontrato faccio… sogni strani.» Si passò una mano sulla fronte. «Renato…»

«Michele» mormorò Edward.

Geoffrey alzò gli occhi.

«Vorrei parlarti. Se accetti di venire a casa mia, o in qualunque altro posto tu vorrai, dove si possa stare in pace, io…»

Cadde un silenzio faticoso e imbarazzato.

«Io ti amo» concluse Edward, con un filo di voce.

Geoffrey aprì gli occhi azzurri nei suoi. Esitò solo per un attimo, poi mosse leggermente il capo in segno di assenso.

E così, per la seconda volta, lord Geoffrey Season era suo ospite.

Aveva sperato in quel momento per tre infinite settimane. Si era ripetuto in mente tutto quello che avrebbe voluto dirgli, tutto ciò che aveva visto in sogno. Avrebbe voluto parlargli della propria vita e domandargli della sua.

E invece riuscì soltanto a rimanere in silenzio, appoggiato alla porta come l’ultimo degli stupidi.

Con lentezza meticolosa, Geoffrey si sfilò i guanti e li posò sul tavolo. «L’abbiamo… l’abbiamo fatto, vero?»

«Molte volte» rispose Edward, sottovoce.

«Nei tuoi sogni…»

«Sì.»

«Io non ricordo niente di tutto questo» mormorò Geoffrey.

Edward trattenne il respiro. «Se lo desideri, posso raccontarti…»

«Sì» rispose il ragazzo, senza esitare. «Sì. Voglio sapere come…» Si interruppe e arrossì leggermente. «Insomma… in qualche modo deve essere successo.»

Edward non trovò il coraggio di sorridere, di sperare. «Lasciami solo il tempo di cambiarmi. Questi abiti di scena sono scomodi.»

Sparì nella stanza attigua, socchiudendo la porta. Geoffrey trasse un lungo sospiro. Doveva essere uscito di senno. Andare a cacciarsi in caso di un estraneo, così, senza neppure pensarci! Aveva ragione suo padre, quando gli dava dell’incosciente e dell’impulsivo. Sì. E tuttavia non si sentiva a disagio accanto all’attore dai capelli scuri e gli occhi profondi, nero pece. Avrebbe voluto toccarli, quei capelli arruffati dopo lo spettacolo, lisciare indietro le ciocche scomposte, pettinarli con le dita. Se fosse stato impulsivo come suo padre diceva, l’avrebbe fatto, no? Da quando l’aveva visto non desiderava altro. Invece si era trattenuto…

«Arrivo subito, solo un attimo» disse Edward, dall’altra stanza.

Geoffrey si alzò in piedi e si avvicinò alla porta. Non avrebbe dovuto farlo, ma… Inspirò. Lo spiraglio dischiuso tra lo stipite e la porta lasciava intravedere l’interno. Una camera da letto trasandata, un piccolo tavolino con un catino d’acqua, e al centro… Avvampò. Edward. Nudo.

Ecco il momento giusto per tornare dov’era. Mosse il piede indietro. Ma poi l’attore si chinò in avanti per raccogliere la blusa scivolatagli a terra, e un brivido lunghissimo percorse la schiena di Geoffrey fino alla nuca, dove i capelli corti fremettero e vibrarono. La sinuosa falcata della schiena, le natiche magre, le gambe ornate dal delicato rilievo dei muscoli… Edward si rialzò e volse il capo nella sua direzione. Il più giovane sbarrò gli occhi.

Rimase dov’era, la tempia appoggiata allo stipite della porta, le mani nervose contratte sulle maniche. Edward non disse niente. Si infilò lentamente la blusa, senza staccare gli occhi dai suoi, poi sempre in silenzio prese i calzoni e li indossò.

Geoffrey lo guardava inquieto: il suo sguardo percorreva il corpo dell’attore su e giù, le guance in fiamme.

Terminata la vestizione, Edward si accostò al tavolino e si lavò rapidamente la faccia, cancellando le tracce di trucco nerastro che gli segnavano gli occhi.

Il figlio di lord Season era tornato al suo posto.

«Geoffrey…»

Il ragazzo aveva in mano una delle mele posate nel cesto a centro tavola.

«No!»

Lasciò ricadere il frutto come se scottasse. «Scusa.»

Edward gli si accostò, e d’improvviso Geoffrey si sentì la vita cinta da due braccia forti. Trasalì. «Non sono buone, quelle» mormorò l’attore, le labbra a neanche un pollice dal suo orecchio.

«Perché… perché mi stai abbracciando?» soffiò il ragazzo.

«E tu perché mi stavi guardando?»

Si sentì baciare l’angolo della bocca e gli parve di scottare, una sensazione piacevolissima e intensa che si estese al viso e a tutto il corpo. Ancora imprigionato nelle braccia di Edward, si voltò per guardarlo in faccia. «Non dovremmo farlo…»

«Non sfuggirmi un’altra volta…»

Geoffrey tentò di distogliere lo sguardo. «Forse… era destino che accadesse…»

«Dimmi cosa devo fare per farti innamorare di me.»

«Non lo so» rispose Geoffrey, arrossendo. «Non ho mai fatto innamorare un uomo…»

«Hai fatto innamorare me.»

«Ma io non ho fatto niente…»

«Temo che dovrò sforzarmi più di così per conquistarti.»

La bocca del ragazzo attaccò la sua, con dolcezza, mentre le mani si aggrappavano alle sue spalle. Edward si sottomise senza un pensiero, uno solo, per la mente.

«Devo tornare a casa…»

«Basta scappare» mormorò l’attore, e l’attirò nuovamente a sé.

Geoffrey sospirò, arrendendosi suo malgrado ad appoggiare la guancia sulla sua spalla. «Non mi interessa cosa faccio nei tuoi sogni. Da sveglio è un’altra cosa.»

«E… cosa vuoi fare?»

Chiuse gli occhi, sorridendo leggermente. «Ascoltarti mentre me li racconti.»

 

Le labbra di Geoffrey si premurarono di strapparlo dolcemente al sonno. Edward emise un verso soffuso, una specie di mugolio, poi lo attirò a sé alla cieca per approfondire il contatto. Ma Geoffrey si tirò indietro, costringendo ad aprire gli occhi.

«Il vostro letto è troppo piccolo, signor Chambers. Mi avete dormito addosso per tutta la notte.»

Sorrise contro il cuscino, richiudendo le palpebre. «Vi rivelo un segreto, milord. Volete conoscerlo? L’ho fatto apposta.»

«Ho mal riposto la mia fiducia, allora.»

«A quanto pare.»

Il biondo figlio del Pari d’Inghilterra tornò al letto, che si incurvò sotto il suo peso. «È molto tardi. Dovrei andare a casa» mormorò, sfiorandogli i capelli.

«Il giorno è ancora ben lungi: fu la voce dell’usignolo, non dell’allodola, che ti ferì[3]…»

«Il tuo compagno era una Giulietta deliziosa.»

«Io pensavo solo a te.»

Geoffrey gli baciò le labbra. «Ci vedremo questa sera. Non voglio subire i rimproveri di mio padre.»

«Me lo prometti?»

«Te lo giuro.»

«Non reciterò, altrimenti.»

«Verrò… verrò a salvarti la paga» ridacchiò Geoffrey, rivestendosi in fretta. Uscì dalla porta mentre ancora Edward si riprendeva dal torpore del sonno, stordito e felice.

A stasera, pensò l’attore, mandando un bacio alla porta.[4]

 

Quella sera si diede a quella che sempre, anche dopo la sua morte, sarebbe stata ricordata come la migliore interpretazione della sua carriera. Quando baciò Giulietta – Francis gli si tese contro, rigido come una corda di violino, eppure al tempo stesso completamente abbandonato – la sala non contenne gli applausi. Il nome di Hamlet risuonò forte per il teatro, come un’invocazione. Dovettero restare così, fermi, le labbra ora disgiunte ma vicinissime, Francis leggermente inarcato indietro e le sue mani che lo stringevano alla vita, trattenendolo, finché non poterono tornare a recitare.

Forse aveva esagerato, ma Francis in quel momento – con quella riccioluta parrucca bionda e le guance arrossate dal trucco – in quel momento per lui era Giulietta, e Giulietta era Geoffrey, e Geoffrey… Geoffrey l’unica bocca che avesse mai voluto baciare e l’unico corpo che avesse mai voluto far suo. Lo lasciò andare, lentamente. Il ragazzo aveva le lacrime agli occhi.

Al termine dello spettacolo non corse giù dal palco, ma dietro le quinte, a cambiarsi. Anche se il desiderio di rivederlo gli martellava il petto, preferiva prima rendersi presentabile. Incrociò Francis mentre si spogliava degli abiti di scena. Il ragazzo non lo guardò.

Avrò tempo domani per domandargli scusa.

Raccolse la sua roba e uscì dalla porta secondaria.

Fuori il suo sogno biondo, stretto nel mantello e nei guantini bianchi, gli lanciò uno sguardo e un sorriso e si incamminò per la stessa stradina che li aveva fatti incontrare la prima notte. Edward lo raggiunse, lo sospinse in quello stesso vicoletto buio e lo baciò affamato, per dimostrargli che solo a lui aveva pensato e non ad altri, no, non ad altri.

«La mia carrozza attende qui vicino» mormorò Geoffrey, accarezzandogli il volto.

Edward gli baciò il collo. «Se è un invito, giuro di non averne mai ricevuto uno più dolce.»

«Non è un invito, signor Chambers, è un ordine.»

«Allora è giusto obbedire, milord. Sono il vostro servo, portatemi dove volete.» Arricciò uno dei suoi boccoli intorno al dito. «E fate di me quel che volete» aggiunse, sulle sue labbra.

La prima volta quel vicolo gli era parso oscuro, minaccioso, malfamato; ora gli sembrò caldo, perfino accogliente. Lo baciò di nuovo, godendosi il suo abbandono fiducioso, la morbidezza della sua carne – proprio come la ricordava, così diversa dalla magrezza legnosa di…

La prima cosa fu il dolore. Poi un lampo rosso gli balenò al cervello. Gli girarono gli occhi. Trattenne il fiato, incapace di respirare. Geoffrey gridò, forse. Aveva le orecchie ovattate. Sentì di scivolare a terra, le gambe fragili, Geoffrey… Geoffrey che non lo sosteneva più.

Il pugnale venne estratto, con una torsione che spalancò la ferita, mentre il sangue gli si allargava a ventaglio tra le scapole. Gemette, cadendo. Nella penombra riuscì appena ad appigliarsi al mantello del suo assassino, tirandolo via, scoprendogli il viso celato dal cappuccio.

Un attimo, appena in tempo per vedere il pugnale – quello stesso pugnale – completare l’opera immergendosi nel petto di Geoffrey. Edward sbarrò gli occhi, il sangue alle labbra. Il peso leggero di Geoffrey gli si accasciò addosso.

E pensò, nell’ultimo pallido momento della sua esistenza, che era davvero una bella ironia morire così, il suo unico amore tra le braccia, nel giorno della Nascita di Cristo. Come a dire, esalò, che nel nuovo ciclo della Vita del Mondo non c’era posto per loro.

Il pugnale, rosso fino all’elsa, cadde tremante sui loro corpi. «Come dice il Bardo, Edward…» mormorò Giulietta. «“L’Amore irride solo colui che non fu mai ferito dai suoi dardi[5].” Tu mi hai ferito, e non fosti gentile né cortese, nel farlo. Non ti dispiaccia se nel ripagarti mi prendo anche la tua Giulietta.»

Geoffrey si tese, nell’ultimo spasmo d’agonia.

 

Sipario.

 

Gli applausi scrosciarono come una pioggia. Dall’altra parte del telone rosso Edward Chambers si alzò, spolverandosi gli abiti, e tese la mano a Lord Geoffrey Season. L’assassino, Francis Danton, contemplò la scena con un sorriso. L’adrenalina andava scemando, ma restava ancora la parte migliore.

Un Mercuzio-regista raccolse gli attori in semicerchio, prima di dar ordine di tirar via il sipario. Li presentò, uno ad uno, mentre raccoglievano i meritati applausi.

«E infine, ultimi ma non ultimi… Geoffrey Season, Michele Rinaldi, e Edward Chambers, Renato De Luca!»

L’attore Edward, o Renato, avvicinò amorevolmente il viso a quello di Michele. Sorrise. «Buon Natale, Geoffrey.»

«Ehi, guarda che la recita è finita…»

«Allora buon Natale, Michele.»

Il sipario si chiuse di gran carriera sulle loro lingue che si intrecciavano.

 

 

~ Fine ~

 

 

 


[1] Com’è noto, nel 17esimo secolo alle donne era proibito esibirsi nei teatri.

[2] Tutti personaggi shakespeariani, rispettivamente: “Romeo e Giulietta”, “Il mercante di Venezia”, “Sogno di una notte di mezza estate”.

[3] Romeo e Giulietta, Act. III Sc. V.

[4] Se vi state chiedendo se Edward e Geoffrey abbiano “consumato”, mi dispiace, ma non lo saprete mai. Così come in Romeo e Giulietta, lo spazio è aperto a ogni interpretazione del lettore. Se volete pensare a una casta notte trascorsa l’uno tra le braccia dell’altro, non sarò certo io a vietarvelo…

[5] Romeo e Giulietta, Act. II Sc. II

  
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