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Autore: Mizar19    24/10/2011    9 recensioni
Dedicato al mio primo amore.
[...] Non lo compresi immediatamente, ma avevi calcolato tutto. Non è troppo difficile capire come mi sento, cosa provo, basta guardarmi negli occhi, che tutti ritengono troppo sinceri. Hai visto lì dentro che ero innamorata di te, come una bambina. Quell’amore era innocente, Tracy, un limpido segno sul grande foglio della mia insicurezza, che tu hai sbavato creando un’impronta digitale d’imperfezione. Sarebbe lentamente sbiadita assieme al tuo ricordo. Sai che non ricordo nemmeno il tuo cognome? L’unica cosa che ricordo perfettamente è lo scintillio del metallo sui tuoi denti. Era la luce dei lampioni alle nostre spalle, catturata tra le tue labbra quando ti voltavi di profilo per ridere nella mia direzione. [...]
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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No, non porto rancore, Tracy. Questa è per te.
 

 
*
 

You had my heart inside of your hand
And you played it to the beat.[1]

 
 
 

SCINTILLIO
 

 
Non ti avevo mai vista prima perché tu eri solita frequentare quella località di mare nel mese di agosto, io in luglio. Per uno scarto di pochi giorni ci siamo incontrate solamente nel 2007.
Ci stringemmo la mano davanti al campo sportivo e subito il tuo sorriso scatenò qualcosa dentro di me. Avevo quindici anni, Tracy, e tu eri candida e bellissima. Parevi emersa da una rivista di modelle sapientemente ritoccate al computer: i capelli tagliati appena sotto le spalle, morbidi come il miele e della stessa consistenza, gli occhi verdi che sulla spiaggia intrappolavano il mare e cambiavano colore, e quel naso sottile, aristocratico, che armonizzava con eleganza i tuoi lineamenti. Poi sorridevi e il tuo apparecchio fisso rifletteva la luce del pallido sole d’aprile. Quelle stelline di metallo sui denti erano l’unico indizio che ti agganciava inevitabilmente ai tuoi sedici anni.
Eri appena più bassa di me, eppure mi sembravi enorme. La tua presenza si espandeva, avvolgendomi. Catturavi la luce, gli sguardi e i sorrisi.
La prima cosa che mi disse Prisca, che ti conosceva piuttosto bene, fu “Non affezionarti a lei, non farci amicizia, non parlare nemmeno... è una troia”. Avrei dovuto ascoltarla? No, i miei quindici anni non avvertirono nessun campanello d’allarme, nessuna tempesta in arrivo. Ero innamorata.
Cosa avesse fatto Tracy per meritarsi quell’appellativo lo scoprii più tardi: il ragazzo di Prisca l’aveva baciata pochi mesi prima, e lei non aveva intenzione di perdonare nessuno dei due. Nemmeno dopo aver scoperto questo riuscii a vedere in te qualcosa di malvagio. Non era possibile, doveva esserci senz’altro uno sbaglio.
Ero insicura, timida, e mi piacevi da morire. Mai, per nessun’altra dopo di te, ho provato un’attrazione così forte e così istantanea sin dal primo momento, nemmeno per la persona con cui ho condiviso tutto per due anni e mezzo. Tracy, avevi qualcosa di speciale che ora hai perso. Ma io avevo quindici anni e non potevo saperlo.
Quella prima sera assieme abbiamo parlato. Mi hai ascoltata sproloquiare di arte, pittura, e parevi così interessata che ho blaterato per ore. Non mi hai fatto pesare i tuoi sedici anni, sei stata gentile, mi hai trattata come una coetanea. Tu frequentavi la scuola per parrucchiere e mi hai detto che adoravi i miei capelli.
«Dovresti farli crescere», mi avevi detto sfiorando le bionde punte sfrangiate che appena si appoggiavano alle spalle.
«Li ho tagliati la scorsa estate, prima mi arrivavano al sedere...»
Allora mi hai parlato di capelli, del fatto che avresti voluto aprire un salone di bellezza e avere così tanti specchi che i locali sarebbero parsi due. Ti piaceva il loro colore, la loro consistenza, poterli modellare a tuo piacimento per far risaltare la bellezza delle persone.
Eri così strana, Tracy. Le parole di Prisca parevano prive di senso: come potevi tu - quella dolce e ingenua ragazza con l’apparecchio ai denti - esserti comportata in modo tanto irrispettoso e volgare? Non lo credevo possibile, non lo credevo in assoluto.
Ovviamente Tracy non era il tuo vero nome, ma tutti ti chiamavano in quel modo. Tu ti facevi chiamare in quel modo.
«Perché proprio Tracy?»
Non mi hai mai voluto rispondere.
La tua voce era pacata, melodiosa, non subiva bruschi sbalzi né verso l’alto, né verso il basso, ma manteneva un affascinante equilibrio sonoro, cosicché quando aprivi bocca per parlare tutti erano costretti ad ascoltarti. Specialmente io pendevo dalle tue labbra, adorante, in perenne attesa.
Attendevo che tu mi guardassi, che mi toccassi le braccia, che mi abbracciassi.
Erano le vacanze di Pasqua, Tracy, e dopo una settimana esatta sei finalmente giunta da me nel modo che tanto speravo ma che in cuor mio supponevo irrealizzabile.
Non ricordo l’argomento di conversazione, forse i computer, forse le vacanze estive, davvero non lo ricordo. Però rimanemmo indietro, staccate dal resto gruppo.
Talvolta mi domando quanta consapevolezza ci fosse stata in quell’allontanamento.
«Andiamo a sederci in spiaggia?», ridacchiavi e ti strofinavi le mani, come infreddolita. Il tuo sorriso era obliquo, ebbro. Non lo compresi immediatamente, ma avevi calcolato tutto. Non è troppo difficile capire come mi sento, cosa provo, basta guardarmi negli occhi, che tutti ritengono troppo sinceri. Hai visto lì dentro che ero innamorata di te, come una bambina. Quell’amore era innocente, Tracy, un limpido segno sul grande foglio della mia insicurezza, che tu hai sbavato creando un’impronta digitale d’imperfezione. Sarebbe lentamente sbiadita assieme al tuo ricordo. Sai che non ricordo nemmeno il tuo cognome? L’unica cosa che ricordo perfettamente è lo scintillio del metallo sui tuoi denti. Era la luce dei lampioni alle nostre spalle, catturata tra le tue labbra quando ti voltavi di profilo per ridere nella mia direzione.
Avevi sedici anni ed uno sguardo da bambina che per nulla ti si addiceva, ma è facile indovinarlo con il senno di poi. In quel momento, sedute sulla spiaggia sassosa a gambe incrociate, accarezzate con insistenza dal vento proveniente dal mare e investite dal suo odore salmastro, pensavo che tu fossi perfetta, forse un angelo. Ero stupida, non mi si può biasimare.
«Ho freddo», avevi mormorato rannicchiandoti su te stessa.
Ti ho offerto di entrare assieme a me nella mia felpa. Il battito galoppante del mio cuore che si dimenava tra le costole produceva un ritmo agitato, inquieto, che strideva con il placido risciacquo dell’onda sulla battigia.
Mi sono tolta l’indumento, l’ho allargato sulle nostre spalle come una coperta. Quando ti sei accoccolata contro di me ho odorato il profumo dei tuoi capelli. Era delizioso, pulito, non riuscivo a distinguere un aroma particolare ma mi solleticava come solo il tè verde in seguito ha potuto fare. Poi hai alzato gli occhi verdi, che nella notte d’aprile erano diventati grigio scuro. Sulle tue labbra inumidite dal burrocacao si disegnava orizzontalmente un’ombra di stelle. Sottili, rosa. Avevo quindici anni, ma sapevo che volevo baciarti. E tu sapevi che io lo volevo, perché sei stata tu a baciarmi per prima.
Il mio primo, vero bacio.
Con Milena era stato diverso. Stavamo assieme? Non stavamo assieme? Avevamo quattordici anni, eravamo migliori amiche dalla prima elementari ed eravamo confuse, così confuse che lei ha approfittato di me, strappandomi qualche bacio. Era stato un semplice premere di labbra, per poi allontanarmi definitivamente struggendosi per un insignificante bulletto con più boccoli biondi che umanità.
No, l’amore limpido che avevo provato per Milena era una crisalide ingenua, nulla paragonato a cosa stava scatenando dentro di me quel semplice contatto di labbra. Timidamente mi hai posato una mano sulla spalla e ti sei posta in una condizione di passività. Avevi un anno in più di me, mi aspettavo che saresti stata tu a dirmi cosa fare e invece ti rimettevi nelle mie mani.
Le nostre guance si erano accese di porpora, mentre i nostri nasi si sfioravano teneramente. La tua bocca era morbida, nonostante potessi avvertire di tanto in tanto il graffiare del metallo che ti coronava i denti.
Ti posai una mano sul fianco, esitante. Cosa dovevo fare? Non ne ero del tutto certa, ma tu hai preso la mia mano e l’hai posata sul tuo seno. Ero trasalita, quasi spaventata che fosse accaduto davvero. Ti sfiorai timorosa, con cautela, come se pensassi di non esserne capace. Come se ci fosse una regola per fare le cose giuste.
Avevo quindici anni, Tracy, non mi stancherò mai di dirtelo perché forse tu non hai capito quanto sei stata ingiusta. Ti sei fatta toccare, baciare quella prima sera sotto le stelle e anche le altre a venire.
Davanti agli altri, come d’accordo, si fingeva che nulla fosse vero. Attendevo con ansia che la giornata trascorresse e che il sole disegnasse il suo percorso nel cielo, fino a spegnersi dietro le montagne. In quel momento sapevo che era la nostra ora.
Era quasi divertente, provocatorio, mentire agli altri.
«Andiamo a fare due chiacchiere per conto nostro, forse andiamo alla croce...»
La scusa dell’ultima sera, Tracy, l’avevi inventata tu. Deboluccia, ma nessuno aveva nulla da obiettare. Tutti quanti si erano convinti che fossimo diventate ottime amiche, ma appena loro sparivano tra le palme del lungomare io ti baciavo.
Siamo scese alla spiaggia, quella spiaggia libera che aveva una conformazione particolare tale che potevamo nasconderci dagli sguardi curiosi dietro ad una duna sabbiosa nei pressi degli scogli.
Era la nostra ultima sera, lo sapevamo entrambe, e tu hai voluto che io ti toccassi. Non ti importava che fossimo su una spiaggia, esposte nel caso in cui qualcuno avesse deciso di concedersi una passeggiata.
Forse la buona sorte, o la cattiva a seconda dei punti di vista, ci assistette perché nemmeno un’anima si fece viva quella notte.
Mi baciasti più desiderosa delle volte precedenti, volevi che mi coricassi sopra di te, volevi che io ti dessi piacere.
«Non è... presto?»
Avevo quindici anni, Tracy, non hai compreso la mia paura di correre troppo rapidamente, o forse te ne sei disinteressata e basta.
In quel momento ho fatto la scelta più intelligente di tutta la mia adolescenza: non farmi toccare da te, anche se lo desideravo più di ogni cosa. Non ti ho permesso di sfiorarmi se non sopra la patta dei jeans. Ero agitata, Tracy, e tu non l’hai capito, mi hai solo messa nella condizione di amarti pretendo una risposta positiva alle tue richieste.
Ho fatto tutto quello che volevi, tutto quello che mi chiedevi. Sentivo che ti piaceva, sentivo che ti trattenevi e mi faceva sentire bene. Ti stavo amando ed era una sensazione dolce e prepotente allo stesso tempo. Ma non ti ho permesso di ricambiare quell’amore. Hai insistito per toccarmi, l’hai fatto ma sempre bloccata dalle mie restrizioni. Non ti sei lamentata troppo mentre amavi me in maniera così limitata. Ed io di sicuro non ho rimpianti.
Ci siamo abbracciate sotto le stelle, gli occhi al cielo e le orecchie al mare, le nostre teste coronate da sassi umidi. Eravamo parte di quella natura, sublimate nell’odore delle alghe e dell’acqua salata, la pelle viscida e i capelli pieni di sabbia. Sentivamo della musica provenire da lontano, ovattata, attutita dal rumore del mare. Talvolta alcuni schizzi di un gelido ed intrepido maroso infrantosi sugli scogli ci raggiungevano. Non ce ne siamo lamentate.
Abbiamo fatto una promessa, Tracy, ma tu l’hai dimenticata dopo meno di due mesi, quando eravamo lontane, tu in città ed io in paese. Il mio telefono aveva trillato, illuminandosi, per annunciarmi l’arrivo di un messaggio.
Non hai nemmeno avuto il coraggio di rispondere ad una delle mie telefonate.
Ero curiosa. Volevo provare. Non sono lesbica. Grazie.
Ogni parola che leggevo era una ferita, uno strappo, e la fiducia concessa tradita senza possibilità di ritorno. Ti sei rivelata solo dietro quelle fredde e cattive parole, solo in quel momento ho visto la vera Tracy: una ragazza che per divertirsi aveva bisogno di sfruttare e calpestare qualcuno, di fare nuove esperienze. Dopo di me hai perseverato in questo tuo atteggiamento con una notevole serie di ragazzi che, uno dopo l’altro, hanno ceduto al tuo fascino di bambina innocente. Ma tu eri consapevole all’eccesso.
Ti ho rivista due anni fa, di sfuggita, e nulla si è mosso dentro di me. Eri così diversa, così cresciuta. Così adulta. La tua innocenza è sfiorita dietro l’abbronzatura artificiale e i capelli tinti. Anche i tuoi occhi erano diversi, annegati in una pozza di eyeliner sbavato. Prisca ci ha introdotte nuovamente, probabilmente scordandosi di ciò che era capitato due anni prima.
Mi hai salutata appena, sforzandoti di stringermi la mano.
Dietro le tue labbra, i denti perfettamente dritti erano stati privati dell’apparecchio e dal tuo sorriso di cortesia non irradiava alcuno scintillio.



[1] Trad: avevi il mio cuore in mano e hai giocato con il suo battito (Rolling in the deep - Adele)
 
   
 
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