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Autore: Faust_Lee_Gahan    31/10/2011    3 recensioni
Le pareti bianche di un ospedale.
Post 'The Great Game'.
[Sherlock/John]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Lestrade , Mycroft Holmes , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Titolo: White walls

Summary: Pareti bianche di un ospedale.

Pairing: Sherlock/John

Words: 4526

Rating: Arancione (perché, gente, è troppo triste)

Disclaimers: Well, well... here we are again. Non miei. Però, cavolo, che pesantezza! >_>

Notes: Ultimamente mi riesce solo roba cupa e triste... Ci dovremmo forse preoccupare? Post TGG. Ispirato alla 3x17 di Grey's Anatomy.

Tiè tiè. Il massimo della tristezza.



White Walls


Like I said, disappearances happen.

Pains go phantom.

Blood stops running.

And people... People fade away.”

(Grey's Anatomy)



La parete dell'ospedale era bianca. Insopportabilmente bianca. Sherlock avrebbe voluto disegnarci sopra una faccina sorridente e sparare. Questa volta per frustrazione.

Il silenzio era dello stesso colore. Insopportabile silenzio bianco.

Impensabile dopo quel botto. Non avrebbe mai immaginato che ci sarebbe stato tale silenzio nella sua vita, di nuovo.

Era seduto nel corridoio, le mani piene di fasce e cerotti in tasca, fissava il vuoto.

Aveva nel suo campo visivo Lestrade che camminava inquieto, in silenzio - anche se il suo aveva il rumore bianco dei pensieri – oltre a una serie di medici, infermieri, chirurghi e inservienti che passavano, incuranti del fatto che il mondo, ovviamente, si era fermato.

Perché John Watson lottava tra la vita e la morte: come poteva il mondo restare indifferente?

Quando aveva aperto gli occhi, dopo l'esplosione, l'aveva cercato con lo sguardo attorno a lui. La piscina, aveva realizzato poco dopo. Aveva strisciato – la gamba era bloccata e non riusciva a muoverla bene – fino al bordo. Aveva urlato qualcosa, e senza neanche sapere come, si era buttato in acqua. Lo aveva trovato subito, perché per fortuna non erano nel Tamigi e la piscina non era così profonda. Aiutandosi con il braccio libero e la gamba buona, lo aveva riportato all'asciutto. Una volta fuori, gli aveva preso la testa fra le mani e aveva urlato ancora. Aveva urlato finché Lestrade non l'aveva portato via di peso, per lasciare fare ai paramedici il loro lavoro.



John aprì gli occhi e cominciò a tossire. Cristo, tutta quell'acqua nei polmoni!

Si mise seduto, tornando a respirare normalmente. Stranamente non si sentiva acciaccato. Eppure era sopravvissuto ad un'esplosione.

Si stropicciò gli occhi. «Sherlock!» chiamò. Si guardò intorno, e capì di essere a casa sua, nella sua stanza. Ma non era possibile. Dopo un'esplosione del genere, era una specie di miracolo che fossero vivi e incolumi.

Entrambi.

«Sherlock!» urlò, alzandosi dal suo letto e scendendo le scale come un forsennato, logorato dal dubbio.

Sulla soglia della sua camera, si bloccò.

La figura che vide non era Sherlock. Non gli somigliava nemmeno vagamente.



Lestrade gli lanciava ogni tanto occhiate pensierose e preoccupate, come se volesse accertarsi della sua permanenza su quella sedia.

Aveva tentato di estorcere qualche tipo di informazione, una parola, un cenno. Niente.

«Sherlock, quanto tempo è stato in acqua?»

«Non lo so! Non lo so! Lasciami andare!»

Aveva protestato. Aveva urlato. Aveva persino scalciato.

E poi, una volta afferrato il concetto che non poteva stare accanto a John mentre lo rianimavano, e di certo non poteva rianimarlo lui, si era seduto ed era stato zitto.

Sherlock notò un movimento strano da parte dell'ispettore e seguì il suo sguardo per capire cosa lo preoccupasse tanto.

Alla sua destra vide Mycroft percorrere il corridoio.

«Sherlock...» mormorò Lestrade in tono d'avvertimento

Ma lui si era già alzato e si era avviato a passi grandi e rabbiosi verso il fratello.

«Che ci fai qui?» sibilò incazzato

Mycroft sospirò. «John è anche amico mio, Sherlock.»

«No, ti sbagli. Se lo fosse stato davvero avresti mandato i tuoi uomini in tempo!»

«Sherlock...»

«Il mio amico è in quella stanza che sta rischiando la vita. E se morirà sarà colpa tua. Sarà colpa tua!»

«Adesso smettila.»

«Altrimenti che fai? Lo dici alla Regina?»

«Basta, Sherlock!» li interruppe Lestrade «Voi due dovreste essere una famiglia.»

«Lui non ha mai avuto una famiglia, Gregory.» disse Mycroft «Lui è sempre stato solo.»

«Ti sbagli, Mycroft. Io non sono più solo.»



«Professore?»

Quello che stava nel salotto del 221B era un uomo tarchiato, sulla sessantina, quasi del tutto calvo, con gli occhiali rotondi e l'aria bonaria. (1)

«John. Sei cresciuto.» disse sorridendogli.

«Professore, ma lei...»

«Sì, lo so. Sono morto. Anni fa. E non sono il solo.» aggiunse indicando un punto imprecisato dietro di lui.

John si voltò e vide qualcun altro che gli sorrideva.

«Joe!»

Aveva i capelli corti e indossava una divisa militare, la stessa che indossava John quando era in Afghanistan.

«Amico, ti chiederei come stai ma sarebbe inutile.»

John li guardò entrambi.

«Quindi, io sono... morto?»



«Perché l'hai trattato in quel modo?» chiese Lestrade.

«Se lo meritava.» mormorò Sherlock

L'ispettore sospirò distogliendo lo sguardo da lui e puntandolo su qualcun altro che si stava avvicinando.

Corse incontro al dottore, il camice bianco come il silenzio, e Sherlock lo seguì.

«Non va bene...»

«Come sta? E' ancora cianotico? Qual era la temperatura iniziale? Ma quanto ci vuole?»

«Mr Holmes. Non va bene.» ripeté il dottore interrompendolo «Stanno facendo il possibile. Forse dovreste... prepararvi al peggio.»

Un silenzio tombale accolse la notizia, e, mentre Lestrade si passava una mano in faccia, lui decise che non era una risposta sufficiente.

«Sì, ma qual è la situazione? Insomma, che stanno facendo di possibile lì dentro?»

«Adesso la temperatura è a trenta gradi. Stiamo cercando di alzarla per riattivare il cuore.»

«Il cuore... significa che non c'è reattività? Neanche una fibrillazione?»

«Stiamo facendo il possibile, mr Holmes.» disse ancora una volta «Mi scusi, devo tornare dentro.» aggiunse e se ne andò.

Sherlock lo guardò allontanarsi ed ebbe voglia di urlare. Invece stette fermo, immobile, e in silenzio, e lasciò che fossero le sue viscere ad urlare.

Tutto quello che riuscì a fare fu scuotere la testa, sotto gli occhi allibiti di Lestrade.

«No.»

«Come?»

«No. Io non mi preparo, al peggio.»

«Sherlock...»

«Non ho intenzione di arrendermi. E neanche John lo farà. Lui sopravviverà e basta.»

Fece dietrofront, ignorando Lestrade che lo chiamava e gli chiedeva dove diavolo stesse andando.



John era seduto sul divano e guardava prima l'uno e poi l'altro.

Il suo vecchio professore di Scienze, che era stato un vero e proprio mentore per lui, era morto al suo penultimo anno. Per lui era stato come perdere un padre.

Joe era stato un suo compagno d'armi. Una bomba se l'era portato via e lui non aveva potuto fare niente.

In entrambi i casi si era sentito debole e impotente.

«E' terrorizzato.»

«Non è terrorizzato.»

«Sì che lo è. Chiunque lo sarebbe.»

«Beh, lui no. Siamo stati in Afghanistan insieme. Non ha paura di niente, il dottor Watson.»

«Scusate.» li interruppe «Io avrei alcune domande.»

Il professore lo guardò sorridente. «Chiedi pure, Watson.»

«Innanzitutto, vorrei sapere dov'è Sherlock. Lui non...»

«No, sta bene. Non preoccuparti.»

John annuì rincuorato. «Bene. E... questo... voi due, siete un effetto della cheta-mina e dei neurotrasmettitori, vero?»

I due si guardarono e scossero la testa.

«Perché se è il mio cervello, senza offesa, il primo che vorrei rivedere è-»

Non ebbe bisogno di dire altro che un bulldog gli saltò in braccio facendogli le feste.

«Gladstone!» (2)

Il suo vecchio cane scodinzolava frenetico in cerca di coccole. Era morto mentre lui era al college e non aveva mai potuto dirgli veramente addio.

«John, ehm... Sei affogato nella piscina dopo l'esplosione, ricordi?» fece il suo insegnante

«Sì, che schifo.» rispose lui senza badargli «Chi è il cane più bello del mondo, eh?» aggiunse accarezzando Gladstone.

«Ci vorrà un po' di tempo...» commentò sottovoce il prof.

«Non ha molto tempo.» disse Joe



Le pareti della casa erano del solito colore. Ma a Sherlock sembravano spoglie. Vuote, silenziose. Bianche.

Perché era tornato lì? Forse per avvertire ancora la presenza della sua persona.

Sherlock si guardò intorno. Tutto era decisamente troppo in ordine.

Cominciò a buttare tutti i libri per terra. Poi i soprammobili. Un paio si ruppero. Prese la pistola e la puntò al muro.

«Sherlock.»

Si voltò. Era Mrs Hudson.

«Cerca di non rompere tutto. Al dottore potrebbe dispiacere.» disse con voce flebile e triste.

Sherlock annuì. Era vero. A John sarebbe dispiaciuto tornare a casa e trovarla un casino.

Posò la pistola sul tavolino e piano raccolse i libri da terra. Forse quelle pareti non sarebbero state bianche per sempre.

Entrò nella stanza di John e aprì il cassetto dove lui teneva i maglioni. Prese quello a righe e lo strinse. Il profumo di John lo invase e, mai come in quel momento, seppe di essere perduto senza il suo blogger.



«John. John!»

Lui alzò lo sguardo da Gladstone e, sedutagli accanto, John vide una ragazzina dai lunghi capelli rosso fiamma che lo scrutava. Riconobbe subito anche lei.

«Bonnie! Bonnie Baxter! Cosa ci fai qui?» (3)

«Ti ricordi di me? Com'è possibile?» sorrise lei

«Eri una paziente molto importante per lui.» disse Joe

Bonnie era stata la prima paziente che aveva perso, mentre era tirocinante in ospedale. Una brutta storia. Era giovane, bella, e avrebbe dovuto sposarsi di lì a poco. E invece era morta.

«Ma mi spiegate perché siete tutti qui?»

«Sei stato tu a chiamarci, John.» rispose Joe

«Cosa? No, non è vero. Io-»

«Cos'è successo in acqua, John?» chiese il professore.



Sherlock ripercorreva il corridoio, in ospedale, avanti e indietro, facendo girare gli occhi a Harry.

Non aveva avuto il coraggio di chiamarla lui, così l'aveva fatto Lestrade e lei si era precipitata. Era distrutta. Sherlock lo vedeva dai capelli raccolti male, dallo sguardo spento e dai vestiti poco curati.

«Potresti smetterla, per favore?» sbottò lei

«Non riesco a stare fermo!» disse lui «E' là dentro da... non so neanche quanto tempo.»

«Adesso quelli si stanno occupando del mio fratellino.» disse lei pensierosa «Non ti tranquillizza neanche un po'?»

«Mi fa solo infuriare di più. Ecco perché vado avanti e indietro!»

Lei fece una mezza risata che gli ricordò un po' John.

«Voglio raccontarti una cosa.» disse alzando lo sguardo «Però devi sederti.»



«Gladstone, dove sei?»

John non riusciva più a trovare il suo cane e lo stava cercando dappertutto.

«John, smettila di fare così. Non c'è tempo.» insisteva il suo insegnante «Tu non hai tempo, e nemmeno noi.»

«Signore, con tutto il rispetto, sono solo annegato.» disse

Era vero, non gli sembrava un così grande problema. Era morto, e allora?

«John, per favore ci devi ascoltare!» lo sgridò Bonnie. Poi si bloccò e la sua pancia cominciò a sanguinare. «Oh no...»

Cadde a terra tremando e John la soccorse. Era proprio così che era morta. Le scoprì la pancia e le sue mani furono invase dal suo sangue. «Non riesco a trovare l'origine dell'emorragia!»

«Succederà ancora John.» disse Joe «E' già successo.»

«No! Io posso salvarla! Posso farlo!»

Le mani toccarono qualcosa di freddo. Il pavimento. Bonnie era sparita e le sue mani non erano più sporche di sangue. Si guardò intorno. Tutti erano spariti.

«John.»

Alzò lo sguardo verso la voce amica del suo mentore.

«Cos'è successo?»



«Perché non torni a casa, Harry?»

«E la storia?» disse lei

«Me la puoi raccontare quando torni.»

«Non sei curioso?»

«Posso aspettare.» (4)

Lei si alzò. Sembrava stanchissima. «Se ci sono novità...»

«Ti avviso subito.»

Harry annuì e si avviò per il corridoio. Prima di uscire si fermò e si voltò verso di lui.

«E smettila di logorarti l'anima. Tu non c'entri niente.» disse e se ne andò.

Dall'altro lato, Sherlock sentì il passo di Lestrade che aveva portato due caffè. Non era molto, e di certo lui non aveva bisogno di quello per essere sveglio.

«Ancora niente?» chiese il DI

«No.»

«Cazzo.»

Sherlock guardò il maglione che si era portato appresso.

«Lestrade. Credo di aver omesso un particolare con Harry Watson.»



«Quindi potete comparire e scomparire a vostro piacimento! Giusto per farmi confondere di più le idee!» esclamò John

«Cos'è successo in acqua, John?» insisteva il prof.

«Cosa vuole che sia successo? Sono affogato! Tutto qui!»

«Sei tu che insisti col dire che sei affogato.» intervenne Joe «Secondo te perché siamo qui? E da quando hai cominciato ad arrenderti così facilmente? Non ricordi com'eri in Afghanistan?»

«L'Afghanistan non c'entra niente. E poi tu credi che mi vada di stare qui?» ribatté John piccato «Ho lottato. Ho nuotato. L'acqua era ghiacciata. L'edificio era esploso. Io ero ferito.»

«Se ripenso alla tua reputazione al liceo...» ricordò il professore «Ancora prima di entrarci già ti conoscevano tutti come “il fratellino di Harrieth Watson”!»

«Questa cosa non riguarda Harrieth Watson.»

«Però riguarda Sherlock Holmes.»

John lo guardò sconvolto. «E lei come- Oddio, non importa! Non voglio saperlo!»

«John, so che hai passato delle cose orribili, ma io non ti ho insegnato ad essere un medico con così poco rispetto per la vita! Quindi smettila di essere contento di essere morto e ascoltami!»

John non sentiva quel tono serio e amareggiato da quando aveva diciassette anni e si sentì di nuovo un ragazzino.

«Dicci cos'è successo in acqua.»



«Sherlock, cos'è che non hai detto alla sorella di John?»

Lui sospirò. «E' colpa mia.» sussurrò

«Cosa?»

«E' colpa mia.» ripeté «Niente di tutto questo sarebbe successo se non fosse stato per me.»

«Che dici?»

«Non sarebbe mai dovuto venire a vivere con me. Non avrebbe mai dovuto conoscermi. Non sarebbe mai stato coinvolto in tutto questo. Moriarty... La mafia cinese...»

«Adesso calmati. Tu non hai costretto nessuno a fare niente. E' sempre stata una sua scelta.»

«Vivere con me è impossibile... Ci stavamo allontanando... Dovevo capirlo...»

«Adesso mi spieghi cosa c'entra questo? Capire cosa?»

«Lui sa nuotare.»

Lestrade si fermò e lo guardò, gli occhi spalancati.

«Cosa?» ripeté

«Lui sa nuotare.» sibilò ancora Sherlock, come se avesse confessato il peggiore dei crimini. «Nuota molto bene.»

Finalmente Lestrade comprese, e lasciò che l'orrore gli invadesse la mente e il corpo.

«Tu... Tu credi che si sia lasciato affogare?»

Sherlock non rispose, ma si alzò e distolse lo sguardo.

«E' questo che non hai detto a Harry? Credi che suo fratello abbia tentato il suicidio?»

Non riusciva neanche a concepire una cosa del genere. Il dottore non avrebbe mai...

«E' colpa mia, ha ragione Mycroft...» mormorò Sherlock, come se avesse preso atto di qualcosa. E sarebbe stato difficile fargli cambiare idea, impresa nella quale riusciva solo una persona, la stessa per cui i medici stavano facendo il possibile.

Adesso era Sherlock che stava affogando e lui non aveva intenzione di permetterglielo.

«No, non ha ragione Mycroft! Ascolta.» Lo prese per le spalle, costringendolo a guardarlo «Non devi perdere la lucidità. Non adesso. Devi restare calmo e riflettere. Non puoi permetterti di mollare ora! Non puoi pensare che davvero lui-»

«E perché no?» disse con rabbia

«John non avrebbe mai, e ripeto mai, fatto una cosa del genere, e tu dovresti saperlo meglio di me! Hai capito, Sherlock? Mai!»




John era seduto per terra, con le spalle al divano, lo sguardo timoroso di chi ha qualcosa da nascondere, e il suo vecchio professore di fronte a lui.

«Io stavo nuotando.» raccontò sottovoce «Io stavo lottando. Davvero. E l'acqua era davvero ghiacciata. E in effetti, ero ferito. Poi, ho visto...»

Il suo mentore annuì, incitandolo a continuare.

«Ho visto Sherlock. Era piano di sangue. Io... ho avuto paura. E giuro che volevo continuare a nuotare, a lottare, ma ho pensato, solo per un secondo... A che scopo? E ho mollato. Ho smesso di lottare.»

Sopirò coprendosi il viso con le mani, vergognandosi profondamente. «Non lo dica a nessuno, signore.»

«Non ne avevo intenzione, John.»

«A scuola avevano torto. Io non sono mai stato “il fratellino di Harrieth Watson”.» disse «Io non sono forte come lei.»

«Non sai quanto ti sbagli, John. La verità è che hai paura. Per questo vuoi restare qui.»

«Io non voglio!» ribatté

«Sì, invece. E' più facile. Però non puoi.»

«Signore, non riesco a capire... Io non sono così importante, ci sono milioni di John Watson al mondo... A che scopo

«Vuoi sapere da me per quale scopo dovresti vivere, John? Non posso certo dirtelo io!»

«Lei ha sempre avuto risposte per tutto.» sentenziò grave «Se non lo sa lei, vuol dire che non esiste.»

Era vero. Era sempre stato così. Il suo vecchio professore non era stato solo un uomo dalla vastissima cultura, ma anche un ottimo insegnante, perché riusciva a fare in modo che rispondessi da solo alle tue domande, proteggendoti dalle insidie delle risposte sbagliate con un sorriso paterno e mai denigratorio.

«Ti ringrazio per la fiducia, John.» disse lui

Si sporse verso di lui, e lo scrutò a fondo, al di sopra degli occhiali rotondi, come era solito fare da vivo, e John seppe che stava per subire lo stesso trattamento che riceveva quando gli rivolgeva delle domande dall'aria incomprensibile.

«Ti dico un'altra cosa, invece. Ti dirò perché non puoi restare qui, che è un po' diverso.»

John non fece in tempo a controbattere che lui cominciò a elencare, con un tono che non ammetteva repliche.

«Non puoi perché Sherlock ha bisogno di te. Ha bisogno di te, solo di te, perché tu sei l'unica persona al mondo che può stargli vicino. Perché suo padre si è tolto la vita quando era un adolescente, e tu sei l'unico contatto su cui Mycroft può fare affidamento per avere sue notizie. E Harry? Harry è così fragile e vulnerabile, e tu sei il suo solo punto di riferimento. Lestrade? Senza di te, non potrebbe nemmeno più avvicinarsi a Sherlock, perché sarà così cambiato che smetterà persino di indagare. Sopravvivono tutti a stento, John. E la tua morte li annienterà!»

John ritrasse le ginocchia al petto e vi appoggiò la fronte, sentendosi di nuovo il liceale timido e insicuro che era stato. Che era ancora.

«Sto facendo un casino, eh?»

«Sei solo confuso.»

«Perché io? Perché non qualcun altro? Perché tutte queste responsabilità, tutte su di me?» gridò John, disperato

«Perché qualcun altro non va bene. Dici che esistono milioni di John Watson al mondo. Fidati: ne esiste un solo uno, per queste persone.»

Calò un silenzio. Il silenzio bianco dei pensieri. All'improvviso, il suo vecchio insegnante chiuse gli occhi e sorrise.

«Cosa c'è, signore?»

«Mia moglie.»

«Riesce a vederla?»

«No, ma a volte siamo nello stesso posto nello stesso momento. Riesco quasi a sentire la sua voce. E' come se la toccassi. Mi piace credere che lei mi senta lì.» Aprì gli occhi e lo guardò. «E' questo che avrai, John. Momenti. Pochi momenti con le persone che ami. Loro andranno avanti e tu vorrai che vadano avanti. Però, John, è l'unica cosa che avrai.»

«Signore... Sta succedendo davvero? O è solo nella mia testa?»

«Questo non significa che non stia succedendo davvero.» (5)

Un battito di ciglia e sparì. In un attimo attorno a lui cominciò a scorrere acqua e John ricordò.

Stava nuotando. Stava lottando. L'acqua era ghiacciata. Gli bruciava dappertutto. Risalì e vide Sherlock non molto lontano dal bordo. Era a terra, pieno di sangue. Affondò di nuovo. Sapeva che doveva risalire, o almeno provarci. Ma... Era sparito. Sentì le forze che gli mancavano, e si abbandonò alla corrente. L'acqua s'infilò nelle narici e poi nei polmoni. Stava...

John si alzò di scatto. No. Non sarebbe morto. Non oggi.



Sherlock teneva la testa poggiata al vetro. Intravedeva delle figure affaccendarsi intorno a quello che probabilmente era John.

«Io non sono mai stato bravo a prendermi cura delle persone.» disse «Non sono mai stato in grado di far crescere una pianta, figuriamoci! Io so vedere se le persone mentono, so carpire la vita di una persona soltanto guardandola. So risolvere crimini così velocemente da rendere inutile tutta Scotland Yard.»

Lestrade annuì, consapevole.

«Però, non sono capace di prendermene cura. E non sono stato capace di salvare John. Né di prendermi cura di lui.»

«Sherlock, sei umano. Non potevi fare niente più di quanto-»

«Ha ragione Mycroft.» lo interruppe cupo «Io sono sempre stato solo. E dovrei rimanerci.»

«Sherlock...»

Lui non gli badò, e gli passò davanti. Ma stavolta Lestrade non si fece fregare. Si alzò e gli prese un braccio.

«Sherlock. Dove stai andando?»

«Non posso stare qui.» disse atono «Lasciami!»

Liberò il braccio e sparì oltre il muro bianco, portandosi dietro il maglione a righe.



«Devo tornare indietro!» urlò John

«Te l'avevamo detto che non c'era molto tempo.» disse Joe

«Non ho più tempo?!»

No, no, no! Per favore, no!

«Beh...» esitò Bonnie guardando gli altri due «Non ne siamo sicuri...»

«Oddio!»

John cominciò ad andare nel panico. Sentì l'aria che gli mancava. L'asma... quando era piccolo...

«Io... Io avevo dei problemi... Avevo dei problemi con Sherlock, con mia sorella...»

«Già.» annuì il vecchio professore

«Non sapete quanto mi sembrino stupidi adesso!»

«Lo so.» annuì il suo vecchio compagno d'armi

«Non mi basta qualche momento con Sherlock! O con Harry!» realizzò, sputandolo fuori con quel poco fiato che gli rimaneva in corpo «Io devo tornare indietro!»



Sherlock era seduto in silenzio al tavolo davanti la finestra, da Angelo. Il loro solito tavolo.

Angelo doveva aver intuito che qualcosa non andava, vedendolo arrivare senza John, ma solo con una sua maglietta.

Non c'era nessuna candela romantica stavolta.

«Sapevo che ti avrei trovato qui.»

Sherlock si voltò, anche se aveva riconosciuto la voce.

«Che cosa vuoi, Mycroft?»

«Voglio sapere perché non sei in ospedale. Con John.»

«Dovresti conoscermi, Mycroft. Io prendo le distanze.»

«Non con John. Hai una responsabilità verso di lui.»

«Bella responsabilità.»

«Hai due possibilità.» disse il più grande sedendosi «Puoi stare qui a compiangerti per quello che hai fatto o non fatto per lui, oppure muovere il tuo deretano senza considerazione ed essere lì con lui, qualsiasi cosa accada.»

«Io non ce la faccio, Mycroft!» sibilò Sherlock tra i denti «Non posso, non posso tornare lì e vederlo mentre...»

«Non stiamo parlando di te. Stiamo parlando di John, l'uomo che tu asserisci essere la tua persona, e se tu stai seduto qui mentre lui muore so per certo che non ti riprenderesti mai. Per una volta nella vita, Sherlock, ascoltami. Vieni a dire addio alla tua persona.»

Mycroft si alzò senza aspettare risposta e se ne andò.



«Non... non riesco a respirare...» boccheggiò John

«Succede sempre, all'inizio. Passerà.» disse Joe

«Lascia andare, John.» mormorò Bonnie «Lascia andare.»



«A che temperatura siamo?»

«Trentasei gradi, capo.»

«Quindi è caldo.»

«Sì, capo...»

«Il pacemaker esterno?»

«Non è efficace.»

«E' morto.»



«Non respiro. E' l'asma. Quando ero piccolo, io...»

Sentiva i polmoni che si accartocciavano. L'aria striminzita. La gola che gli bruciava e lo strozzava.

«E' troppo tardi, John.»

«Non voglio... Non voglio!»



La porta della sala si aprì.

«Mr Holmes...»

«Chi l'ha fatto entrare?»

Lestrade lo seguì, ma lui non ci badò. Per la prima volta dopo ore – giorni, settimane, mesi, forse anni – riuscì a vederlo bene.

Il suo amico era steso, un tubo nella gola, e altri sparsi un po' ovunque, pallido come non l'aveva mai visto.

Due macchine attaccate a lui sentenziavano il suo fatale ritardo.



John si fermò. Sentì qualcosa.

Una sensazione piacevole.

Era la prima da quando si era svegliato. E non ebbe più bisogno di respirare.



Lestrade sulla soglia non sapeva cosa fare.

Sherlock lo guardava in silenzio. Un silenzio che nella sua bocca faceva paura. Si avvicinò a John, colmo di una sensazione che non riusciva a trovare nome.

Abbassò lo sguardo, appoggiò il maglione sulla coperta e gli prese i piedi.



John chiuse gli occhi. Sorrise suo malgrado. Diede un nome a quella sensazione.

«John, cosa succede?»

Era la voce del suo insegnante, ma non si fece distrarre.

«E' Sherlock. E' qui, con me. Riesco quasi a sentire la sua voce.»



«Provate ancora.»

I chirurghi lo guardavano e guardavano Lestrade, che non sapeva cosa fare o dire.

Sherlock lo sapeva. Sapeva che John non poteva essere morto. Non poteva morire.

Non doveva.



«E' come se lo toccassi.»



«Provate ancora!» gridò

«Fate come dice.» ordinò l'ispettore, forse l'ordine migliore che potesse dare in tutta la sua carriera.



John aprì gli occhi, e seppe cosa doveva fare.

Sott'occhio, vide un'ombra nella cucina. Si diresse verso la stanza ed era lì. L'ultima persona che si aspettava di vedere.

«Papà.» (6)



«Somministriamo un altro giro completo.» disse il dottore, quello con cui avevano parlato prima «L'ultimo.»

«Non t'azzardare a morire.» sussurrò Sherlock stringendo la presa.



Suo padre lo guardava, come non l'aveva mai guardato, seduto al tavolo.

Se lo ricordava poco. Non ricordava che avesse i capelli castano scuro, i baffi e gli occhi color miele come quelli di Harry, anche se avevano la dolcezza dei suoi.

«Tu non dovresti essere qui.» disse lui, con una voce che gli tornò familiare.

«Neanche tu.» rispose incerto.

«Io sono qui per te.»

Si alzò e lo abbracciò. Non l'aveva mai fatto. Non che lui ricordasse.

«Vai avanti così. Stai andando bene.»

Lo lasciò andare e John seppe esattamente dove.

Diede un ultimo sguardo ai suoi fantasmi, consapevole che non l'avrebbero lasciato mai, che lo guardavano benevoli e gli sorridevano.

«Corri, Watson.» gli disse il suo professore

E fu quello che John fece. Corse giù per i gradini del 221B, Baker Street, e spalancò la porta, immergendosi in un bianco totale e meraviglioso.



La macchina a cui era attaccato John cambiò musica.

Quel rumore continuo diventò intermittente.

«Bradicardia sinusale!» esclamò un chirurgo

«Abbiamo un battito?» chiese il capo

Un altro lo auscultò, e annuì. «Lo abbiamo.» confermò

Lestrade buttò fuori tutta l'aria trattenuta e sorridendo si avvicinò a Sherlock, tenendogli la spalla.

«E' vivo! E' vivo!»

Sherlock non poté fare a meno di sorridere.

«Vado ad avvisare Harry.» disse il DI e uscì, felice e sollevato come mai in vita sua.

I dottori tolsero i vari tubi dal corpo di John, compreso quello per respirare.

Respirava da solo.

«Capo, è passato molto tempo, abbiamo funzionalità celebrale?» s'informò uno di loro

«Non ancora...Ma ormai non mi stupisco più di niente.»

I medici uscirono, non senza prima aver lanciato un'occhiata a Sherlock, come per vedere quale trucco nascondeva.

Lui non lo lasciò e rimase lì a fissarlo per una manciata di minuti.

«Mhn... uhm...»

Era John. Era stato lui.

Si avvicinò immediatamente e alzò le mani, quasi a incorniciargli il viso.

«Hai detto qualcosa? Per caso hai parlato?» sussurrò

«Mngh...»

«John... John, non capisco. Riprova.»

Voleva toccarlo, ma aveva paura. Sembrava così fragile. Era ancora pallido. Bianco.

Il suo amico mosse un altro po' le labbra ma non ne uscì alcun suono.

«Cosa? Io non...»

Sherlock si sentì di nuovo sperso, il panico che gli inondava le vene. L'acqua nei polmoni, e si sentiva affogare.

Fece leva su se stesso per non perdere ancora la lucidità. Gli era capitato troppe volte nelle ultime ore. Ma adesso basta. Chiuse gli occhi e riprese fiato, le labbra strette in un moto di rabbia. Prese la testa di John tra le mani.

«Il tuo cervello funziona.» disse fermo «Tutto quello che devi fare è comporre una parola. Fallo, John. Ti prego.»

Le labbra del dottore si schiusero per un breve momento.

«Ouch...»

Aveva sussurrato. Aveva parlato. E come se non bastasse,lentamente, molto lentamente, il suo amico aprì gli occhi.

Sherlock sentì che sarebbe potuto scoppiare dalla felicità. Spalancò gli occhi e la bocca, non sapendo bene cosa dire. Semplicemente sorridendo come un ebete.

«John... Io...» balbettò «Io ho rotto un soprammobile. Quello che ci aveva regalato Mycroft. Non che questo debba essere uno dei tuoi pensieri principali, ma te lo dico nel caso poi cada nel dimenticatoio.»

John aveva continuato a guardarlo – l'aveva messo a fuoco! - e piano piano aveva sorriso.

«Tu sei l'unica persona a cui volevo dirlo.» mormorò, non riuscendo a staccargli gli occhi da dosso. Si abbassò finché non appoggiò la sua fronte contro quella di John. «Grazie per non essere morto.»

Le pareti non erano più bianche. Erano azzurre. Come gli occhi aperti di John.

Non sarebbero state bianche per un bel pezzo.




Notes, again.

Allora, niente. Angst. Direi che è tutto dire.

Guardatevi la 3x17 di Grey's Anatomy e capirete. Ho una serie di precisazioni da fare.

Innanzitutto vorrei dire che ci ho buttato il sangue su questa, quindi andateci piano.

Il nucleo principale della storia nasce di questi tempi un anno fa, circa. Poi l'ho ripreso in tempi recenti e l'ho integrato con un'altra idea che mi era venuta guardando la puntata suddetta. Mi spiegherò meglio più avanti. Inoltre volevo precisare che inizialmente non volevo metterla post-esplosione/annegamento/ospedale/whateverhappensafterTGG, ma poi ci ho ripensato. Capita.

Cominciamo: (1) Lui è la ragione di tutto. E' il motivo per cui volevo pubblicarlo in tempi stretti e per cui ho lavorato tanto. La data era 11/10 e il motivo era poco piacevole. Vedete, il mentore di John è una persona realmente esistita. Si chiamava Professore Modesto Sasso, ed era il mio insegnante di Letteratura Greca. Lo è stato fino al mio penultimo anno. Se l'ho messo lì ci sarà una ragione, no? (2) Questo meraviglioso esserino non credo di dover spiegare chi sia! Lo conosciamo tutti, e mi sembrava doveroso metterlo qui! Dà un tono puccioso alla fanfic! (3) Bonnie è il nome della paziente di Meredith, ma la descrizione è quella dell'attrice omonima che interpreta Ginny nei film di Harry Potter. Baxter è il nome del cane del Dr Kelso in Scrubs e davvero non so perché mi sia venuto in mente! Inoltre volevo usare questo spazietto per parlare di Joe, il terzo fantasma. Che nome dimmerda è Joe, direte voi? La verità è che stavo ascoltando Hey Joe di Jimi e quindi l'ho usato! (4) La storia che Harry vuole raccontare non me la sono persa per strada, come potrebbe sembrare. E' solo che ho ritenuto giusto tenerla dove avevo già predisposto fosse, ossia in un'altra faccenduola, dove si charirà anche il riferimento al “fratellino di Harrieth Watson”. Pazientate, gente. Pazientate. (5) Citazione spudorata delle ultime due battute di un dialogo tra Harry e Silente nell'ultimo libro. Non ho avuto modo di controllarla ma più o meno dovrebbe essere così. (6) Eccolo là. Papà Watson. Meredith vede la madre che sta morendo, ma vabbeh troppa sadness se gli ammazzavo pure la mamma! E che è! E' chiaro che lui non se lo ricorda quasi per niente, e questo è dovuto alla mia piccola teoria sui papà dei nostri eroi... Esatto, anche per questo dovrete pazientare un po'. Perché sono una stronza.

I pezzi tecnico-medici li ho ripresi proprio pari pari, perché non avevo idea di che diamine stessero parlando. Altre cose ci stavano bene, mi sembravano IC, e le ho lasciate. Erano belle cose da dire.

La citazione iniziale è della 3x16.

Grazie a rosmy90 perché ha betato (come al solito!), e insistito affinché non tenessi questa cosa solo per me, come volevo inizialmente fare. C'è molto di me qui dentro. Moltissimo.

A Meredith. E' la mia persona. ♥

A Modesto.


  
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