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Autore: stephany    05/07/2006    2 recensioni
"Assapora la vita pienamente. Ogni giorno ridi, piangi e innamorati, perchè non puoi sapere quando sarà l'ultimo."
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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[Nda: è nata per un concorso, ma non l'ho presentata. Cis ono dei punti che non mi piacciono per niente, ma in sè mi soddisfa! Mi appello al vostro giudizio! ^_^]

New York,
24 dicembre 2003

Ciao. Chissà se ti ricordi di me?
Io mi ricordo tutti di te: eri sempre seduta a quel banco, sempre china sul tuo quaderno a scrivere, prendere appunti, studiare.
Avevi la mania dei tuoi capelli; dei tuoi meravigliosi capelli. Nella tua borsa non mancava mai una spazzola e ogni qualvolta ti si presentava l’occasione cominciavi a pettinarti.
E io ti osservavo. Guardavo rapito i pettini di quell’oggetto di legno che scivolavano lentamente in quel mare di seta nera.
Lucidi e docili, gli intrecci di quella preziosissima stoffa si districavano, lanciavano bagliori nel mio cuore e imprigionavano i più piccoli cristalli di luce di quella piccola stanza buia e spoglia.
Era una stanza indegna di averti.
Tu saresti dovuta stare su un trono rosso vestita d’abiti meravigliosi e lussureggianti; in un castello grande e splendido. Ma probabilmente, nemmeno quello sarebbe stato alla tua altezza.
Ancora adesso credo che non esista un luogo che possa raggiungere la tua bellezza.
Ma di quella piccola stanza, tu eri il sole.
Ricordo il tuo sorriso incorniciato da due labbra morbide e naturali, coperte da un sottile strato di burrocacao. I tuoi occhi scuri incorniciati in quel tuo viso aristocratico, sempre bellissimo. Le tue ciglia lunghe e nere con quel velo di mascara che le rendeva ancor più incantevoli.
Avrei voluto baciare quei tuoi occhi, quelle tue labbra morbidissime così simili ai petali di rose.
Avrei voluto stringerti a me e sussurrarti le parole più dolci.
Come facevi ad essere così splendida? Non eri minimamente volgare come invece erano molte di quelle tue amiche che ti stavano attorno saltellando. Ti riunivi con loro in un angolo e ridevi felice, bellissima come sempre.
Come ti distinguevi in quella massa informe di ragazzine uguali! Com’eri meravigliosa con quella tua risata piena, che scuoteva la pece dei tuoi capelli!
Ricordo che ascoltavate sempre qualche CD durante quei pochi minuti d’intervallo. Tu, capricciosa, chiedevi sempre la stessa, una canzone che adoravi, brasiliana. Me la ricordo esattamente; seduta al tuo banco con quei tuoi capelli lucidi e lunghi che ricadevano morbidi sul foglio, la intonavi sempre. E la tua voce mi raggiungeva ogni volta. Mi piangeva il cuore a sentire quella tua voce perfetta che emetteva suoni meravigliosi.
Dicevi di voler diventare una cantante. Lo dicevi con quel tuo sorriso, strano ed ambiguo che io adoravo. Volevi diventare un’attrice, volevi essere la prima donna della nostra politica, volevi diventare medico, avvocato, ballerina. Volevi girare il mondo, trovare l’uomo perfetto e vivere con lui per sempre, senza mai rinunciare a te stessa.
Ma tu eri una poetessa.
Mi capitava di leggere i tuoi appunti, alle volte.
Ricordo che quando me li prestasti per un’interrogazione imminente, vidi una frase scarabocchiata in un angolo del foglio. Era una frase semplice, ma quanto mi ha insegnato della vita! Ricordo che c’era scritto questo:

Assapora la vita pienamente. Tutti i giorni ridi, piangi e innamorati, perché non puoi sapere quando sarà l’ultimo

Da quel giorno utilizzai quella frase come filosofia di vita. Ridevo, piangevo e m’innamoravo tutti i giorni, ma di te. Tu che non mi negavi mai un favore, un sorriso.
Un giorno di pioggia. Tu avevi dimenticato a casa l’ombrello. Mi ero offerto di accompagnarti, non potevo pensarti sotto la pioggia, mentre i tuoi capelli stupendi si bagnavano.
Avevi accettato, come sempre. E non so come, sotto il tuo portone, io avevo baciato quelle tue labbra meravigliose e morbidissime, le avevo assaporate fino all’ultimo. Tu mi avevi stretto forte, piangendo. Io avevo circondato le tue piccole spalle tremanti con le mie braccia e ti avevo sussurrato, dolcemente:
Assapora la vita pienamente. Tutti i giorni ridi, piangi e innamorati, perché non puoi sapere quando sarà l’ultimo”.
Ti avevo alzato il viso con l’indice e fra quei cristalli che rotolavano giù per le tue guance, le tue labbra si erano incurvate in un meraviglioso sorriso che io ti avevo rubato. E lo conservo ancora.
Finalmente ti avevo presa e non ti avrei più lasciata. Il nodo del nostro rapporto era grande e saldo.
Quanto mi piaceva sentire la tua testa sul mio petto nelle sere d’inverno e accarezzarti i capelli!
La sera del 23 dicembre del nostro terzo anno insieme, sdraiati nel letto del nostro appartamento, ti eri appoggiata nell’incavo della mia spalla e mi avevi regalato un bacio piccolo e leggero.
Avevamo appena fatto l’amore.
Con gli occhi chiusi e con voce assonnata avevi sussurrato piano, simile ad un ruscello:
“Sei tu l’uomo perfetto…”.
Avevo sorriso beato, dandoti un bacio sui capelli neri che mi solleticavano il petto, mentre tu ti addormentavi.
E quel 24 dicembre del 1999, dopo tre anni della nostra relazione, tu mi avevi detto che uscivi a comprare le ultime cose per quella sera. Ti avevo pregata scherzando di non andartene, ma tu, baciandomi leggera, eri uscita di casa sorridendomi.
E poi, verso le sette di sera, quella telefonata che slegò per sempre il nodo del nostro rapporto.
Mi ero vestito veloce ed ero uscita di casa correndo, senza nemmeno preoccuparmi di chiudere la porta a chiave.
Il cuore mi batteva troppo forte, sembrava quasi volesse sfondare la cassa toracica.
Avevo raggiunto finalmente quella strada bloccata, le luci dell’ambulanza e della polizia. Tu eri ancora stesa a terra.
I miei piedi erano incollati al terreno bagnato. Facendomi forza, piano piano mi ero avvicinato ai medici imbacuccati d’imbarazzo. Ma a metà strada ero stato fermato da un poliziotto che mi urlava che non potevo passare.
“Sono il fidanzato, maledizione!” avevo gridato fuori di me dal dolore, mentre senza volerlo una lacrima rovente mi aveva corroso la guancia e l’anima.
L’uomo che mi bloccava si era ritratto improvvisamente, comprensivo e spaventato.
Ero corso verso il tuo corpo, mentre la neve gelata cominciava a scendere piccata e impertinente.
Voleva ricoprirti, voleva rubarmi quella tua bellezza per sempre.
Fra le lacrime mi ero levato il giubbotto e te lo avevo poggiato addosso. Non volevo che la neve ti portasse via.
I curiosi intorno a me sussurravano parole consolatorie. Erano parole inutili, che mi scivolavano addosso. Pensavo solo a piangere sul tuo corpo ormai privo di vita, mentre passavo le mie dita gelide fra i fili dei tuoi capelli. Lentamente la lucidità della tua seta nera si spegneva. E ti spegnevi anche tu.
I medici non sapevano cosa fare, non avevano nemmeno il coraggio di coricarti in ambulanza.
Mi ero alzato, mentre dai miei occhi sgorgavano lacrime impastate di neve che si confondevano con altre lacrime.
Avevo urlato ai dottori di portarti in ospedale, ma uno mi aveva afferrato da dietro e con solo due parole aveva distrutto il mio cuore in minuscoli aghi ghiacciati:
“E’ morta”.
Erano seguite le solite frasi di condoglianze, una serie di “Mi dispiace” inutili e senza senso. A cosa serve dire mi dispiace? Come si può dire di essere dispiaciuti, se non si è mai conosciuta quella persona? Se non si è mai provato un dolore simile?
Attraverso le lacrime avevo visto un uomo che parlava sconvolto di fianco ad un agente. Mi ero avvicinato e gli avevo sferrato un pugno in pieno stomaco.
L’uomo non aveva detto niente, si era limitato ad abbassare lo sguardo. Un poliziotto mi aveva tenuto da dietro, cercando di calmarmi.
L’uomo di fronte a me aveva sussurrato parole di scuse. Io gli avevo vomitato addosso tutti gli insulti che ero riuscito a trovare. Avevo bisogno di gridare la mia rabbia, il mio dolore a qualcuno.
Mi ero accasciato nella stretta del poliziotto, ero scivolato per terra, nel pantano che era quella strada.
Avevo pianto senza fine in quel teatro allestito con sangue, luci rosse lampeggianti e ferro fumante. Non avevo nemmeno il coraggio di guardarti. Il sangue oramai rappreso aveva impastato i tuoi capelli un tempo così lucidi.
Perché sei svanita così? Perché proprio tu, così limpida e meravigliosa com’eri? Tu sempre così disponibile con tutti, perché sei svanita prima di me? Perché non ti ho trattenuto nella nostra casa?

Tu non c’eri più.
Il giorno dopo, la mattina di Natale, ero seduto sul letto fissando il vuoto nero di fronte a me. Sicuramente faceva freddo, ma non riuscivo a percepire nulla.
Quante telefonate di condoglianze quella mattina. Non ero riuscito a parlare, avevo la bocca impastata; avevo balbettato qualche grazie strascicato, ma nient’altro. E io che ancora non riuscivo a crederci. Gli squilli infiniti del telefono continuavano a riportare a galla la tua morte.
Ecco. Io ti paragono ancora alla ragazza di quella canzone che tanto ti piaceva: “The girl from Ipanema”.
Il ritmo lento e delicato e le parole meravigliose che descrivono una bellissima ragazza alta e magra, giovane e adorabile. E il ragazzo che la guarda la vede triste, non riesce a dichiararle il suo amore.
Ma tu, a differenza di quella ragazza, mentre camminavi sulla riva del mare, la spuma delle onde ti ha inghiottita.

Ora vedo la tua lapide su un prato verde. Indisturbata, troneggia quella tua frase: “Assapora la vita pienamente. Tutti i giorni ridi, piangi e innamorati, perché non puoi sapere quando sarà l’ultimo”.

E sotto, a destra: “The girl from Ipanema”.
  
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