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Autore: CaskaLangley    06/11/2011    11 recensioni
“Comunque vada, Erik, non posso pentirmi di averti incontrato. Sono felice che tu mi sia capitato.” [raccolta di flashfics Erik/Charles]
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note preliminari (incoerenti) dell'autrice: allora, sì, durante la Notte Bianca di Maridichallenge è successo qualcosa di strano, tanto per cambiare. Sta volta, essendomi concessa di distrarmi dal romanzo per circa dodici ore, sono partita allo sbaraglio e così, for the lulz, ho acchiappato un prompt su First Class. Ecco, non so come sia successo, ma non sono più riuscita a fermarmi. Sono stata trollata e mi sono auto-trollata per due giorni, non potete capire XD ma alla fine mi sono divertita, e ho ceduto al potere del Cherik. Come se fosse evitabile, visto che il mio ragazzo mi ha praticamente ordinato di shipparli. Insomma, eccole tutte qui. Spero che vi piacciano <3

 

#1; Il posto vuoto accanto a me

Charles non si lamenta. Ha visto, nella mente degli uomini, ogni genere di sofferenza. Il dolore, che piega, distrugge, drena all’interno, finché non rimane più niente, nemmeno il dolore stesso, solo la sua forma, scavata al posto delle ossa. Il dolore che genera l’odio. Il dolore che ha visto nei suoi ragazzi, emarginati, costretti a nascondersi, a vergognarsi di qualcosa che non hanno scelto e che non possono cambiare. Il dolore che ha visto in Erik.
No, Charles non si lamenta. E’ stato tutto sommato fortunato. Non può camminare, ma – si dice – in fin dei conti non è male, e lui non è mai stato un tipo attivo. Non fisicamente, almeno. E poi prova ancora una sorta di pace. La realtà lo sfiora, non lo tange, non lo afferra. E’ come se stesse aspettando di svegliarsi. Come se alla sua mente quasi onnisciente fosse sfuggito il dettaglio di sé. Charles è convinto che incontrerà ancora se stesso. Da qualche parte. Domani.
A volte sale sul terrazzo. Ha fatto installare un ascensore che emette il suono di un soffio: ffffffh. Quel suono lo attraversa e per un attimo c’è soltanto silenzio. Poi la sua mente si apre di nuovo, non riesce a bloccarla. E’ come una stiva e imbarca acqua. Affonda.
Così tanta gente, pensa, e sentirsi così soli.
Non lo dirà. Non ha detto mai niente, per molto tempo. Finché…finché.
Basterà a se stesso. Smetterà di tendersi verso quel posto vuoto accanto a sé.
Guarda verso l’antenna. E’ ancora girata. Il sole sembra scivolarle sopra in gocce.
Smetterà, sì. Non adesso, non qui. Da qualche parte. Domani.
Charles non si lamenta.

#2; Numeri e dita sulla pelle

Non li avrebbe mai lasciati a nessun altro. I suoi numeri sulla pelle, che lo attraversavano e lo facevano ancora a pezzi. Aveva provato a ignorarli. Non ci era riuscito e si era trasformato in essi. Erik aveva il potere, ma quei numeri ne avevano di più. E c’erano catene che nemmeno lui riusciva a controllare.
Charles lo guardava dal basso, a sottintendere qualcosa. Un cono d’ombra dava più profondità al suo viso. Non parlava, ma rideva, e aspettava. Erik s’innervosiva. E’ come dicono i tuoi cazzo di filosofi, diceva, non puoi combattere i mostri senza diventare un mostro tu stesso. Sì, rispondeva lui, è molto comodo, non credi? E sorrideva. E ad Erik non importava più di avere o no ragione.
Gli aveva lasciato i suoi numeri. Charles poteva toccarli, passarci le dita. A volte Erik non lo sopportava. Su una parte sensibile, la stessa pressione può cambiare da gradevole a sgradevole senza preavviso. A volte lo odiava. Chi sei tu, voleva urlare, per accendere la luce, chi sei per circondarmi di specchi dai quali non posso scappare, chi sei per scomporre le righe, e confondermi, chi sei per cambiarmi di significato. Lui forse lo leggeva, o forse solo lo capiva. Chiudeva la porta.
A Charles piaceva dare scacco matto e mangiare la Regina tutta intera.

 

#3; Piacevole rompicapo

Erik non tollerava di essere in svantaggio. Aveva già provato quella sensazione – metallica, come il sangue, o una moneta sulla lingua. Certe notti si svegliava e ed era ancora lì, un’ombra silente contro il muro, un peso che lo soffocava. Restava seduto, in silenzio, a riprendere fiato, e giurava: non sarebbe più successo.
Poi aveva incontrato Charles Xavier. Una lotta impari, se era concesso dirlo.
“Ognuno ha le sue armi” aveva detto “E, tu, Erik, non hai ancora imparato ad usare le tue.”
Lui aveva sorriso, e gli aveva afferrato i fianchi. Il sole calava e si apriva come un ventaglio sulla stanza. “Qualcosa ho imparato, invece, che le armi posso anche lasciarle in un cassetto, in qualche caso. Indovina chi me l’ha insegnato.”
“Qualcuno che sa quello che dice” aveva risposto Charles. E poi non aveva più parlato.
C’era questo fatto, certo, camminavano su un asse sbilanciato. Erik non l’avrebbe mai capito quanto Charles capiva lui. Questo non gli piaceva e faceva domande, come su suo padre, su sua madre, sul suo cocktail preferito e la sua prima cotta, però non bastava. Charles poteva accedere alle sensazioni, anche alle più private – l’effetto che gli faceva il suo accento, le sue labbra sotto le dita, o i suoi morsi.
“Non vedo niente” giurava “Diciamo che ti conservo come un piacevole rompicapo”, però ogni tanto rideva, poi lo negava. Ed Erik si chiedeva perché, perché, proprio un maledetto telepate.

 

#4; What am I supposed to do when the best part of me was always you?

Succedeva senza che lo decidessero. Non poteva essere in nessun altro modo.
Di solito era nel giardino della villa. Erik scivolava come un’ombra sulla ghiaia, che sotto i suoi piedi era come bicchieri rotti e fragilissimi. L’elmo sotto braccio, i suoi pensieri lo chiamavano. Non che servisse. Spesso Charles era già lì, sulla sua sedia, il mostro meccanico che lo teneva imprigionato. Erik voleva distruggerla. Era l’esperto, lui, nel distruggere il sintomo, e mai la causa.
“Che strana quiete” rise “li hai sedati?”
“Non ho nessun bisogno di sedarli, sono stanchi. Non serve un telepate per capire quando e se una battaglia è prossima.”
“Non serve un telepate, già. Nemmeno il migliore del mondo.”
Charles tirò un sorriso, nascosto nella virgola di una fossetta. “Così dicono.”
Erik non si avvicinava. L’avevano deciso senza dire una parola. Gli sguardi, tra loro, pesavano ancora, avevano una consistenza. Scivolavano sulla sua schiena uguali a un cubetto di ghiaccio. Indossò l’elmo.
“Mi dispiace” disse. Per la milionesima volta. E Charles fece ancora la stessa domanda: “Per cosa?”
“Non lo so.” Una pausa. “Di esserti capitato.”
“Comunque vada, Erik, non posso pentirmi di averti incontrato. Sono felice che tu mi sia capitato.”
Si girò. La sedia emise un ronzio, schiacciava la ghiaia.
“Non credere che mi sia arreso, ti sto ancora cercando. Cerco la parte migliore di te.”
Erik trattenne una risata. Non serve che la cerchi, tu la vedi, e la vedo anch’io. E’ sempre bella, anche adesso. Ed è spezzata. Sono come Lady Macbeth, non so se posso lavare l’odore del sangue. Se potrei riavere quei momenti, “ti perdono” per dire “mi manchi”, “ti prego” per dire…per dire.
E’ già troppo tardi.
“C’è una sola parte di me” disse. “Un giorno capirai.”
“No” rispose Charles “Non lo farò.”
Testardo, fino in fondo.
“Ti perdono”, “mi manchi”. Parole che non lo raggiungevano. Mise le mani sull’elmo, per aprire un varco, lasciarle entrare, ma poi si fermò.
Testardo, fino in fondo. Erano testardi tutti e due.
Rimase lì ancora un po’, in un silenzio ostinato. Poi si allontanò lungo la strada secondaria.

 

#5; Una strada deserta e una macchia sull'asfalto

Charles era davanti a lui, di certo immerso in qualche pensiero. La strada era deserta, scaldata dal sole. Stava seguendo qualcosa, una delle voci – lo chiamavano, diceva. Erik non vedeva nient’altro che campi, alberi secchi come le mani di un vecchio e la sua ombra, che si allungava sull’asfalto. In fondo, pensava, Charles era questo, uno che guardava troppo in là. Anche dentro di lui. Non gli bastava che tentasse, pretendeva il meglio. Era difficile tenere il passo.
Charles si fermò, all’improvviso. Erik lo raggiunse. Stava guardando una macchia, lì, proprio in mezzo alla strada dove non sembrava passasse nessuno. Si era annerita per il calore, e puzzava. Budella fuse col cemento, e sangue. Charles si chinò.
“Un cane” disse Erik “O un gatto. Dubito che fosse lui a chiamarti.”
Charles non rispose. Fissava la macchia e basta.
Erik si sentì a disagio, chissà per quale motivo. Continuò: “Cosa pensi di fare, dargli l’estremo saluto?”
“L’hanno lasciato qui. Vedi?” indicò “Si vedono i peli attaccati. Dev’essere rimasto sotto il sole per ore, prima che qualcuno togliesse di mezzo il corpo.”
“Sì, beh. Che schifo. Non ho capito, è una metafora che non ho colto o stiamo davvero parlando di un cane?”
“Pensavo semplicemente che c’è anche gente così, che abbandona gli altri senza pensarci.”
Erik tirò un sorriso, e si mise le mani in tasca.
“Persone come me.”
Charles si girò. Lo guardò con gli occhi socchiusi, abbagliati dal sole.
“Non ho detto questo.”
“Ma l’ho detto io. E’ vero, Charles, lo faccio. L’ho fatto e continuo a farlo.”
“No, non lo fai. Ti conosco. Con me non l’hai fatto.”
Erik scosse le spalle.
“Proprio perché mi conosci dovresti sapere ch tu non fai testo. Qualsiasi cosa decida di fare con gli altri, non abbandonerei te.”
Charles si alzò. Sorrise, come se quella e nessun’altra fosse la risposta giusta, e annuendo gli mise una mano sulla spalla.
“Ottima risposta, Erik, te la sei studiata?”
“Sono bravo a improvvisare, Charles, ormai dovresti saperlo.”
“Lo so fin troppo bene.”
“Non è mai troppo.”
Si fissarono, per un lungo momento, poi risero. Ripresero a camminare.

 

#6; Been dazed and confused for so long it's not true

Lo attraversa come uno sparo. Gli taglia le gambe, blocca le giunture. Ha i polsi segnati dal filo spinato. Charles può inghiottirlo intero.
Erik si sdraia e lo trascina su di sé. Ha sottovalutato, pensa, quel che può capire con le gambe. Le loro quattro gambe. Un incastro di ginocchia, cose, polpacci. Infinite combinazioni.
“Riesco a sentire quando stai per arrivare nella stanza” aveva detto. Si teneva una mano sul labbro. Charles l’aveva morso, e sanguinava.
“Si chiama magnetismo, Erik. Dovresti saperlo.”
Charles lo ingloba, lo traduce. Decodifica i segnali dall’interno. “Non mi serve questo” si diverte a dire “se ho voglia di fotterti”. A ognuno il suo, pensa Erik, e lui lo capisce. Poi lo spinge sulle ginocchia e lo piega come il metallo.
Non posso restare sempre così, pensa, meravigliato e confuso. All’inizio diceva “Non succederà più”, ma non era mai serio. Charles è pieno di trucchi – ma può gestirlo. Ne ha imparati alcuni anche lui. Sa che deve imbrigliarlo, che deve fermarsi appena prima di spezzarlo. Sa che c’è la miccia, in lui, e dove trovarla. All’esterno è calmo, ma in realtà è di un materiale incandescente. Erik è dentro di lui, ma in realtà sono uno nell’altro.
“Perché mi fissi?” gli chiede.
“Perché non capita spesso di vedere occhi così”.
Erik ride, e scuote la testa. “Lo fai apposta” gli dice.
“A fare che cosa?”
Non gli risponde. Non posso restare sempre così, pensa. O forse sì.

 

#7; Fluff

“C’è qualcosa che non vuoi che sappia?”
Erik stava per addormentarsi. La voce di Charles gli giunse come parte dei suoi sogni, con un suono caldo e un po’ troppo rassicurante. Rispose contro la sua testa, senza aprire gli occhi: “Ho fatto cilecca, la prima volta.” Charles rise. Rise anche lui, svegliandosi del tutto. “Avevo quattordici anni” si giustificò “L’ansia da prestazione e tutto il resto.”
Charles si mosse sul suo braccio. Ci appoggiò sopra la bocca.
“Se me l’hai detto, non t’importa che lo sappia.”
“Come se facesse differenza, quello che voglio o non voglio che tu sappia.”
“Questo non è giusto. Non ti leggo se non vuoi, lo sai.”
“Lo fai senza rendertene conto. E’ il tuo potere.”
“Riesco a controllarlo.”
“Non quel tipo di potere.”
Charles si alzò sui gomiti. Sembrava che avesse davvero l’intenzione di parlare. Erik si mise una mano in faccia, sperando che lo lasciasse stare.
“Dico sul serio, c’è qualcosa che non vuoi che sappia?”
“Certo, è ovvio, è così per tutti. Ci sono cose che vorremmo nessuno sapesse.”
“Voglio che tu me le dica.”
“Ti ho appena detto che non vorrei farlo.”
“Questo non significa che non possa volerlo.”
Erik sbuffò, cercando di andare più a fondo nel cuscino. Era snervante discutere di qualcosa in cui comunque, lui, aveva un vantaggio così enorme.
“Sai tutto di me, Charles, anche quello che non ho mostrato a me stesso.”
“E questo non ti piace?”
“E’ solo strano.”
“Prova a dirmi qualcosa. Con le parole, sta volta.”
“Non è così semplice.”
“Sono solo parole.”
“E’ questo il punto, la mia vita prima era solo parole, in un ordine sparso.”
“Prima di cosa?”
“Di te, Charles. Sei tu che mi hai dato un senso.”
Lui lo guardò – in silenzio, in un primo momento. Poi scoppiò a ridere. All’improvviso, in un modo sfacciato. Erik gli afferrò la testa, cercò di soffocarlo nel il cuscino, ma non ci riuscì.
“E’ questo” chiese lui, ancora ridendo “Il genere di cose che non vuoi che sappia?”
“Cosa ti fa pensare che te lo direi, dopo questa reazione?”
“Giuro che mi conterrò. Perdonami. Dimmi dell’altro.”
“No.”
“Ti prego.”
“No.”
“E va bene.”
Erik lo guardò con diffidenza. “Ti sei arreso troppo in fretta, cosa stai tramando?”
“Niente.”
Lo fissò.
“Niente” ripeté lui, e mostrò le mani.
“Giura.”
“Lo giuro.”
Finché Charles non si addormentò, però, per sicurezza Erik cercò di non pensare a niente.

 

#8; "Siamo in troppi"

A volte anche Charles non ci riesce. Si sveglia e sa che il mondo è troppo. Troppo affollato, e crudele, e abbagliante. Come quand’era bambino. Gli arrivava tutto addosso. La frustrazione di sua madre, le preoccupazioni di suo padre. L’odio della gente, i loro traumi, gli umori ridicoli – sì, anche quelle gioie stupide, così superficiali. Si stringeva forte tra le braccia e chiamava – se stesso, forse, i pezzi della sua anima, che fuggivano agli angoli estremi del mondo. Troppo dolore. Era tutto dentro il suo corpo minuscolo.
A volte gli capita ancora. Di rado, e non lo confessa a nessuno. Solo quando sta male, dice, e sta male sempre più spesso, perché teme di fallire. Teme di perdere quello che ha di più caro. E in quei momenti entrano di nuovo, tutti insieme, lo invadono. Sono più forti di lui. Si spaccherebbe la testa, ma basterebbe? A volte capisce – sì, capisce l’odio. Non lo dirà mai più. Lo sigillerà dentro di sé, insieme a tante altre cose. Ma capisce. Poi sente una voce, lontana dalle altre. Riesce a isolarla.
“Ehy”, gli dice, “Oggi siamo in troppi, non è vero?”
Charles annuisce. Erik gli sta accarezzando la schiena. E’ solo un contatto, è leggero, ma è tutto. Pratica un foro nel centro del mondo.
“Vuoi che me ne vada?”
“No, tu non devi” risponde. “Tu no.”
Erik resta lì. E Charles chiude le porte attorno a loro, una alla volta.

  
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