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Autore: fallapart_    08/11/2011    5 recensioni
Posa gli occhiali sul comodino, si accende una sigaretta e guarda davanti a sé, con la solita aria di innocua strafottenza, e i modi di fare di qualcuno a cui non frega fondamentalmente niente di nessuno.
The Last Shadow Puppets, Alex Turner/Miles Kane.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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DISCLAIMER: Dio solo sa quanto vorrei che Alex Turner mi appartenesse. Purtroppo non è così, infatti questa storia è frutto di fantasia e libera interpretazione di ore di interviste e concerti.
 
Altro non saprei dire; a parte che inizialmente volevo prenderli in giro, e poi ho ceduto alla tenerezza. La scena indie britannica sforna troppe bromances adorabili. (Qui il POV è di Miles Kane, visto che all'inizio - mea culpa - non si capisce.)
 
*
 
Il risveglio, la domenica mattina, non si può definire tale per davvero. È più un mugugnare preghiere con la faccia affondata nel cuscino – ancora cinque minuti! – di fatto rivolgendosi al nulla, perché anche se ci fosse qualcuno a portata d’orecchio, tu non saresti ancora abbastanza cosciente da realizzarlo. La domenica mattina non ci si sveglia mai per davvero. Si va solo incontro ad un susseguirsi di immagini, odori e sensazioni, senza mai raggiungere davvero la convinzione di essere vivi e parte di questo mondo. Qualcuno lo imputa solo ai postumi dell’alcol, per una questione statistica; io dico che la domenica ha uno straordinario potere inibitore, e forse un giorno la scienza arriverà a scoprirne le cause ultime.
Nel frattempo, io devo, nel mio piccolo, sopportare queste ventiquattr’ore di aria pesante, per cui cerco di rintracciare alla cieca l’orlo delle lenzuola, sperando di non dover affrontare la luce del sole prima di tornare a dormire; e ce l’ho quasi fatta, se non fosse per quel rumore fastidioso che continua a fare da elemento di disturbo e impedire il proseguimento del mio sacrosanto sonno.
Mi strofino le palpebre, e man mano che le impurità del soffitto diventano più nitide davanti ai miei occhi, anche le mie capacità cognitive si rimettono in funzione, così che quello che un momento fa ho definito rumore si rivela, in realtà, il vibrare delle corde di una chitarra; nervoso e ritmato, ma allo stesso tempo contenuto, tanto che giurerei che chi sta suonando si stia trattenendo per non fare troppa confusione. Dev’essere così, perché non appena mi muovo, biascicando un «che cazzo di ore sono?» privo di vero interesse, il suono si libera in tutta la sua forma, chiaro e preciso in ogni nota; anzi, l’arpeggio si fa più articolato, e il ritmo più incalzante, tanto che la mia prima ipotesi è quella per cui ora mi trovo in un film, e questa è la mia colonna sonora, strettamente dipendente dai miei cambiamenti d’umore e dall’intensità della scena. Il che sarebbe più che piacevole, se non fosse che mi basta seguire l’udito, e voltarmi, più per istinto che per volontà, verso la sua fonte, per capire che non è esattamente così.
Quella che regge tra le braccia la chitarra è poco più di una silhouette, serenamente adagiata sul davanzale della finestra; le gambe incrociate, i capelli arruffati che nascondono i contorni appena visibili di un paio di occhiali da sole vecchio stile, i polsi sottili in continuo movimento e la schiena, nuda, curva contro lo stipite; e tutti sanno che quando una faccia ti è familiare, non hai certo bisogno di fare un ingrandimento per riconoscerla.
Mi alzo lentamente a sedere; c’è una parte di me che vuole attivare i neuroni, ansiosa di capire che cosa sta succedendo, e una parte che cerca disperatamente di ritardare quel momento, perché una serie di presentimenti la spingono a credere che quel che sta succedendo non è nulla di buono. Ma a quanto pare il karma oggi ha deciso di non lasciarmi vivere sereno, perché il suono si ferma, in un ultimo stridere di chitarra, e lascia spazio a una voce, deformata dall’accento improbabile della Sheffield più profonda, e priva di una qualsiasi inclinazione, quasi posata.
«Alla buon’ora», è tutto ciò che sento, o forse è tutto ciò che capisco. «È mezzogiorno, comunque. E il caffé è freddo da un paio d’ore.»
Non sono ancora certo di aver recuperato tutte le mie facoltà, perché prima annuisco, e poi mi rendo davvero conto di quello che ho appena sentito.
Alex appoggia la chitarra contro il muro sotto di sé, scivola giù dal davanzale, e in un paio di falciate silenziose mi si è già steso di fianco. Posa gli occhiali sul comodino, si accende una sigaretta e guarda davanti a sé, con la solita aria di innocua strafottenza, e i modi di fare di qualcuno a cui non frega fondamentalmente niente di nessuno.
Picchietto le dita sul materasso.
«Alex?»
«Sì?»
«Io... sono a casa tua.»
Mi lancia uno sguardo, gli occhi nocciola ricolmi di candida innocenza.
«Non saresti arrivato in piedi a casa. Hai dormito qui.»
Sento il bisogno fisico di concentrarmi su un punto fisso per non vomitare, come dicono di fare alle donne durante il parto. Scelgo l’orologio appeso sulla parete di fronte. Ottima scelta; oltre ad evitarmi la nausea, si muove a intervalli regolari, cosicché io possa illudermi per un attimo di poter pensare ad altro, contare i secondi e togliere, anche se solo virtualmente, il disturbo. Peccato che la necessità di fare mente locale vinca su tutto il resto – sarebbe stato interessante: tic, tac, tic, tac...
«Alex?»
Un altro sguardo, identico a quello di un istante fa. Poi fa un tiro di sigaretta. E mentre il fumo sale al soffitto, la sua bocca si piega in un sorriso dei suoi, un sorriso che è tutto un programma, a metà fra il divertito e l’enigmatico, tanto che dopo tutto questo tempo mi sono convinto che diventerò fluente in arabo, sanscrito e cinese, prima di riuscire a decifrarlo.
Chiudo e riapro gli occhi, come se servisse in qualche modo a razionalizzare.
«Sono nel tuo letto.»
Preme il mozzicone nel posacenere; poi si volta su un fianco, la guancia appoggiata sul dorso della mano.
«Sì», alza le spalle, «E sei anche nudo.»
Tutti i muscoli del corpo mi si contraggono in un colpo solo, cuore compreso, anzi, penso che il cuore sia il fattore dominante, visto che per un attimo credo davvero di aver smesso di respirare; afferro le lenzuola, in quello che è l’istinto primordiale di nascondermi; mi piego sotto il letto, cercando di evitare movimenti bruschi, afferro la prima cosa simile a un capo di biancheria che mi capita sottomano e me la infilo, a velocità che ieri non avrei creduto possibili, per poi ricominciare a percepire il mio battito, sebbene non mi siano ancora del tutto chiare le circostanze. Alex mi segue con gli occhi, imperturbabile nel suo sorriso con cui sembra volermi schernire di proposito; prima mi fissa, poi sposta lo sguardo qualche centimetro più a destra, poi torna a guardare me ed esplode; e sembra fare uno sforzo immenso, con il viso dentro il cuscino e una mano a coprire la guancia rivolta verso di me, e solo dopo qualche istante riesce a parlare, soffocando una risata fra una sillaba e l’altra: «Quelle... quelle sono mie
La disperazione che mi prende non appena mi rendo conto di che cosa sta cercando di dirmi – e mi rendo conto che il paio di mutande che ho creduto senza troppi complimenti una benedizione divina, effettivamente non sono quelle che indossavo ieri sera. E vorrei che si aprisse una crepa in cui sprofondare, proprio qui, in questo bianco infinito, perché all’improvviso è tutto così chiaro, limpido, orribilmente trasparente, e sono convinto che incontrare di nuovo il marrone dei suoi occhi sarebbe solo un metodo di suicidio più traumatico del normale – oltre che, indubbiamente, più bello.
La sua risata, da soffocata, è diventata più limpida, tanto che mi viene il dubbio che non sia più pura derisione. Anzi, è quasi piacevole. E, certo, lo diventa ancora di più quando Alex appoggia la testa sul mio petto, con una dolcezza di cui lui solo sarebbe capace in un momento come questo. Sorrido, accarezzandogli i capelli, sui quali la luce del sole crea un miliardo di riflessi dorati tutti diversi; lui non ride più, ma ha la bocca ancora aperta in un sorriso – e se non fosse impossibile, direi che è meno criptico del solito – e lo sguardo perso di un neonato che non sa bene se guardare la mamma, il papà, la zia o i sonagli che pendono sulla sua culla. Distrattamente, fa scorrere la punta dell’indice sul mio ventre.
«Fra due ore devo andare a prendere Alexa in aeroporto.»
«Fra due ore», ripeto, accarezzandogli la nuca. «Direi che non è il caso di pensarci adesso
Scorre dolcemente in alto, la testa incastrata tra il mio collo e la mia spalla. Esito, ma è solo un momento, prima di portare le braccia sulla sua schiena, e immergere il viso nei suoi capelli. Cerco le parole – le parole di una domenica mattina, le parole di un mese, le parole di una vita – e sono sul punto di trovare quelle giuste, quando mi accorgo che ha gli occhi chiusi, e che il suo respiro è diventato lento e regolare.
Non so che cosa sia successo stanotte. Non so neanche che cosa sta succedendo ora. Quello che so è che mi restano centoventi minuti per guardarlo dormire e sentirlo respirare, e non ho intenzione di affollarli di domande. Solo il suo respiro sul mio petto, e il profumo dei suoi capelli.
  
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