Storie originali > Fantasy
Ricorda la storia  |      
Autore: Entreri    14/11/2011    15 recensioni
Elerad è un bambino malato che, per non annoiarsi troppo durante la sua lunga convalescenza, chiede alla vecchia Mereth di raccontare la storia di un grande guerriero. L’anziana serva lo fa, ma quella di Hartaigen di Usen, detto Arbitrio, non è esattamente il genere di storia cui Elerad stava pensando e la sua morale è quantomeno fuori dall’ordinario.
Questa storia si è classificata prima al concorso " I cattivi lo fanno meglio" indetto da Sky Eventide sul forum di EFP
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ma i figli dei suoi figli hanno il trono

Ma i figli dei suoi figli hanno il trono


La pioggia aveva impregnato l’aria d’autunno e il vento umido insinuatosi attraverso la finestra ne aveva sparso l’odore per la stanza, convincendo Elerad che nemmeno i tizzoni crepitanti nel braciere avrebbero potuto impedirgli di rabbrividire se si fosse avventurato fuori dal letto. Aprì gli occhi senza che la luce spenta del giorno gli desse alcun indizio circa il tempo passato da quando li aveva chiusi e contemplò stancamente la propria stanza, domandosi per quanti giorni ancora avrebbe dovuto rimanervi confinato. Gli era stato detto che la convalescenza sarebbe durata finché non avesse ritrovato i propri colori naturali, così si portò le mani davanti al volto fissando con avversione le piccole venature violette che segnavano le nocche e le linee della mano, le unghie ancora nere laddove gli avambracci si erano schiariti del tutto. Sospirò pesantemente, seppellendo il volto nel cuscino, sperando che lo sferruzzare ritmico della vecchia Mereth lo aiutasse ad addormentarsi, invano. Avrebbe sopportato tutto più facilmente se gli fosse stato, per lo meno, concesso di ricevere visite, ma il morbo scuro era quasi sempre mortale se contratto per la prima volta dopo i dieci anni di età e né i suoi genitori né i suoi fratelli erano mai passati attraverso l’ordalia di febbre e membra doloranti da cui lui non era ancora libero del tutto. A vegliare accanto a lui non era rimasta che la vecchia Mereth, la più anziana fra le serve di suo padre, che aveva esaurito, seduta accanto al suo letto, infiniti gomitoli di lana grigia senza sembrare troppo impressionata dalle sue pene; talmente vetusta da apparire immune non solo al morbo scuro ma alla morte stessa. Era gentile, seppur duramente, e raccontava storie meravigliose, ma Elerad aveva sette anni e mezzo e voleva sua madre.

«Non è giusto.»

La vecchia Mereth non sollevò lo sguardo dal lavoro a maglia; le sue mani ossute indisturbate nel loro movimento regolare, la sua voce logora e stridente come il raschiare di unghie sul ferro.

«È quello che avete detto ieri, mio piccolo lord, e ieri l’altro e il giorno prima ancora e quello che lo ha preceduto e così via, indietro fino a quando eravate troppo preda della febbre per proferire parola.»

Non era vecchia, era antica, Elerad si era trovato a pensare quando aveva provato a contare le rughe sul suo volto, scoprendo di non riuscire distinguerle l’una dall’altra nell’intricata rete di solchi e pieghe che era la sua pelle pallida. C’era qualcosa nella severa pazienza con cui l’assecondava che sottintendeva un rimprovero ed Elerad si scoprì ad adirarsi per la vergogna che quella disapprovazione gli provocava.

«Chiudi la finestra, fa freddo.»

Voleva solo ricordarle quale fosse il suo posto, ma aveva scelto l’ordine sbagliato; se ne accorse non appena la vide abbassare i ferri e scuotere il capo con espressione vagamente condiscendente.

«Freddo? Mio piccolo lord delle verdi pianure, dov’è il freddo nella pioggia d’autunno? Freddo è quando il respiro ti dilania il petto e le parole appena pronunciate ti si congelano dinnanzi, mostrandoti la forma delle tue maledizioni e dei tuoi giuramenti. Il freddo è per le montagne del Sirenmat e dell’Erghenmat, per i loro cieli glacialmente azzurri e il loro eterno inverno.»

La vecchia Mereth veniva da lì, gli era stato raccontato molte volte, da un piccolo borgo montano nel ducato di Indekel, circondato da picchi perennemente innevati, un luogo dove le lacrime diventano ghiaccio prima di toccare le guance e ogni suono gioioso è destinato a perdersi nel vento tagliente. Suo fratello Afelai sosteneva fossero tutte sciocchezze, che non potesse esistere al mondo un posto freddo come quello, tuttavia gli occhi della vecchia Mereth erano troppo chiari per sembrare altro che lacrime congelate.

«Vai avanti. Racconta.»

Il sorriso che ottenne in risposta sarebbe sembrato saccente se solo si fosse dipinto su un volto meno raggrinzito e saggio.

«Ah, un racconto. Una storia dell’inverno? Volete sentire raccontare della lunga marcia verso casa del duca di Bongarten? Oppure dell’esercito smarrito nella tempesta? Della tribù fantasma che sconta la propria vergogna al di là delle montagne? Delle ventisette eterne sentinelle di ghiaccio?»

Sua madre non approvava nessuna di quelle storie, ritenendole troppo cupe per un bambino della sua età, ma gli abitanti del Sirenmat, che portavano i propri figli in battaglia dal loro undicesimo anno di vita, reputavano che proteggere i bambini dalla paura impedisse loro di diventare uomini e la vecchia Mereth gli aveva narrato tutti i racconti proibiti, fino a quando non ne era rimasto più nessuno in grado di tenerlo sveglio la notte.

«Una storia nuova, la storia di un grande guerriero. Io sarò un grande guerriero un giorno: forte, giusto e nobile, come Deron l’Audace.»

Nonostante adorasse il brivido freddo che gli davano le storie invernali della vecchia Mereth, quelle di Deron di Laverlia restavano le sue predilette; forse perché era riuscito a scrivere il proprio nome nella leggenda sebbene fosse, come lui, il secondogenito di una casa minore. Sua madre gli accarezzava sempre i capelli quando cantava delle sue gesta.

La vecchia Mereth sbuffò appena con sufficienza.

«Uno sciocco ragazzino delle pianure, troppo stupido per fare altro che cavalcare molto valorosamente verso una morte eccessivamente osannata, la testa troppo piena di sciocchezze cortesi per capire che la guerra non somiglia in nulla ad un torneo e gli uomini non combattono per l’onore o per il favore di una dama.»

«Per cosa combattono, allora?»

Era di nuovo adirato, tuttavia la stizza delle sue parole sembrò non raggiungere la vecchia Mereth che lo fissava, seria come la morte, con i suoi grandi occhi troppo chiari.

«Per il potere.»

Elerad scosse energicamente la testa, cercando di nascondere con l’enfasi del diniego l’insicurezza che si era insinuata in lui.

«Non è vero! Solo i cattivi lo fanno e vengono sempre sconfitti.»

La risata della vecchia Mereth echeggiò nella stanza, acuta e stridula come il gracchiare di una cornacchia nella notte, priva di divertimento, ma carica di scherno, come la risata di una strega.

«Oh, bambino mio.»

«Non sono il tuo bambino, sono il tuo lord.»

Parve ad Elerad che la durezza della propria replica non avesse fatto che accentuare il sogghigno tagliente sul volto della vecchia Mereth; si ritrovò a fuggirne lo sguardo contro la propria volontà, spinto da una sottile inquietudine.

«Sì, lo siete. La storia di un grande guerriero dunque, la storia di Arbitrio.»

Elerad annuì severamente, non del tutto dimentico del proprio disagio, ma già proteso verso il fascino della narrazione.

«Spero che abbiate dormito abbastanza quest’oggi, mio piccolo lord, perché quella lungo la quale stiamo per avventurarci è una lunga strada e la notte potrebbe sorprenderci prima di giungere a metà percorso. Dovremo allontanarci dalle verdi pianure dell’Erenlan, dai lord minori che devono una fedeltà flebile e irrilevante direttamente all’imperatore, e spingerci fino alle colline del Sirenmat e alla piana di Usen dove, generazione dopo generazione, il conte riceve omaggio feudale dai figli dei vassalli del proprio padre. Dovremo abbandonare la luce ovattata di questa nebbiosa giornata autunnale e risalire fino a soli tramontati in un tempo lontano, anche se non remoto al punto da far scordare a chi la racconti che questa è una storia vera.

Darennon di Darme, conte del Latenlan, era ormai imperatore da due decadi quando portò dinnanzi al Consiglio dei dieci l’annosa questione dell’unificazione del diritto di successione, tentando di costringere i lord di Erghenmat e Sirenmat ad abbandonare l’antica legge, che impone a un uomo di scegliere in base al merito il figlio destinato a succedergli, per uniformarsi al diritto di primogenitura vigente nel resto dell’ impero. Fu un fallimento. L’obbligo di sposare la primogenitura venne mitigato in una calda raccomandazione imperiale ad avviare un processo di ammodernamento del diritto di successione, il consiglio fu sciolto e i conti elettori lasciarono la capitale. È a questo momento che dobbiamo risalire, quando, percorrendo la via del ritorno, il conte Haldric di Usen, ormai avanti negli anni, si domandò per la prima volta chi avrebbe dovuto nominare quale proprio erede. Si era erto sicuro e fiero in difesa della tradizione dei propri antenati, tuttavia, durante la lunga cavalcata verso casa, invidiò diverse volte un criterio facile e nitido come la primogenitura: il signore di Usen aveva due figli.»

Elerad sussultò nel riconoscere quelle parole e interruppe la vecchia Mereth con eccitazione.

«Conosco questa canzone: "Il conte di Usen aveva due figli / l’uno era saggio gentile e sincero / uomo di pace e di miti consigli / l’altro era alto, un forte guerriero / implacabile indomito e fiero / pieno d’orgoglio ma vuoto di buono / forse da Dio non avrà mai perdono / ma… non so cosa venga dopo il ma.»

L’aveva udita anni prima, attraversando il Borgo Esterno, cantata da bambini sporchi e felici per tenere il tempo mentre giocavano alla merla; al loro passaggio si erano interrotti indicandosi la carrozza l’un l’altro con divertimento, meraviglia e un certo timore. Elerad ricordava di avere chiesto di cosa cantassero, aveva sempre amato ballate, filastrocche e componimenti in rima, ma sua madre aveva scosso il capo con condiscendenza, «è solo la storia di due fratelli», aveva detto; sua madre non era mai stata brava a mentire. Aveva posto la stessa domanda al proprio precettore, ma questi si era limitato a correggerlo con scocciato puntiglio, «Il conte del Sirenmat o il signore di Usen, mai il conte di Usen: Usen è la capitale del Sirenmat e la stirpe degli Usen tiene la città e la contea da più di ventitré generazioni»; perché i due figli del conte meritassero una canzone non gli era stato detto.

«Non penso alla lady mia madre piacerebbe che tu mi stia raccontando questa storia.»

La vecchia Mereth sorrise, superiore e complice insieme, ed Elerad pensò di essere un bambino davvero cattivo quando non poté fare a meno di sorriderle a propria volta.

«Cosa c’è di così speciale nella storia di questi due fratelli?»

«Non è la storia di due fratelli, ve l’ho già detto, è la storia di Arbitrio, ma se vi fa piacere inizieremo dai due fratelli.

Il signore di Usen aveva due figli; Seragen, il maggiore, dai capelli di grano e la voce di miele ed Hartaigen di cinque anni più giovane, ma di cinque lame più alto, gli occhi azzurri come il cielo d’estate e il sorriso tagliente come il vento d’inverno, entrambi amati dal popolo e degni di succedere al proprio padre sul seggio del Sirenmat. Fin dall’infanzia, infatti, tanto Seragen quanto Hartaigen avevano dato prova di possedere doti tanto diverse quanto confacenti a un regnante. Si dice che l’Imperatore perfetto debba essere forte ma misericordioso, severo ma giusto, combattivo ma paziente e, poiché Hartaigen aveva l’animo duro del guerriero e Seragen quello misurato del saggio, non pochi erano giunti a credere che se fossero stati un solo uomo non vi sarebbe stato nessuno maggiormente degno di regnare su tutte le nazioni.

Benedetto da due simili figli, il conte Haldric era tuttavia maledetto dalla presenza di due fazioni fra i nobili che gli dovevano omaggio feudale. Laddove, infatti, i duchi di Borngarten e di Indekel desideravano espandersi a Nord per porre sotto il giogo del Sirenmat le genti barbare che dimorano oltre le montagne, il duca di Ferlev ed i marchesi di Igher e di Erberoth aspiravano a quella dorata prosperità che arride a chi mantiene pacifiche relazioni con i propri vicini e, poiché oltre a bramare sorti diverse per la stessa terra, gli Indekel e i Bongarten erano ancora duri come la pietra e freddi come l’inverno, mentre i Ferlev si erano fatti nel tempo più simili ai pacati signori delle pianure con cui volevano stipulare accordi e contrarre matrimoni, gli uni guardavano agli altri con diffidenza e disprezzo; i duchi del Nord vedevano nei nobili del Sud una minaccia che incombeva sui costumi dei propri antenati e questi giudicavano i signori delle montagne troppo ancorati ad un tempo glorioso, ma passato.

Aerdil di Viriale fece incidere sul proprio trono che la chiave della concordia è l’equilibrio e invero Haldric di Usen mantenne l’equilibrio fra le parti, concedendo ai duchi di Bongarten e di Indekel il proprio figlio Hartaigen, perché guidasse i loro eserciti a insanguinare le montagne, e al duca di Ferlev il proprio figlio Seragen perché prendesse sua figlia in sposa e concedesse il libero commercio con le contee confinanti come dono di nozze. Nessun equilibrio, tuttavia, può durare per sempre e, come il signore di Viriale ebbe a imparare quando venne assassinato, così questa amara verità si presentò agli occhi del conte del Sirenmat quando, cavalcando da Naska a Usen, si rese conto che nonostante fosse riuscito a evitare di scegliere fra le due fazioni sarebbe presto stato obbligato a farlo fra i propri figli. Questo oscuro pensiero avvelenò ogni miglio del suo viaggio e né le immense pianure tratteggiate con i caldi colori dell’autunno che percorreva di giorno, né i cieli tersi puntellati di stelle che scrutava di notte riuscirono a distoglierlo dal suo dilemma. Quando giunse in vista delle colline del Sirenmat, tuttavia, venne raggiunto da un messo che recava con un sé una lettera che era anche la soluzione.»

«Una lettera? »

Elerad percepì la propria voce come un fruscio di vento aleggiante intorno al signore del Sirenmat.

«Una lettera, mio piccolo lord, l’annuncio di una grande vittoria. Suo figlio Hartaigen aveva dato battaglia al più grande esercito che le tribù barbare avessero radunato dalla caduta di Aodosse e l’aveva disperso come polvere al vento, calpestato come fango delle strade, la terra stessa aveva sussultato di fronte alla sua furia e un fiume di sangue aveva tinto la neve di morte. “Anche le montagne lo temono e tremano” avevano gridato i soldati portandolo in trionfo; l’armatura nera ammaccata e sudicia, l’elmo abbandonato fra i cadaveri, i capelli chiari e sudati ancora appiccicati al collo, ammantato della bellezza sporca che può avere solo un vincitore, del senso di onnipotenza che dovrebbe avere solo un dio. Fu leggendo quelle parole che Haldric di Usen seppe che sarebbe stato Seragen a succedergli.»

Eleread sussultò, sgranando gli occhi con la stessa indignazione frustrata che gli ribolliva nelle vene ogni qual volta i suoi successi venivano ignorati in favore di quelli di Afelai.

«Ma lui aveva vinto!»

«Proprio per questo.»

Nel breve silenzio che ne seguì, Elerad fu sul punto di dare voce all’accorata protesta del proprio cuore, tuttavia la vecchia Mereth riprese a parlare, facendo danzare il filo fra le sue dite ossute, prima che lui potesse proferire parola .

«Aveva sempre vinto. Aveva sconfitto la tribù del lupo nella Valle Chiusa, sbaragliato la tribù della lince presso il Passo del Monte Renf, inseguendola a marce forzate nella Valle degli Echi per massacrarla fino all’ultimo uomo. Era emerso vincitore da ogni torneo tenuto nella piana di Usen, piegando il fratello del duca di Bongarten, il campione del duca di Ferlev e l’erede degli Igher. Aveva umiliato persino il proprio fratello, costringendolo a guardare verso la propria novella sposa prima di permettergli di risollevarsi dalla polvere dove l’aveva oppresso, per abbracciarlo. Hartaigen non aveva mai conosciuto la sconfitta, né il compromesso, né la prudenza; aveva abbattuto ogni ostacolo che gli si fosse parato davanti scagliandovisi contro con determinazione e diventare conte non lo avrebbe cambiato, non si sarebbe mai fermato, avrebbe innalzato i vessilli del Sirenmat e veleggiato su un mare di sangue verso il proprio obiettivo, fino alla vittoria, o alla morte. Haldric di Usen comprese che non avrebbe potuto permetterglielo, così gettò nel fuoco l’annuncio della più grande vittoria che un generale del Sirenmat avesse mai riportato e, osservando le parole farsi cenere, seppe che non appena la guerra fosse finita avrebbe ufficialmente nominato Seragen quale proprio erede.»

Elerad annuì lentamente, colpito dal suono avveduto di quelle ragioni, tuttavia restio ad abbandonare l’immagine abbacinante del giovane generale portato in trionfo.

«Perché Seragen era più saggio, giusto?»

«Come dice la vostra canzonetta, era “saggio gentile e sincero, un uomo di pace e di miti consigli”. Hartaigen non era nessuna di queste cose; era forte, era orgoglioso, era fiero, feroce, a tratti persino crudele, e nel profondo del proprio cuore, anche se non l’avrebbe mai confessato neppure a se stesso, il conte Haldric aveva paura di lui. Si diceva che Hartaigen avesse visitato una donna sola.»

Elerad trattenne un respiro inquieto, il solo nome delle streghe delle montagne era in grado di insinuare in lui una sottile e indecifrabile angoscia. Nel tempo aveva sconfitto il proprio terrore cieco per i mostri delle saghe nordiche, le donne sole, tuttavia, non erano come gli antichi demoni bramosi di morte e sofferenza o gli orchi dalle enormi fauci sempre avide di carne umana; le donne sole erano reali. Più vecchie delle montagne e più aspre dell’inverno, conoscevano tutto, potevano tutto e concedevano tutto a quelli abbastanza coraggiosi, o folli, da inerpicarsi per sentieri solitari fino alle loro piccole dimore isolate, salvo poi prendere qualcosa in cambio, perché tutto ha un prezzo; e il prezzo delle donne sole si diceva fosse tale da rendere ogni loro dono amaro.

«Cosa chiese?»

«Furono in molti a domandarselo e molte risposte vennero formulate nell’oscurità; alcuni sussurrarono avesse lasciato l’accampamento nella notte, il cuore smanioso di vittoria, e non vi avesse fatto ritorno prima che questa gli fosse stata garantita in eterno, altri si dicevano certi avesse sfoderato la propria spada dinnanzi alla donna sola perché il suo tocco la rendesse capace di spezzare ogni altra lama e trafiggere ogni carne, per altri ancora aveva inteso assicurarsi il perdurare della propria stirpe sino alla fine dei giorni. Quale di queste storie corrisponda a verità è impossibile a sapersi: forse tutte, forse nessuna. Forse non vi furono mai null’altro che voci nella notte. Ad Haldric di Usen, tuttavia, bastarono quelle voci per rabbrividire.»

La vecchia Mereth interruppe il proprio racconto per raccogliere un nuovo gomitolo dalla cesta ai propri piedi ed Elerad si accorse di avere freddo, tuttavia quando questa riprese a parlare se ne dimenticò.

«Seragen dunque; la scelta era stata presa ed Haldric di Usen volle aspettare la conclusione della guerra contro i barbari per comunicarla; la morte, tuttavia, decise di non attendere con lui. Neppure tre mesi dopo il proprio ritorno dalla capitale il conte del Sirenmat si ammalò gravemente e fu costretto a nominare il proprio erede sul letto di morte invece che nella sala del trono, in presenza del solo duca di Ferlev e dei notabili di palazzo invece che dinnanzi a tutti i propri vassalli; si dispiacque di non poter abbracciare un’ultima volta il figlio minore, diede la propria benedizione a Seragen e alla sua sposa, augurandosi che il Sirenmat godesse di concordia e fortuna sotto la loro guida e, infine, spirò.

Tutta la città di Usen lo pianse ininterrottamente per tredici giorni, alimentando la sua immensa pira funebre in segno di lutto profondo e, quando tutte le manifestazioni di cordoglio furono cessate, Seragen sedette pubblicamente sul seggio del proprio padre, acclamato da una folla festante mentre proclamava la fine imminente della guerra contro i barbari e l’avvento di una lunga e prospera epoca di pace. Il giorno in cui questo avvenne fu anche quello in cui la notizia della morte di suo padre e dell’ascesa al trono di suo fratello giunse sino ad Hartaigen. Ogni soldato del suo esercito bruciò una fiaccola in onore di Haldric di Usen, Conte del Sirenmat, Scudo del Nord e Protettore del Passo delle Partenze e Hartaigen lo pianse senza lacrime osservando la valle rischiarata nella notte.

All’alba, quando ogni torcia si era ormai consumata, fece radunare l’intero esercito e, mentre i vessilli della casa degli Usen garrivano gonfiati dal freddo vento del Nord, si rivolse agli astanti con voce di tuono.

«La pira di mio padre non è ancora fredda e già mio fratello occupa il mio seggio. Il figlio che è stato sconfitto si è insediato al posto del più valoroso e degno. Io sono il Conte del Sirenmat, non permetterò a nessuno di usurpare il mio destino.»

La luce del mattino si irradiava alle sue spalle ed egli non era per i suoi soldati che una sagoma scura nell’abbagliante sorgere del sole, un’aureola di capelli chiari intorno ad un volto su cui potevano solo immaginare fosse scolpita la stessa solennità della sua voce.

«Questa guerra è finita. Marceremo su Usen.»

Spalancò le braccia.

«A prendere quello che mi spetta!»

L’eco del boato che ebbe in risposta non si spense per molto tempo.»

Elerad si levò a sedere di scatto assecondando il battito del proprio cuore, la mani arpionate alla coperta, le nocche viola dolorosamente in mostra.

«Non può averlo fatto davvero!»

La vecchia Mereth sospirò con qualcosa di simile alla rassegnazione infastidita di un precettore che si trovi di fronte ad un allievo sciocco.

«Qual è il motto dei conti del Sirenmat?»

«“Il mio valore e il mio volere.”»

Un sorriso affilato tagliò il volto della vecchia Mereth, mentre la luce sempre più fioca permetteva alle ombre della sera di emergere dalle sue profonde rughe.

«E che cosa significa?»

Porre la domanda non aveva impedito alla vecchia Mereth di continuare a sorridere, mettendo in mostra una fila di denti incredibilmente bianchi e sproporzionatamente piccoli, ed Elerad si sentì in qualche modo intimidito. Ebbe l’impressione che la risposta alla domanda fosse estremamente importante e che la vecchia Mereth non si aspettasse che lui fosse in grado di darla.

«Che bisogna essere valorosi e volenterosi. Credo.»

La risata stridula e beffarda che ebbe in risposta inondò la stanza dando inizio al crepuscolo.

«Significa che l’unica cosa che dia diritto a realizzare il proprio volere è il proprio valore. Nessuna giustizia oltre alla forza è mai davvero valsa nel Sirenmat, per questo il conte deve essere forte e Hartaigen era forte, per questo i suoi soldati lo seguirono. Era forte e credeva che le sole cose a contare fossero il suo valore e il suo volere; alla sua spada, quella che si diceva avesse sfoderato dinnanzi alla donna sola perché lo guidasse alla perpetua vittoria, aveva dato il nome di “Arbitrio” e così avevano preso a chiamarlo i suoi stessi uomini, secondo l’antica tradizione della gente del Sirenmat di identificare il guerriero con la sua spada.»

Elerad chiuse gli occhi e per un attimo ebbe paura di sapere come sarebbe proseguita la storia di un uomo che portava il nome di una spada e guidava un esercito contro il proprio fratello, tuttavia scivolò nuovamente sotto la coperta aspettando che la vecchia Mereth riprendesse il proprio racconto.

«È una lunga marcia dalle montagne a Usen, così Hartaigen prese la via del Sud con metodica calma. Promise di sposare la figlia del duca Herrat di Indekel e di congiungere in matrimonio il proprio erede con la stirpe dei Bongarten e i due duchi scesero in guerra con lui, l’esercito di Indekel accompagnandolo nel suo piegare verso Est, quello dei Bongarten discendendo da Ovest. Attraversò lentamente le terre delle colline, chiedendo ad ogni lord di giurargli fedeltà o di dare battaglia e accettare la fine del proprio lignaggio. Infine, quando poté dirsi sicuro di non lasciare alle proprie spalle altro che vassalli a sé fedeli, mosse verso la capitale, certo di andare incontro all’esercito che Seragen aveva nel frattempo radunato contro di lui. Questo avvenne presso il guado del Tirinnir. Il Tirinnir, mio piccolo lord, è un grande fiume che scorre ancor più rapido e violento dopo aver accolto l’Erdn nel proprio corso, poco più a valle del punto dove, scorrendo i due fiumi affiancati, è possibile guadarli entrambi lungo la stessa strada. Ogni generale vi direbbe che dare battaglia in un tale luogo è estremamente sfavorevole per chi, guadato il primo fiume, cerchi di superare anche il secondo per raggiungere un esercito nemico superiore di numero. Eppure così sembrò fare Arbitrio in quella lontana mattina di fine estate, quando alla testa del proprio esercito oltrepassò il Tirinnir e schierò le proprie truppe lungo il guado dell’Erdn, erigendosi egli stesso, solido come la statua di un re, davanti ai propri uomini per ascoltare le parole che suo fratello, a capo dei guerrieri in attesa dall’altra parte del fiume, insisteva a volergli rivolgere.

«Ti prego, fratello, ferma questa follia. La tua rabbia mi ferisce, non desidero recarti alcun male, solo far rispettare la volontà di nostro padre»

Sembrarono a chi stava a guardarli quel giorno più simili di quanto non fossero mai stati: entrambi alti e splendidi nelle loro armature, entrambi in qualche modo, secondo qualche principio, il Conte del Sirenmat; tuttavia non era destinato a durare perché, se Seragen cercava la conciliazione, Hartaigen non voleva altro che il trionfo.

«Ti prego, Hartaigen, sai quanto me che la parola del Conte sulla successione è legge.»

Hartaigen sorrise, sollevando lentamente le braccia sotto lo sguardo silenzioso e attento di due armate, portando le mani all’altezza delle ampie spalle prima di scandire la risposta con la sua voce forte e profonda.

«Non vedo l’esercito di questa Legge!»

Il suo esercito si lanciò alla carica.

Non siete mai stato nel tumulto della battaglia, mio piccolo lord: dovete immaginare confusione, sangue, sudore, fatica, eccitazione e paura, tutte mischiate insieme, e l’acqua, poiché stavano combattendo sul guado dell’Erdn ed ogni uomo che venisse abbattuto dai colpi dei nemici era destinato a venire trascinato verso la morte dalla propria stessa armatura. D’improvviso, perché sempre d’improvviso avvengono le cose nelle battaglie, l’esercito di Hartaigen entrò in rotta e parve a Seragen di vedere il proprio valoroso fratello in persona darsi alla fuga in maniera scomposta. Ordinò di guadare l’Erdn per annientare l’esercito di Hartaigen, sapendo che il più difficile guado del Tirinnir gli avrebbe tagliato la strada. Solo quando ormai fu troppo tardi udì un corno da guerra risuonare alle proprie spalle mentre le truppe guidate da Hannekin di Bongarten, che tempo prima si erano separate dal resto dell’esercito di Hartaigen volgendo a Ovest, si abbattevano sulle sue forze. Capì che suo fratello aveva soltanto inscenato la propria rotta e comprese di essere stato sconfitto. Entro un’ora Seragen, il duca di Ferlev e i lord loro alleati seguivano quali prigionieri l’avanzata di Hartaigen verso Usen,

Non entrò nella capitale in trionfo, bensì al fianco del fratello, sebbene questi fosse visibilmente in catene. Fece acquartierare le truppe e invocò un Giudizio di Dio, convocando a Usen tutti i nobili della contea perché potessero assistere. Non ne avrebbe avuto bisogno in realtà, poiché sconfiggendo il fratello in battaglia aveva già dimostrato di essere il figlio più valoroso e quindi il solo adatto alla successione; tuttavia fece portare lo scranno del proprio padre nella piazza dinnanzi al palazzo e attese che tutti i grandi e piccoli vassalli del Sirenmat si presentassero nella capitale. Quando tutti ebbero preso posto nella piazza e l’intera città fu avvolta da un cupo silenzio, i due fratelli si affrontarono in duello davanti a Dio, agli uomini e al seggio del Sirenmat. Com’era avvenuto anni prima, durante la contesa tenutasi in onore del matrimonio di Seragen, Hartaigen schiacciò il fratello nella polvere e gli tenne la guancia premuta sul ciottolato stringendogli la testa con la sua mano forte quanto immensa.

«Di' che sono il conte.»

Seragen boccheggiò e calde lacrime bagnarono le sue guance, guardò verso la propria moglie, la dolce fanciulla di Ferlev che lo amava nonostante non fosse il guerriero migliore, e desiderò poter sedere accanto a lei ancora una volta.

«Hai vinto, fratello.»

«Di' che sono il conte!»

Il capo costretto nella morsa delle sue dita, non poteva voltarsi per osservare il proprio fratello, così come non aveva potuto farlo in passato quando si erano trovati nella stessa posizione. Ricordava che, dopo averlo infine lasciato andare, Hartaigen l’avesse abbracciato con affetto.

«Tu sei il conte.»

Arbitrio gli tagliò la testa.»

Non avrebbe saputo dire perché, ma figurandosi la scena tutto quello che vide fu il capo di Afelai ruzzolare al suolo sgorgando sangue, gli occhi di Afelai inondati di pianto e di paura; ad impugnare la spada uno sconosciuto dagli occhi privi di calore e il sorriso privo di emozione. Sentì le proprie lacrime, sporche e corrotte dal morbo scuro, bruciare lungo le guance.

«Ma era suo fratello.»

«Sì, e lo amava, ma amava di più se stesso.»

Come se quelle parole l’avessero chiamata, Elerad si accorse che era giunta la notte.

«Mentre il sangue di Seragen si mischiava alla polvere, Hartaigen sedette sullo scranno che era stato di suo padre e attese che uno a uno tutti i nobili piegassero il ginocchio al suo cospetto facendo pubblica professione di fedeltà e sottomissione. Fu il suo trionfo, eppure nessuno lo vide sorridere.

Fece innalzare per suo fratello Seragen la più alta pira che fosse stata eretta a memoria d’uomo e rimase ad osservarla bruciare, sedendo immobile e solenne sul freddo seggio di pietra che aveva conquistato con il sangue, senza mostrare alcun sentimento. La moglie di Seragen stette per tre giorni e tre notti in piedi accanto ad Hartaigen, composta in un pianto silenzioso; all’alba del terzo giorno, quando ormai ebbe esaurito tutte le lacrime che fosse possibile piangere, lasciò la sinistra del trono e si gettò nelle fiamme. Hartaigen l’aveva sempre amata, tuttavia sapeva che portava in grembo il figlio di suo fratello, così rimase a guardare, alzando la mano destra perché le guardie non la soccorressero; non una lacrima di dolore uscì dai suoi occhi, così come mai una parola d’amore era uscita dalle sue labbra.»

«La lasciò morire? Ma hai detto che l’amava!»

«L’amava infatti, ma, come ho detto, amava di più se stesso.»

La vecchia Mereth sfilò delicatamente i ferri dal quadrato di maglia grigia che aveva preso forma fra le sue mani e li ripose nella cesta, estraendo un quadrato in tutto e per tutto identico a quello che teneva sulle ginocchia e una matassina il cui filo, Elerad si avvide, era già saldamente annodato alla cruna di un ago. Si domandò come potesse cucire i due pezzi insieme quando la luce del braciere non aveva altro effetto che rendere acutamente consapevoli delle tenebre della stanza, ma la vecchia Mereth era anziana e i vecchi, gli era stato detto, sembravano vedere più con le mani e con la memoria che con gli occhi.

«La notizia della sua ascesa al trono si diffuse rapidamente per tutto l’impero. Hartaigen di Usen, Conte del Sirenmat, Scudo del Nord, Protettore del Passo delle Partenze, Signore secondo l’Antica Legge non giurò mai fedeltà all’imperatore e l’imperatore non ufficializzò mai la sua nomina, sebbene non potesse impedirgli di esprimere il voto del Sirenmat nel consiglio sedendo sul seggio di pietra nera che apparteneva da sempre ai signori di Usen.

Sposò Etieth di Indekel e, poiché dopo cinque anni di matrimonio questa non era ancora riuscita a generare il suo erede, Hartaigen prese con sé il primo nato fra i propri bastardi e l’allevò nella propria casa, portandolo a combattere nelle proprie battaglie e permettendogli di chiamarlo padre. Dreilt si chiamava e fu la luce degli occhi di Abritrio, fino a quando non dovette ucciderlo.»

Elerad si accorse di non avere più energia per sconvolgersi e si accomodò meglio sotto la coperta senza domandare come avesse potuto farlo; attese soltanto che la vecchia Mereth andasse avanti a raccontare, cucendo insieme tutti i riquadri di lana che aveva lavorato a maglia durante la sua malattia.

«Crebbe alto, coraggioso e forte, figlio del proprio padre nella prodezza e nell’ambizione e, appena ebbe raggiunto l’età adatta, divenne il braccio destro di Arbitrio, conoscendo la sua crudeltà, la sua durezza e la sua determinazione senza, tuttavia, imparare a temerle. Eppure avrebbe dovuto. Era stato al suo fianco quando avevano marciato attraverso il regno di Endelei in una guerra che l’imperatore aveva dichiarato dopo un mese di discussioni infiammate e Hartaigen aveva vinto dopo quindici giorni di marce forzate, fango e sterminio. Era stato al suo fianco quando erano calati sulla capitale di quel regno sfortunato, troppo in fretta perché l’esercito di Theche potesse anche solo improntare un qualche tipo di difesa. Era stato al suo fianco quando avevano annientato l’ultima disperata resistenza che la guardia cittadina aveva tentato di opporre nelle strade. Era stato al suo fianco quando il sangue era arrivato alle caviglie, ascoltando la sua composta risata di piacere. Era stato alla sua destra, quando si era affacciato al balcone del palazzo dei re di Theche, accanto all’ordinata fila di picche su cui erano esposte le teste dei membri della famiglia reale. Lo aveva guardato mentre si rivolgeva ai prigionieri radunati nella piazza sottostante, simile ad un onnipotente demone delle antiche leggende.

«Dovrei uccidervi tutti, stuprare le vostre donne, vendere come schiavi i vostri bambini, ma non lo farò; perché sono un debole.»

Aveva udito la sua voce, forte e spaventosa come il rombo della valanga sulle montagne, indirizzarsi al proprio esercito.

«Concedo cinque giorni di saccheggio.»

Era stato lì quando all’alba del sesto giorno l’imperatore aveva raggiunto il conte del Sirenmat non trovando della dorata Theche che pietra su pietra.

Era stato lì, avrebbe dovuto capire, eppure non lo fece; così quando finalmente Etieth di Indekel generò un erede per il Sirenmat, vent’anni dopo il proprio matrimonio, Dreilt abbandonò Usen nella notte cavalcando verso sud e, proprio mentre sperimentava la gioia di stringere un figlio di sangue puro fra le braccia, ad Hartaigen giunse la notizia che il suo bastardo aveva sposato Libeth di Igher e si era sollevato contro di lui. Chiese della propria armatura ancora prima di rendere il proprio erede alle amorevoli braccia di sua madre e fece radunare l’esercito.

Riversò le proprie forze su Igher con tutta la potenza della propria fredda collera e tale timore suscitarono negli animi i massacri che perpetuò nella sua marcia che molti, fra coloro che avevano promesso in segreto il proprio appoggio a Dreilt, lo abbandonarono al suo destino costringendolo ad asserragliarsi nella rocca di Gerk. Si diceva la leggendaria fortezza degli Igher fosse imprendibile, tuttavia si diceva anche che Hartaigen fosse invincibile, la domanda è sempre la stessa: cosa succede quando la forza inarrestabile incontra l’oggetto inamovibile? In questo caso un assedio.

Per centotrenta giorni l’esercito di Hartaigen di Usen rimase sotto le alte mura di Gerk e ogni mattina Arbitrio vestiva la sua armatura nera e, all’ombra delle bianche torri della rocca, dettava le condizioni della resa, ogni mattina chiedendo più di quella precedente. Il primo giorno pretese che gli fosse consegnato Dreilt il Senza Casa e Senza Nome perché andasse incontro al suo giudizio, il secondo reclamò Dreilt e il marchese di Igher, il terzo Dreilt, il marchese di Igher ed il suo erede, il quarto aggiunse uno dei suoi vassalli, il quinto ne aggiunse un secondo e così via. Quando si rese conto che suo padre non si sarebbe mai fermato e avrebbe atteso tutto il tempo che fosse stato necessario, Dreilt si arrese prima che le richieste di Hartaigen rendessero Igher una terra popolata da fantasmi. I grandi portoni che nessun uomo era mai riuscito a forzare lasciarono passare il Conte del Sirenmat e gli orgogliosi guerrieri che li avevano difesi fino a quel momento si prostrarono dinnanzi a lui posando la fronte nella polvere in segno di sottomissione. Hartaigen percorse le strade ignorando gli uomini che chinavano il capo fino a terra, come le donne che stringevano spaventate i propri figli e raggiunse la piazza d’armi in sella al proprio gigantesco stallone scuro. Là, immobili in ordinata schiera mentre la luce del mattino li accarezzava per un’ultima volta, stavano tutti gli uomini di cui aveva reclamato la vita. Quando scese da cavallo lo fissarono con la solenne dignità del guerriero che va alla morte, ma lui parve non vederli, lo sguardo carico di gelido sdegno puntato su Dreilt che, immobile in mezzo a loro, vestiva dell’armatura che Hartaigen aveva fatto realizzare per lui quando aveva raggiunto la maggiore età. Sfoderò Arbitrio e li chiamò uno a uno, partendo dall’ultimo per il quale aveva chiesto la morte, e questi uno dopo l’altro si inginocchiarono dinnanzi a lui per essere decapitati: alcuni lo maledissero, chiamandolo demone, altri lo accusarono di avere venduto la propria anima alla donna sola per usurpare il trono di suo fratello ed il marchese di Igher ammise a gran voce di meritare la morte, non tanto per essersi ribellato contro di lui quanto per esserglisi sottomesso vent’anni prima. Hartaigen non ascoltò nessuno di loro.

Quando infine chiamò suo figlio al proprio cospetto la piccola piazza era impregnata dell’odore del sangue e del fetore della morte e Dreilt ebbe paura. Alcune canzoni dicono che rimase in silenzio, ma la verità è che si gettò ai piedi del proprio crudele padre e gli abbracciò le ginocchia piangendo, chiedendo pietà, ricordandogli di quante volte in passato fosse stato compiaciuto del suo servizio.»

Elerad percepì una smorfia di disappunto formarsi sul proprio volto, convinto che un vero guerriero non dovrebbe supplicare di essere risparmiato, ma sbeffeggiare il nemico con le proprie ultime parole o mantenere un contegno di distaccata superiorità.

La vecchia Mereth si piegò per afferrare l’ennesimo quadrato di lana.

«Molti piangono, mio piccolo lord. Dreilt aveva vent’anni e credeva di essere l’eroe di una canzone, quel giorno si accorse che non lo era, si accorse di stare per morire per mano del proprio padre e lesse nei suoi occhi che non sarebbe stata una morte piacevole, né rapida, né degna. Pianse, pregò, scongiurò. Hartaigen era suo padre; l’aveva tenuto sulle ginocchia quand’era bambino, gli aveva insegnato a tenere in mano una spada, aveva ascoltato soddisfatto i resoconti dei suoi precettori, aveva scacciato i suoi incubi notturni con la propria risata possente, aveva osservato compiaciuto le sue vittorie nei tornei. Chiuse gli occhi e ordinò che gli venisse tolta l’armatura.

«Padre, ti prego, abbi pietà!»

Lo scostò da sé con violenza, gettandolo al suolo con collera amara.

«L’ho fatto anni fa, quando ho scelto di non gettarti nel Tirinnir. È un errore che non commetterò una seconda volta.»

Dreilt gridò come un maiale quando suo padre lo squartò in tredici pezzi, tanti quanti i gradi vassalli che dovevano al Signore di Usen l’omaggio feudale; a ciascuno di loro fu recapitata una parte del figlio ribelle del loro signore, come annuncio e come monito. Hartaigen fece ritorno alla propria dimora e da quel giorno fece annegare tutti i propri bastardi della cui esistenza ebbe nozione finché non gli rimase che un unico figlio: non riuscì mai ad amarlo.»

Elerad dovette reprimere un conato di vomito, la vista del sangue non lo spaventava più di tanto, ma l’immagine di un giovane uomo fatto brutalmente a pezzi era talmente vivida dinnanzi ai suoi occhi da rivoltargli le viscere. Nonostante ciò si rese conto con terribile orrore che Hartaigen di Usen non avrebbe potuto fare diversamente, non senza perdere il rispetto e la fedeltà del propri vassalli. Fu attraversato da una terribile consapevolezza.

«Hartaigen lo amava.»

La vecchia Mereth annuì seriamente ed Elerad si sentì osservato sin nel profondo dell’anima mentre cercava disperatamente di non piangere. Certo che lo amava, come avrebbe potuto non amarlo? Solo non avrebbe potuto fare altrimenti, solo…

«Solo amava di più se stesso.»

Per un attimo Elerad non avrebbe saputo dire se a far brillare gli occhi della vecchia Mereth fosse la soddisfazione per le sue parole o un riflesso delle braci.

«Cosa ne fu di Arbitrio?»

La vecchia Mereth scostò la coperta grigia che stava assemblando sulle proprie gambe per aggiungervi un altro pezzo.

«Quello che ne è di tutti gli uomini: morì. Come cantano gli Indekel il giorno della prima neve sulle montagne “Periti sono i nostri padri e i padri dei loro padri / periranno i nostri figli e i figli dei loro figli / e anche per noi verrà l’alta pira contro la quale abbiamo combattuto / persino ad Erea la Bella è destinata una fine”. Nessun uomo è immune alla morte, neppure Hartaigen il Grande che piegò i barbari, gli Endelei e tutti quelli che gli si opposero. Una notte concepì nel proprio cuore il desiderio di diventare signore di tutto il vasto impero, pianificò fino all’alba prima di andare a coricarsi per poche ore di riposo e convocare i propri generali; non si svegliò mai più. Suo figlio Asteroth gli innalzò una gigantesca pira; tutti gli uomini del Sirenmat narrarono le sue gesta e nessuno lo pianse.»

Elerad rimase esterrefatto e, per la seconda volta da quando era iniziata la narrazione, si levò a sedere di scatto.

«Quindi perse! Non diventò imperatore! Perse suo fratello, la sua amata, suo figlio e nessuno lo pianse.»

Non si soffermò a chiedersi perché fosse tanto scandalizzato all’idea.

«Perse suo fratello, la sua amata e suo figlio, ma non fu mai sconfitto: quello che perse non fu altro che un prezzo da pagare per la propria vittoria.»

Elerad strinse i pugni e sentì il palmo della propria mano tagliarsi sotto la pressione delle proprie unghie nere e affilate.

«Ma non diventò imperatore.»

La vecchia Mereth parve sul punto di ridere, invece si sporse in avanti chinandosi per bisbigliare al suo orecchio con la propria voce stridente e acuta.

«Chi siede oggi sul trono dorato? Sussurratemi il nome dell’Eren del Consiglio dei Dieci. Ditemi il nome dell’imperatore.»

Elerad spalancò gli occhi in un lampo di comprensione.

«Adikan di Usen.»

La vecchia Mereth sorrise di nuovo ed Elerad fu grato di vederla allontanarsi.

«”Forse da Dio non avrà mai perdono” dice la vostra sciocca filastrocca, in una cosa però ha ragione. “Forse da Dio non avrà mai perdono, ma i figli dei suoi figli hanno il trono.”»

Hartaigen di Usen, Elerad si trovò a pensare, aveva vinto davvero, aveva pagato un alto prezzo per la vittoria, tuttavia aveva vinto; era entrato da vivo fra le leggende, le montagne avevano tremato dinnanzi alla sua furia e nessun regno sulla terra aveva mai fermato la sua avanzata. Non si era rassegnato a vivere dell’elemosina del proprio fratello maggiore come era destino di tutti i secondogeniti.

«E voi, mio piccolo lord, desiderate che i vostri figli abbiano il trono?»

La domanda echeggiò nell’aria gelida della notte ed Elerad la lasciò vagare negli angoli più oscuri della stanza prima di permetterle di insinuarsi in quelli della sua anima.

«Il seggio di mio padre spetta a mio fratello di diritto.»

Le parole non erano sue e le ripeté senza convinzione, a voce tanto bassa che le tenebre della notte parvero divorarle e non lasciare al loro posto che un desiderio proibito.

«Amo mio fratello.»

La vecchia Mereth rise ancora, il suono talmente affilato che Elerad ebbe l’impressione gli fosse entrato sottopelle per tagliare dal suo spirito quei pezzi della sua anima che venivano irrisi con tanta energia.

«Certo che lo amate. La domanda è: amate di più voi stesso?»

Elerad chiuse gli occhi e pensò ad Afelai: vide il coraggio di suo fratello e la sua forza, vide la sua affabilità e la sua allegria, udì il suono della sua risata e l’affetto con cui lo motteggiava, la decisione con cui parlava in sua difesa, ma vide anche la sua arroganza e la sua insensibilità, vide il suo orgoglio per la propria primogenitura, udì il suo umorismo sprezzante e ricordò come a volte lo deridesse perché un giorno avrebbe dovuto vivere della sua generosità o vagare in cerca di qualcuno da servire, perché non avrebbe mai avuto i mezzi per prendere moglie e generare dei figli che non fossero dei bastardi.

«Sì.»

Lo sussurrò appena, poi lo ripeté più forte. Si alzò dal letto e si diresse verso la porta, la vecchia Mereth si scostò con un mezzo inchino al suo passaggio. Sapeva cosa doveva fare, uscì dalla stanza e si diresse ad abbracciare suo fratello per l’ultima volta.

Non si voltò indietro verso la vecchia Mereth, se l’avesse fatto, tuttavia, l’avrebbe vista scomparire in un vortice di fiamme senza lasciare dietro di sé altro che un sudario di lana grigia.



"Riconoscimenti" ottenuti da questa storia:

Prima classificata al contest "I cattivi lo fanno meglio"

Quarta classificata nel contest a squadre "One shot Panic!" dove concorreva nella squadra fantasy. In questo stesso concorso la storia ha ottenuto due premi speciali:

Premio Fuoriclasse: per aver ottenuto singolarmene il punteggio più alto

                           

Premio Miglior Protagonista Maschile: Hartaigen 

                           

Seconda classificata al concorso "Le Lampade dei Valar" di Silvar Tale e vincitrice di quattro premi speciali

                              

Premio Medieval: per la miglior ambientazione Medieval Fantasy

                               

Premio Giuria:

                               

Premio Miglior Personaggio Machile: Hartaigen

                               

Premio Stile:

                               

   
 
Leggi le 15 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Entreri