Questa doveva essere la mia parte
preferita, ora che l’ho finita direi proprio che non lo è LOL però spero
comunque che piaccia a voi :)
Disclaimer: [s.m., raro. Vedere anche: ‘grande desiderio irrealizzabile’]
♦ Hic Sunt Dracones ♦
†
Il
freddo lo avvolge come una coperta inzuppata di acqua ghiacciata, lentamente,
completamente, e gli toglie il fiato. Si sente soffocare. Inala il gelo e
avverte l’inerzia dei suoi polmoni, la loro mancanza di volontà nel farlo
respirare, e così ogni respiro rimane bloccato a metà gola, in un rantolo
sinistro.
L’ossigeno
sembra rifiutarsi di scendere nella sua trachea bruciante. Lui si affanna,
annaspa rumorosamente, combatte con la disperazione di un uomo morente per un
singolo soffio d’aria. Ma deglutisce il nulla, di nuovo e di nuovo,
all’infinito.
Il
suo cuore diventa più gelido ogni secondo che passa, un peso sempre più
opprimente nel petto. Non aveva mai pensato che quello potesse rivelarsi un
tale onere, prima di allora. Irrora dolorosamente il suo corpo di un sangue
simile a scaglie di ghiaccio, che trafiggono con spietatezza le pareti delle
arterie, e così il freddo non è più soltanto fuori, ma anche dentro di lui, e
gli irrigidisce le membra, le appesantisce, rendendole macigni impossibili da muovere.
Allen
pensa a Lenalee, a come si libra nell’aria con i suoi
stivali con la leggiadria di una libellula, i capelli e i vestiti che le
vorticano intorno come ali di farfalla, scie d’inchiostro nero e verde luminoso
che si mescolano solcando il cielo; mentre lui è lì, incatenato anima e corpo
alla terra, meno in grado di volare di quanto lo sia mai stato in vita sua.
Il
suo braccio sinistro pulsa. Se ancora può chiamarla così, quella cosa che vive ancorata alla sua
sopravvivenza come un parassita, e allo stesso tempo da lui un’entità
praticamente indipendente: si dimena, si contorce violentemente,
incontrollabile, e ogni contrazione spedisce una scarica di elettricità e paura
nel suo corpo, alla sua anima, e lo lascia senza fiato, di nuovo ad annaspare
per aria che non arriva. Il dolore aumenta a tal punto che non riesce più a
sentire i suoi stessi pensieri. Ciascuna pulsazione innaturale, che brilla come
la luce propria di una stella, biancastra e malsana, lo lascia sempre più
esanime.
‘Un
angelo,’ sussurra il ricordo di una voce giovanile, ammaliata e eccitata.
Allen
percepisce la sua forza vitale abbandonarlo, strappatagli via a brandelli ad
ogni palpitazione.
‘Qualcosa
di molto più mortale e obbrobrioso di un angelo,’ si ripete mentalmente per
l’ennesima volta.
È
rivoltante il modo in cui lo tira. In più direzioni, lo trascina senza un
attimo di quiete, come un cane esagitato alla ricerca dell’odore del suo amato
padrone disperso, aggressivo e disperato. Fedele a un estraneo dagli scopi
incomprensibili. Lo sente strattonare la sua spalla, come se lui fosse solo un
fantoccio che è d’impaccio al raggiungimento del suo più grande desiderio.
Verso la strada, poi verso il cielo, e di nuovo verso terra. Si chiamano a
vicenda, incessantemente.
Allen
ha voglia di vomitare.
Ma
la sua bocca non riesce a inghiottire né sputare fuori aria, tanto meno gli
interni vuoti e sussultanti del suo stomaco.
Nella
solitudine del suo temporaneo nascondiglio, il dolore fisico sembra l’unico
fattore rilevante presente nella sua vita; le braccia, le gambe, il petto, la
testa, tutto è percorso da fitte lancinanti. Si stupisce che i suoi arti non
siano ancora caduti dalle loro giunture, e frantumatisi a terra. Si stupisce di
essere ancora intero.
Ma
se anche così fosse, ad Allen importerebbe poco. L’unico suo desiderio, in quel
momento, è chiudere gli occhi, e dormire.
Ma
non può.
Strizza
le palpebre con tale violenza da farsi male, tenta di tenerle aperte nonostante
il freddo lo aggredisca con la ferocia di un esercito di aghi acuminati che
infilzano i suoi bulbi oculari come fossero portaspilli.
Lo
scenario davanti ai suoi occhi s’offusca, si ricompone, si sdoppia e s’appanna
nuovamente. Il dubbio che non ci sia nulla di reale di fronte a lui, che si
trovi da solo in mezzo a una nuvola di visioni e oggetti non realmente
esistenti, gli ottenebra la mente.
Il
sonno lo chiama, lo tenta, lo alletta con la proposta invitante di riposare,
fino a che non starà meglio, ed è amorevole come una madre, che culla e canta
con voce morbida e irresistibile una ninna nanna al suo bambino.
All’inizio
non si accorge che ormai è un continuo perdere e riacquistare conoscenza. Fino
a che l’ansia che artiglia le sue interiora non si fa lacerante, e allora ogni
volta che riesce a fatica a ritornare dal mondo di quell’oblio, ne ritorna
sempre più terrorizzato.
Perché
là, da qualche parte dentro di lui, annidata tra le pieghe della sua coscienza
come un predatore che attende l’occasione perfetta per balzare all’attacco, la
vede chiaramente.
C’è
una zona buia dentro di lui, un territorio inesplorato in cui ha timore di
addentrarsi; nero come la pece, una specie di irregolare strappo nel tessuto
della sua coscienza, al di là del quale si staglia il nulla, il vuoto più
totale. O forse è più come una bolla nera, densa e tangibile, un’oscurità
fluida che ribollisce, Allen non lo sa dire, perché non è mai riuscito a
guardarla abbastanza a lungo da poterla memorizzare nella sua interezza. Non è
mai riuscito a guardarla abbastanza a lungo senza svenire per la nausea.
Ma
qualsiasi cosa sia, è lì, immobile, che preme, tira, spinge, lo trae a sé.
Quando Allen si avvicina troppo, riesce a sentire dei sospiri, caldi e
sibilanti, che lo invitano a venire, che gli offrono il riposo che si è
guadagnato, l’oblio che ormai ogni fibra del suo essere desidera. E seppure sia
per lui qualcosa di ripugnante, attrae Allen come nient’altro al mondo, poiché
nient’altro sembra potergli offrire come quella l’abbandono più completo, la
fine di tutte le sofferenze, degli insulsi risultati di ogni suo stupido, inutile sforzo.
E
in quella bolla si sarebbe già immerso da tempo, spinto dall’egoismo di chi ha
giocato per troppo tempo a fare l’eroe, se non fosse che ciascuna volta che è
sul punto di arrendersi, questa prontamente s’ingigantisce, famelica, sempre di
più dentro di lui, inarrestabile, e procede a inghiottire tutte le sue
certezze, i suoi affetti, i ricordi, come una bestia vorace che si nutre della
sua disperazione; a quell’oscurità non basta il suo sonno.
Vuole
distruggere ogni cosa che sia mai appartenuta a lui. Vuole cancellare la sua esistenza dal mondo.
E
allora Allen automaticamente si ritrae, con il terrore che lo attanaglia e lo
stordisce, cerca di scappare il più lontano possibile, ma invano.
È
come se camminasse in un cerchio. Per quanto provi di seminarla dietro di sé,
correndo a perdifiato, ecco che il vuoto ricompare davanti, insormontabile. È
dappertutto. Come una pupilla senza iride, lo osserva vacuamente compiere ogni
sua mossa, silenziosa, tranquilla, certa che il momento in cui Allen non avrà
più la forza di scappare inevitabilmente arriverà.
Allen
vuole solo dormire. Ma non può, perché, una volta addormentato, non è sicuro di
potersi svegliare.
Dev’essere in preda alle allucinazioni,
perché a un certo punto la voce di Mana chiama dolcemente il suo nome, una
volta, due volte, lo chiama e lo esorta ad andare avanti, e un dito tocca il
suo viso e traccia una scia gelata sulla sua guancia con il polpastrello
freddo.
“Ci
sto… provando, Mana,” dice faticosamente Allen, ma
non sente la sua voce tornargli all’orecchio. C’è solo il rumore di ansiti
pesanti intorno a lui, e un male fisico che s’intensifica sempre di più. Non
riesce a scorgere Mana, e solo allora si rende conto di aver di nuovo chiuso le
palpebre. Ma questa volta, esse sembrano essersi trasmutate in lastre di
pietra.
“Forse
non ci stai provando abbastanza,” ribatte Mana, e a quella risposta
inaspettata, Allen sente il suo corpo fremere, percorso da un brivido violento,
di cui non riesce a comprendere la causa. I battiti del suo cuore aumentano il
ritmo.
Vuole
vedere Mana.
La
sua respirazione raspata accelera. Lo vuole vedere, fosse l’ultima cosa per cui
lottasse. In un attimo, l’unico obiettivo a cui tutta la sua anima mira è
soltanto quello. Perciò combatte con le sue palpebre, incollatesi chiuse, e
quando finalmente riesce ad aprire gli occhi, il senso di spossatezza che lo
invade da tempo sembra cresciuto esponenzialmente.
Il
muro lercio davanti a lui accoglie il suo sguardo, di una staticità e concretezza
quasi irreali. Sbatte ancora una volta le palpebre, incredulo, mentre qualcosa
di umido scivola verso la coda dell’occhio, e i contorni si fanno più netti,
definiti. Il mondo sembra improvvisamente uscito da quella cappa di opacità e
foschia in cui era avvolto poco prima. Lo scorcio di cielo che s’intravede tra
le tre strette pareti che svettano sopra di lui è cupo e privo di stelle, se
non per un sottilissimo spicchio di luna, il cui fioco pallore perlaceo non è
sufficiente a rischiarare quelle tenebre notturne. Più i secondi passano e
Allen continua a guardarla, più la luna pare lentamente tremare e quasi svanire
dalla buia volta celeste. Il vicolo cieco, pieno di bidoni ammaccati e
immondizia nauseabonda, è spettrale, deprimente. Vuoto.
Mana
non è da nessuna parte.
Quell’unica,
patetica goccia di verità, così ovvia e scontata, lo distrugge, lo lacera in
due, con la stessa facilità con cui si strappa un foglio di carta, e Allen vede
distintamente, dietro le palpebre, il suo mondo crollare, sgretolarsi in
frammenti troppo piccoli per poter essere ricomposti più in là. Tutto
semplicemente cade al suolo, con un boato grottesco che rimbalza tra le pareti
del vicolo, e nella sua mente morta, lasciandolo senza alcuna difesa, e
volontà.
Pian
piano, mentre tutto svanisce e la sua mente si svuota di colpo, come una
bacinella piena d’acqua in cui si è aperto un foro sul fondo, il dolore si
attutisce, e diventa distante, come se Allen si stesse allontanando da se
stesso. Guarda quasi con distacco il suo corpo che, accasciato contro il muro e
con le gambe stese in avanti, viene scosso da silenziosi spasmi.
Non
riesce a capire cosa stia succedendo, ma un’apatica passività ha preso il
controllo di lui, e non se ne dispiace. Il dolore sembra ormai lontano anni
luce.
In
quel momento, il suo braccio gli dà un potente strattone, e in una frazione di
secondo, Allen viene posseduto dalla fatale certezza che per lui il treno è
giunto al termine della corsa.
Non
riuscirà a scappare questa volta. L’ultimo scontro l’ha lasciato in quelle
condizioni, non ha la forza per combattere. Non ha neanche avuto la forza per
scappare lontano a sufficienza.
Ha
finalmente raggiunto il suo limite.
C’è
stato un tempo in cui, anche in una situazione disperata come quella, allo
stremo delle proprie forze, semicosciente, con solo una minima possibilità di
sopravvivenza, Allen avrebbe comunque costretto il suo corpo ad alzarsi, con la
forza di una volontà proveniente da chissà dove, e avrebbe combattuto, se non
per vincere, almeno per non morire senza opporre la più tenace resistenza
possibile.
Probabilmente
quel tempo è stato il giorno prima, o persino le ultime ore di luce prima che
calasse sulla città sconosciuta quella fatidica notte, ma Allen non riesce a
ricordare, e si sorprende a non interessarsene. Gli sembra distante una vita
l’ultimo passo compiuto sulle sue gambe, l’ultima parola pronunciata, l’ultimo
sorriso rivolto a una bambina innocente, e ora la sua vista ricomincia ad
offuscarsi, le figure, i muri, i bidoni, i ciottoli, la luna, si fanno sempre
più indistinti, compenetrano l’uno nell’altro originando un’enorme vortice
informe di colori grigi e cupi, mentre il suo cuore, stretto dalla morsa gelida
della consapevolezza, ancora stenta ad accettare il fatto che morirà lì, solo,
come un inutile cane randagio, stremato dalla vita e che non è riuscito ad
ottenere nulla di più da essa se non insuccessi, delusioni, odio, stanchezza.
Allen
non può fare a meno di pensare che il suo cuore si sia illuso troppo facilmente, troppo a lungo.
Il
motivo per cui si fosse imposto fino ad allora di non lasciarsi catturare dalla
presenza dentro di sé gli scivola tra le dita come acqua. Ora, la caparbia
resistenza di una vita intera gli pare assolutamente inspiegabile. D’altronde,
l’idea di sprofondare in un sonno perenne non pare così malvagia.
Quella
regione sconosciuta lo attrae, lo chiama insistente e sorprendentemente calda,
invitante come mai prima d’allora, quasi angosciata, come se questa fosse la
sua ultima occasione di conquistarlo. E quando lui la tocca, con mano tremante,
questa si attacca a lui con l’aggressività di un parassita in fin di vita, e
comincia a salirgli lungo il braccio, a trarlo al suo interno, attorcigliargli
i suoi tentacoli intorno al collo, oltre la mandibola, dentro la bocca. Come
una cappa di nebbia densa e soffocante, senza lasciargli via di scampo.
Non
è piacevole come si aspettava, ma a questo punto non gli importa.
All’improvviso,
la tremolante luce dello spicchio di luna scompare.
“Allen.”
Qualcosa
torreggia sopra di lui. Alza lo sguardo, ma non riesce a mettere a fuoco nulla.
Una macchia indistinta e scura come tutto in quell’orrendo posto. Non riesce a
parlare. Nel silenzio che segue, si rende conto di stare ancora ansimando
pesantemente, e che il suo corpo non reagisce più ad alcun suo ordine, a
nessuno stimolo, l’unica sensazione che avverte in quel mare di insensibilità è
l’ovattato dolore delle scosse che il braccio invia a tutti i suoi nervi quando
si contrae.
Rimane
lì, fermo, con la testa e la schiena appoggiate al muro, come una marionetta
senza fili e danneggiata, a osservare quella misteriosa figura dalle fattezze
che sfumano nel buio circostante.
Qualcosa
rode la sua mente, una sensazione di familiarità che non riesce a collocare.
Nota improvvisamente che la sua memoria custodisce ormai poche immagini del
passato, come un cassetto che è stato ribaltato e svuotato di ogni oggetto al
suo interno, ma in cui sono rimasti impigliati negli angoli e sui bordi i
ricordi più persistenti.
È
una voce già sentita, che inspiegabilmente fa arretrare e fremere d’incertezza
la bolla nera dentro di lui. La sua coscienza è come anestetizzata, immersa in
qualcosa di caldo da cui è difficile uscire. Si sente a disagio, è sicuro che
dovrebbe riconoscere quella voce.
“È
lì?” sussurra qualcun altro a poca distanza.
Allen
non capisce a chi l’altra persona possa riferirsi, ma smette di chiederselo
quando sente delle braccia tirarlo su goffamente da terra.
Per
un attimo cerca di ribellarsi, senza neanche sapere il perché, senza aspettarsi
di essere davvero in grado di porre anche solo una minima resistenza, ma in
tutta risposta la figura lo prende in braccio, tenendolo sotto le ginocchia e
dietro la schiena, e lo stringe a sé con fermezza.
“Smettila
di piangere,” gli impone.
‘Non
sto piangendo,’ vorrebbe dire Allen, ma non trova la sua voce, non si ricorda
neanche più che suono abbia, e se l’abbia mai usata, perciò appoggia sfinito la
testa contro il petto dell’altro.
Attraverso
gli strati di vestiti invernali, l’orecchio di Allen lo sente distintamente: un
cuore batte con regolarità nel petto di quel familiare sconosciuto, e
nonostante non riesca ad avvertirlo direttamente, sa che quel cuore è così
caldo e naturale e umano rispetto al
suo, così sicuro e forte, e lui ne è attratto come un insetto che svolazza,
incantato, attorno alla baluginante e solitaria fiamma di una lampada ad olio.
Mentre
la bolla nero pece si fa più piccola, meno attraente, Allen se ne stacca, con
il tamburellare del cuore che gli invade i timpani, gli riscuote l’anima, e
quando è abbastanza lontano da non sentirsi più nauseato e impaurito al solo
guardarla, finalmente la bolla appare per quello che è: un insignificante buco
nero, rivoltante e odioso. Questa volta, quando Allen se ne allontana sempre di
più, più in fretta che può, quel nero pece non l’insegue.
Le
sue palpebre si chiudono definitivamente. Una sorta di inaspettato torpore lo
assale, e lo spinge nell’oblio con insistenza. I suoi respiri si calmano. Si
accorge che la figura che lo porta in braccio sta camminando, sta uscendo da
quel vicolo orrendo, alla luce giallastra e debole di un lampione, e con lui
c’è qualcun altro. Non gli importa.
“Così… fottutamente pesante, mammoletta
idiota,” grugnisce la voce, mentre le braccia si serrano più strette intorno a
lui.
Allen
accetta a braccia aperte il sonno tanto agognato, libero, stranamente, dal
timore di non svegliarsi più da esso. Un esotico senso di pace e tranquillità
lo pervade, e per una qualche inspiegabile ragione ora riderebbe, se si
ricordasse come si fa.
‘È
Allen,’ pensa automaticamente, un attimo prima di perdere coscienza.
†
Boh, se questo capitolo me lo
recensite con pareri sinceri mi fate un grande piacere :)
Sapete, tanto tempo fa lessi una angstfic, che era scritta così bene che una volta finita
avevo la nausea. Una sensazione stranissima che non mi era mai capitata. Non
piansi né nulla, stavo semplicemente fisicamente male. Mi piacerebbe, un
giorno, essere capace di scrivere una fic del genere.
Ma questo non credo importi ora, lol.