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Autore: miseichan    27/11/2011    9 recensioni
Freddo.
Tirava vento quel giorno.
Il cappuccio calato fin quasi sugli occhi, faceva finta di niente
[Missing Moment di "Bugie Bianche"]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Tutto fuorché uno sbaglio'
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Qualcosa di più

 

 

We’re just fumbling through the gray
Trying to find a heart that’s not walking away

 

Freddo.

Tirava vento quel giorno.

Il cappuccio calato fin quasi sugli occhi, faceva finta di niente.

Non gli importava del freddo, non gli interessava il vento. Niente. Il vuoto.

Si sentiva svuotato, senza emozioni. Era come se non fosse capace di avvertire più nulla.

Qualcosa di tanto in tanto lo toccava, pizzicandolo, urtandolo con precisione: nel punto più giusto, lì dove avrebbe sortito un qualche effetto. Anche minimo, purché ci riuscisse.

E in quelle rare occasioni la sentiva: la solitudine.

Non credeva avrebbe mai saputo cosa significasse essere soli. Sperava di non scoprirlo mai.

Era come essere sul ciglio di un dirupo, dondolati da un vento che non ti è amico ma si finge tale.

Sei lì, sul confine ultimo, e osservi l’immensità sotto di te: sai che un passo falso, anche solo un minimo movimento, può bastare a farti piombare nel vuoto. Cerchi con tutto te stesso di non farlo, di non muoverti: eppure è difficile. E’ doloroso. Una lama cocente che ti stuzzica, infastidendoti.

Una sofferenza continua, duratura. Insopportabile.

Al punto che, guardando il vuoto, cominci a chiederti se non sia meglio lasciarti cadere.

Tirava vento quel giorno.

Il cappuccio calato fin quasi sugli occhi, faceva finta di niente. Come sempre.

La scopa fra le mani, le dita immobili e pallide: congelate dal freddo, screpolate dal vento. Stanche.

Quante altre ore doveva alla comunità? Quanto ancora mancava alla fine di quella sofferenza?

Storse la bocca, un sorriso amaro che gli increspava le labbra: non era il lavoro forzato la fonte del dolore e lo sapeva perfettamente. Non sarebbe bastato semplicemente lasciar cadere la scopa per porre finalmente fine al pizzicore. Ci voleva qualcosa di più affinché il coltello smettesse di bruciare. L’unico problema è che neanche lui sapeva cosa fosse quel qualcosa di più.

Continuò a raccogliere le foglie, ammucchiandole a bordo strada.

Con metodo, ordine e pochissima voglia di portare a termine il lavoro.

Smetterò, te lo prometto.

Sentiva quelle parole riecheggiargli nella mente, sbiadite, sempre più lontane.

All’inizio temeva di dimenticarle, ora sperava solamente che smettessero di ripetersi.

Si affievolivano, smorzate, lasciando spazio unicamente al dolore. Strinse le dita attorno alla scopa, fermo, la vista che si appannava: i colori delle foglie si mischiavano, finendo per amalgamarsi.

Abbassò le palpebre, cercando di riprendere il controllo: non era il momento. Assolutamente no.

Ignorò il pizzicore insistente, quel leggero ma tenace bruciore: non poteva lasciarsi andare. Mai.

Tirava vento quel giorno.

Il cappuccio calato fin quasi sugli occhi, faceva finta di niente. Come sempre.

Si appoggiò al manico della scopa, cercando di reggersi in piedi con tutte le forze che gli restavano.

Socchiuse le palpebre, osservando il mare di foglie da dietro un velo sottilissimo di lacrime.

E fu in quel mare di foglie dal colore indefinito che vide qualcosa che stonava: un foglio bianco.

Si piegò piano, stringendolo con due dita e sollevandolo all’altezza degli occhi: la scrittura non era precisa. Disordinata, sbilenca: trasmetteva una sensazione di fretta e… frizzantezza?

Storse il naso, chiedendosi se esistesse la frizzantezza. Probabilmente no.

Fece per lasciar andare il foglio quando con la coda dell’occhio si accorse di un movimento: voltò appena il capo, un sopracciglio che si sollevava mostrando una di quelle sensazioni che in realtà non lo avevano ancora abbandonato. Una serie di fogli ruzzolava nella sua direzione, sorpassandosi e scavalcandosi a vicenda: guidati e spinti da quella leggera raffica di vento.

Li osservò, incapace di fare alcuna cosa: si avvicinavano sempre più, i primi che già gli sbattevano contro le gambe. Due, cinque, dieci. Afferrò al volo quelli che riuscì, stringendoli convulsamente fra le dita congelate. Qualcuno gli sfuggì, fermandosi poi nel prato alle sue spalle.

La scrittura era sempre la stessa: disordinata, sbilenca e frizzante.

Si guardò pigramente attorno, cercando una spiegazione per quanto era appena accaduto.

Stava per gettare la spugna, il solito senso di malessere che tornava a farsi sentire, quando notò due puntini voltare affannati l’angolo della strada: aguzzò la vista, cercando di inquadrarli meglio.

I due puntini andavano ingrandendosi: sembravano correre anche loro verso di lui.

Bianchi, ecco cosa sembravano: due indefinite sagome bianche.

Continuò a stare appoggiato alla scopa, incapace di distogliere lo sguardo.

Sentiva qualcosa: risatine, forse. O qualcosa di molto simile a gridolini divertiti. Avevano un che di strano, quasi indefinibile. Non era abituato alle risate. Per troppo tempo si era lasciato avvolgere e seppellire da un silenzio irreale, un mutismo suo e di tutto ciò che lo circondava.

Attese, immobile, senza sapere cosa fare.

Aspettava senza saperne il reale motivo: forse, semplicemente, non gli andava di muoversi.

E quei puntini assunsero lentamente la forma di due persone, di ragazze. Correvano verso di lui, veloci, i movimenti scomposti e resi impacciati dalla fretta di raggiungerlo.

Alzò leggermente il capo, osservandole meglio: le forme diventavano sempre più distinte, man mano che si avvicinavano. La prima ad arrivare e a fermarsi ansante davanti a lui era bionda.

I capelli lunghi erano arruffati e scompigliati dal vento: la mano sinistra a mantenere al suo posto un cappello bianco con un pompon azzurro sulla punta, la destra che stringeva due libri e qualche quaderno al petto. Sorrideva, gli occhi blu lucidi per la corsa:

- Sono miei – sfiatò, piegandosi appena sulle ginocchia per riprendere fiato.

Non reagì, le parole della ragazza che gli passavano dentro senza minimamente toccarlo: come se non potessero raggiungerlo. Si era perso, forse. In un posto lontano da cui non sarebbe più riuscito a riemergere. Che fosse il burrone di prima?

- Li ha presi tutti? -

Anche l’altra ragazza li aveva raggiunti: i capelli erano neri, corti. Gli occhi scuri squadravano attenti la zona, come per avere rapidamente la possibilità di prendere in mano la situazione.

Indossava un cappello: bianco, con un pompon rosso sulla punta.

E i due puntini bianchi erano spiegati.

- Credo di no – rispose la biondina, indicando con un cenno del capo quei pochi che erano finiti nel prato – Li prendi tu, Cicì? –

Tirava vento quel giorno.

Il cappuccio calato fin quasi sugli occhi, faceva finta di niente. Come sempre.

Non poteva fare altrimenti.

Allungò verso la ragazza la mano che stringeva i fogli, aspettando che li prendesse e si allontanasse.

Passò qualche secondo, poi un minuto, due e il braccio era ancora teso in direzione della biondina.

- Credo di averli raccolti tutti – tornò sospirando l’altra – Andiamo? -

Scosse appena il braccio, sollevando al contempo lo sguardo per capire come mai quegli stupidi fogli fossero ancora in mano sua. Incontrò gli occhi blu della ragazza e serrò le labbra, teso.

- Non li vuoi? – borbottò, la voce più rauca di quanto non si aspettasse.

Era molto che non parlava? Non credeva di avere un tono tanto grave, così duro. Così non suo.

- Certo – sussurrò la ragazza, afferrando i fogli con un gesto veloce.

Lui annuì appena, impercettibilmente, dando loro le spalle e allontanandosi di un passo.

Aveva ripreso a spazzare la strada, raggruppando le foglie che il vento prontamente portava via di nuovo: un gioco che non riusciva in alcun modo a trovare divertente.

- Grazie -

Non era sicuro di aver sentito bene: forse l’aveva soltanto immaginato.

Esisteva davvero quella parola?

Si girò, non potendone fare a meno: erano ancora ferme lì, poco distanti. Le mani cariche di libri e fogli. Lo fissavano, i sorrisi presenti e appena un po’ smorzati. Sorridevano a lui?

- Grazie, davvero – ripeté la ragazza – Non so cosa avrei fatto senza questa sottospecie di appunti -

- Non ho fatto niente – si strinse nelle spalle lui, burbero come non credeva di diventare fino agli ottant’anni. Il cappuccio gli tagliava la visuale, eppure non si sentiva minimamente di toglierlo.

Le due sorrisero un’ultima volta, cominciando a incamminarsi.

Solo mentre si allontanavano sentì il senso di malessere che tornava a invaderlo: il respiro che si spezzava, sospirò, dandosi dello stupido. Non se ne sarebbe andato, inutile sperarlo.

Ci voleva qualcosa di più, per liberarlo. Qualcosa di più.

- Ti possiamo aiutare in qualche modo? -

Sussultò, alzando di scatto la testa. Il cappuccio scivolò all’indietro, lasciando il volto esangue esposto al vento. Tirava vento quel giorno.

Non erano così lontane: la brunetta camminava piano, a marcia indietro, fissandolo.

Era stata lei a parlare?

- Allora, ragazzino? – fece quella, fermandosi e bloccando anche l’amica.

- Non ho bisogno di aiuto – rispose lui, il mento alto.

Sentiva gli occhi delle due percorrergli il viso e rimpianse la protezione del cappuccio.

Non si mosse, però. Non abbassò lo sguardo né tantomeno diede il minimo segno di cedimento.

- Tutti ne hanno bisogno – sussurrò la biondina, a malapena udibile.

- Non io – ribatté ancora il ragazzo, la mascella serrata.

Le guance scavate, due occhiaie scure sotto gli occhi scavati. Un morto in piedi per miracolo?

- Ti sei perso qualche foglia – ghignò la brunetta, provocandolo.

E lui non capì il giochetto, cascandoci in pieno.

- Vaffanculo – ringhiò, risollevando con uno scatto il cappuccio e allontanandosi veloce.

- Ma vacci tu – ridacchiò una delle due, alle sue spalle.

Le ignorò, cercando di richiudersi in quel suo spazio personale dominato da un silenzio irreale.

Lo preferiva, non era così? Le ignorò. E cercò con tutto se stesso di ignorare anche l’impressione che il malessere, mentre c’erano loro, andasse scemando. Non era vero. Ci voleva qualcosa di più.

Non riusciva a ricreare il silenzio assoluto di prima, c’erano dei passi che lo distraevano.

Passi che si avvicinavano.

- Ti aiutiamo – decise una delle due, costringendolo a voltarsi di colpo.

- Ho detto di no! – sbraitò, la voce che inaspettatamente tornava sua, il tono alto, acuto.

Le guardò, gli occhi scuri e indecifrabili. L’espressione tesa, scosse la testa, esasperato: - No

- Ti aiutiamo – ripeté la brunetta, le braccia incrociate sul petto, perentoria.

E Michele sospirò, le forze che lo abbandonavano senza preavviso: sentì le gambe cedergli, stanche.

Qualcosa o qualcuno aveva fermato la caduta, afferrandolo prima che cadesse a peso morto sulla strada: prese diversi respiri, l’impressione che tutto tranne lui stesse girando vorticosamente.

- Ehi – mormorava qualcuno, forse lo stesso qualcuno che lo aveva preso – Ehi, ehi, ehi -

Socchiuse gli occhi, il fiato corto, cercando di nuovo un contatto con la realtà.

Era seduto, a bordo strada. La scopa abbandonata poco più in là, le foglie che roteavano nell’aria.

- Sei con noi? – chiese una voce, accorata, mentre due occhi scuri cercavano i suoi.

Cercò di annuire, un senso di nausea che lo assaliva prepotente costringendolo a reprimere un conato improvviso. Si lasciò andare all’indietro, gli occhi che si chiudevano.

- Ce la fai ad alzarti? -

Scosse il capo, le labbra dischiuse per cercare di immagazzinare quanta più aria possibile.

- Ci sediamo noi, allora -

Aggrottò le sopracciglia, non riuscendo a capire il significato di quella frase.

Sentì uno spostamento d’aria alla sua destra e poi uno alla sua sinistra: si erano sedute davvero?

Cercò la forza di aprire gli occhi, inutilmente.

- Ci sarà ancora della cioccolata a casa, Cicì? -

- Una tavoletta, mi sembra – rispose la ragazza, il tono pacato.

- No, no – fece l’altra – Intendevo la cioccolata calda: ho una voglia pazzesca di cioccolata calda –

- Ah, sì allora, ce ne dovrebbe essere in abbondanza –

Provava a seguire il discorso, il vento che rumoreggiava in sottofondo. Stava sognando?

Sentì una mano tiepida che gli si poggiava sulla fronte, passando poi alla guancia.

Non si scostò. Avrebbe dovuto, forse, eppure non lo fece.

- Come ti senti? -

- Meglio – mormorò, la voce bassa, il timore di star parlando da solo.

Che avesse perso totalmente il senno?

Il mondo aveva smesso di girare, la nausea sembrava essersela battuta in ritirata. E anche il solito senso di malessere apparentemente mancava all’appello. Possibile?

Socchiuse gli occhi e guardò, pronto a scontrarsi brutalmente con il vuoto.

- Sicuro? – chiese la biondina, un sorriso caldo a piegarle le labbra.

Tirava vento quel giorno. E loro erano lì, sedute sull’erba, a bordo strada: i libri abbandonati per terra, i fogli lasciati al loro destino. Trascinati dal vento era come se giocassero con le foglie, vorticando spensierati, ormai lontani.

- Ragazzino… -

- Michele – sussurrò, istintivamente, passandosi le mani sul viso più volte.

- Michele – sorrise la ragazza – Ce la fai ad alzarti? –

Non fece in tempo a rispondere che si sentì tirare in piedi, scombussolato, sorretto dalle due.

- Andiamo, su -

Puntò i piedi per quello che le forze gli permettevano, scuotendo il capo impercettibilmente.

- Michele – ruotò gli occhi la brunetta, spazientita – Non fare storie -

Lui scosse ancora la testa, sicuro. Non poteva.

- Una tazza di cioccolata calda – sussurrò la biondina, fissandolo candidamente.

Scosse la testa, con meno vigore.

- Niente storie, ragazzino – borbottò l’altra, serrando la presa attorno al suo braccio.

Scosse la testa, di pochi millimetri, le forze che minacciavano di abbandonarlo di nuovo.

- E se aggiungessi all’offerta anche dei popcorn? - sorrise la biondina.

E la testa rimase ferma al suo posto.

Tirava vento quel giorno.

Il cappuccio abbandonato sulle spalle, non riusciva a fare finta di niente.

Possibile che avesse trovato il suo qualcosa di più?

 

 

§

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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