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Autore: Juniper Fox    28/11/2011    2 recensioni
Bathilda/Muriel. Il vento ululava forte, sarebbe arrivata una tempesta. Muriel scostò la tenda e gettò un’occhiata al paesaggio di campagna. Un gufo stava volando con non poche difficoltà verso un luogo a lei ignoto, forse non sarebbe mai arrivato a destinazione. Comunque, non importava. Non c’era uno spiraglio di luce visibile in quel cielo cupo. Ironicamente, pensò, il clima si stava prendendo gioco di lei, perché quegli esili mulinelli formati da foglie secche sembravano proiettare il tormento che provava il suo cuore.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Altro personaggio
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Titolo: Aspetta l’inverno
Pairing: Bathilda/Muriel.
Genere: Drammatico. Slice of life. Malinconico. Introspettivo. Sentimentale.
Rating: Giallo.
Avvertimenti: Femslash. Oneshot. Raccolta.
NdA: E’ il primo esperimento di questo tipo. I capitoli saranno oneshot dedicate ai vari anni a Hogwarts delle due protagoniste, Muriel e Bathilda. La storia comincia nel 1861 (primo anno a Hogwarts) e finisce con la morte di Bathilda.
Buona lettura ♥


*






 *




 

«Ascolta il vento: ti parlerà di me quando ti sentirai sola e mi penserai. I fruscii degli alberi ti ricorderanno i nostri respiri affannati dopo una notte d’amore. Il profumo dell’aria ti rammenterà la freschezza del nostro amore. La pioggia, se mai dovesse cadere, ti farà pensare alle lacrime piante al momento della separazione. Dimentica l’estate e aspetta l’inverno, ogni giorno sarò lì con te.»
 

*


Il primo settembre, in quel lontano milleottocentosessantuno, faceva più freddo del solito. L’estate sembrava essere svanita qualche giorno prima, come per ricordare a tutti che la scuola stava per cominciare. King’s Cross era affollata come al solito, piena di uomini e donne che salivano e scendevano dai treni fumanti, che rendevano l’ambiente pregno di nebbia e grigiore. Nonostante il grigio fosse un colore assolutamente adatto per descrivere Londra nel suo insieme, vi era qualche punta di colore qua e là, soprattutto mantelli e vesti di gente classificabile come “strana”.

Una di queste macchioline colorate era appena entrata nell’atrio della stazione spingendo un carrello carico di svariati bauli e tenuto sotto lo sguardo critico e costante di una bambina di circa undici anni. Il padre, un uomo alto, smilzo e leggermente stempiato, spingeva quel carico pesante, strizzando gli occhi ogni tanto a causa del fumo; la moglie lo seguiva poco distante, più bassa e in carne, ma con un mantello arancione e fucsia che le copriva buona parte del corpo e attirava l’attenzione dei passanti. La bambina, dal canto suo, correva in avanti per poi tornare indietro e dire qualcosa d’incomprensibile ai genitori, che con tutto il frastuono sembravano non comprendere l’agitazione.

«Non lo vedo!» ripeté per l’ennesima volta la bimba, ora ferma davanti ad un muro con i genitori.

«Muriel, tesoro, è proprio qui» le rispose la madre appoggiandole una mano sulla spalla «questo è il muro che separa la stazione babbana da quella magica. Dobbiamo attraversarlo»

Muriel non sembrava per niente convinta delle parole della madre. Osservò nuovamente il muro con diffidenza: lei di certo non avrebbe mai voluto sbattere contro quei mattoni rovinandosi il suo bel faccino. Decise dunque che quando sarebbe arrivata a scuola – il mondo per arrivare doveva essere ancora appurato, ma quello era secondario – avrebbe parlato col preside per fargli capire quanto fosse stupido un passaggio del genere. Muriel non accettava le brutte figure. Mai.

«Andrò prima io, così ti dimostrerò che non c’è niente da temere» le disse suo padre passandole davanti col carrello. Una leggera spinta per prendere velocità e, un attimo dopo,

Muriel lo vide sparire all’interno del muro. Sentì la madre prenderla per mano e attraversare con lei la barriera. La bambina rimase letteralmente a bocca aperta, ritrovandosi di colpo su una banchina e di fronte ad un treno rosso in procinto di partire. A risvegliarla ci pensò il padre, che la chiamò all’attenzione.

«Muriel, vieni! Ti ho caricato il baule, devi salire sul treno» porgendole una mano per aiutarla a salire, le trattenne qualche istante prima di lasciarla andare del tutto. «Scrivici nei prossimi giorni, mi raccomando!»

La porta del vagone si chiuse magicamente e la bambina osservò i genitori e la stazione scorrerle davanti; rimasta sola, decise di andare a trovare un posto per sedersi. Percorse buona parte del corridoio senza trovare scompartimenti liberi – lei voleva assolutamente essere lasciata in pace durante il viaggio – e finalmente, quasi in coda al treno, trovò un posto che sarebbe stato perfetto per lei: le dava la vista su tutta la carrozza perché leggermente rialzato, ed era abbastanza largo da ospitare due persone. Si accomodò sul divanetto e stese le gambe su quello di fronte, tirando fuori un giornale di gossip e leggendo le ultime novità.

Passò una signora col carrello dei dolci, e fu cacciata via senza troppi giri di parole; passarono degli altri bambini del primo anno e furono spediti indietro in lacrime.. Muriel amava la sua privacy e soprattutto voleva fare quel benedetto viaggio da sola.

«Scusa, posso sedermi?»

La voce di quella bambina arrivò a pagina dodici, tra le nuove gaffes del Primo Ministro e la rubrica dei peggio vestiti della settimana. Era una voce bassa e calma, appartenente a una ragazzina di undici anni, proprio come lei – Muriel lo capì perché l’altra indossava già la divisa ed era senza stemma – con un viso tondo, un paio di occhiali rettangolari e neri sul naso e i capelli castani raccolti in due treccine.

«Non vedi che è occupato questo posto? Se ti siedi, poi dove li metto i piedi?»

Le parole uscirono piuttosto gracchianti e scontrose, ma la bambina non si mosse; rimase lì a fissare Muriel negli occhi, come in attesa di un cenno positivo.

«Sei sorda? Ti ho detto che non c’è posto!»

«Mi chiamo Bathilda, piacere» la bambina si sedette in un angolo del divanetto, nuovamente in attesa di parole gentili, ma questa volta aveva deciso di presentarsi. Muriel, forse più scandalizzata di prima, la guardò con espressione stralunata.

«Ma cosa sei, di zucchero? I tuoi genitori ti hanno comprata in pasticceria?»

«Con quell’atteggiamento non troverai mai degli amici. Come ti chiami?»

A Bathilda evidentemente non importava che Muriel avesse tentato di mandarla via trattandola male – e ciò colpì un poco quella ragazzina bisbetica. Calò il silenzio tra le due e, mentre la ragazzina castana aveva tirato fuori un libro, l’altra decise di presentarsi.

«Muriel» esclamò infastidita, pronunciando il proprio nome come se fosse stata quasi un’offesa. «E cerca di non disturbarmi più di quanto tu non abbia già fatto»

Il viaggio, dopo la presentazione, continuò senza intoppi, e le due bambine rimasero in silenzio a leggere fino all’arrivo alla stazione di Hogsmade. Lì, furono aiutate da alcuni degli studenti più grandi a salire su delle carrozze incantate che le avrebbero portate alla prestigiosa scuola di Hogwarts. Ogni tanto Muriel e Bathilda alzavano gli occhi in direzione l’una dell’altra, senza mai incrociare gli sguardi – nemmeno di sfuggita.

L’atrio dove rimasero per qualche minuto era spazioso (o forse erano loro a essere in pochi?) e il soffitto aveva un’altezza indefinibile. La sensazione d’impotenza, all’interno di quel posto, rendeva nervosa Muriel, che non vedeva l’ora di ritirarsi nella sua camera per potersi riposare. La professoressa Bell, una donna formosa e dal sorriso gentile, si presentò per scortarli alla cerimonia dello smistamento.

«Quando chiamerò il vostro nome, verrete avanti e indosserete il cappello» disse rivolta ai nuovi studenti. Uno per volta si fecero avanti per sedersi su uno sgabello e farsi appoggiare sulla testa un cappello parlante. Tassorosso aveva guadagnato tre nuovi studenti nel giro di pochi minuti, Grifondoro era a quota due.

«Bathilda Bagshot» chiamò la professoressa. Come tutti quelli prima di lei, la bambina avanzò e lasciò che il cappello parlante venisse posto sulla sua testa. I minuti passarono, e

Muriel si chiese come mai l’oggetto ci stesse mettendo così tanto tempo. Il silenzio fu rotto dall’urlo che sanciva l’appartenenza di Bathilda a Corvonero, casa delle menti geniali.

Elladora Black fu la prima a finire a Serpeverde, mentre Marjorie Campbell divenne una Grifondoro. Muriel aspettava impaziente il suo turno, spostando continuamente lo sguardo dal cappello, alle tavole, ai suoi compagni ancora in attesa. Se avesse potuto, avrebbe sicuramente fatto un urlo per dire a tutti di muoversi – sì, forse suo padre aveva ragione a dire che era un tantino impaziente.

«Muriel Shrewmore!» Finalmente toccava a lei. Sicura di sé, l’undicenne si fece avanti e andò ad accomodarsi sullo sgabello. Passò qualche minuto, nel quale la ragazzina assunse diverse espressioni buffe, poi il cappello emise il suo verdetto. «SERPEVERDE!»

Muriel, contenta, si diresse verso la tavolata verde-argento, accomodandosi accanto a Ursula Flint ed Elladora Black. Seguì con disinteresse gli ultimi due smistamenti, – Kendra Tawel divenne una Corvonero e Adrian Dawlish un Tassorosso – ascoltò distrattamente il Preside, Dexter Fortebraccio, spiegare le regole della scuola e si guardò attorno. I suoi occhi vagarono sulle altre tavolate, scrutando i vari ragazzi parlottare tra loro. Prima di iniziare a mangiare, comunque, il suo sguardo incrociò quello di Bathilda, la bambina del treno. Fu solo un attimo, ma incise profondamente sugli anni successivi.

*


Il vento ululava forte, sarebbe arrivata una tempesta. Muriel scostò la tenda e gettò un’occhiata al paesaggio di campagna. Un gufo stava volando con non poche difficoltà verso un luogo a lei ignoto, forse non sarebbe mai arrivato a destinazione. Comunque, non importava. Non c’era uno spiraglio di luce visibile in quel cielo cupo. Ironicamente, pensò, il clima si stava prendendo gioco di lei, perché quegli esili mulinelli formati da foglie secche sembravano proiettare il tormento che provava il suo cuore. Muriel chiuse gli occhi per qualche istante, ricordando la prima volta che l’aveva incontrata; ricordò come, senza volerlo, si fossero cercate.

Era tardi ormai, e le gambe non la reggevano quasi più. La pergamena stretta nella mano sinistra fu lasciata cadere a terra senza tanti complimenti, lasciandola libera di prendere il bastone e dirigersi verso la camera da letto. Era certa che quella sera l’avrebbe sognata, avrebbe riascoltato la sua voce, rivisto i suoi occhi. L’inverno era arrivato, e con lui ogni ricordo si faceva più vivido.

   
 
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