IL TOCCO DELLA NEVE
Il suo urlo squarciò il buio della
notte. Si sedette sul letto, madido di sudore. Quell'incubo lo perseguitava da
un po': vedeva fiamme intorno a sé, fiamme inclementi che facevano liquefare la
sua pelle chiara, trasformandola in una colata di lava rossastra. Si passò una
mano sulla fronte per asciugarla, senza tanti complimenti. Fu un gesto veloce e
privo di grazia. Non si sentiva aggraziato, non si sentiva un essere umano.
Aveva perso sé stesso, la sua ragione di vita, il suo orgoglio e non capiva
cosa aspettasse a farla finita.
Sono un vigliacco.
Era
vero? Forse. Si sentiva a pezzi, si sentiva particolarmente inutile in quel
nuovo corso che la sua esistenza aveva intrapreso o gli era stata propinata a
forza, che la cosa gli piacesse o no.
Si
rese conto di essere totalmente fradicio, le lenzuola erano umide, così scivolò
veloce fuori dalla loro presa e le sradicò con malagrazia dal letto. Mise su un
lenzuolo pulito, poi si diresse verso il bagno. Aveva bisogno di una doccia,
anche per levarsi quella sensazione di dosso, quella tensione data
dall'adrenalina, forse il terrore che aveva provato a vedere sé stesso
sciogliersi come cera.
La luce del bagno fu impietosa, come
sempre, su di lui e quello specchio appeso sul lavandino era da qualche tempo
il suo confessionale. Che gli piacesse o no, non poteva sfuggire al riflesso
del suo volto. Beh, spesso lo specchio aveva fatto una brutta fine, ma in quel
periodo trovava che era un modo economico, semplice e solitario per sputarsi in
faccia e per detestarsi più di quanto non avesse fatto in passato.
Si fissò negli occhi azzurri, così
limpidi quanto stretti in due fessure inquietanti, illuminate da uno sguardo
sinistro. Lo stesso sguardo fu rapito subito dall'orribile cicatrice che portava
come una medaglia, l'unica, di tutta quanta la sua storia. Almeno in quel caso,
quella volta, era stato eroico, potente e risoluto e aveva goduto di questa sua
qualità. Oh, sì, che ci avesse rimesso mezza faccia e una spalla era
decisamente un merito, non un errore. Quanto se l'era goduta a mostrarsi
sfigurato al suo rivale!
Guarda di cosa sono capace!
Era
questo che gli aveva detto con lo sguardo, quando, per un attimo questi si era
voltato a guardarlo. Ora non aveva luogo dove posare quegli occhi inquieti, men che meno sul viso di lui. Con che coraggio? Con quale
orgoglio? Era perduto, andato, finito completamente, quando, come un topo in
trappola, si era fatto aiutare, quando la sua strada si era interrotta, quando
non aveva modo di risolvere il caso, pur avendo una prova meravigliosa tra le
mani.
Sospirò. Che brutti pensieri! Che
brutti ricordi! Lasciò perdere il filo dei suoi ragionamenti infausti, che
tendeva ad aggrovigliarsi su quell'unico punto, un buco nero che risucchiava
qualunque pregio della sua esistenza. Lanciò pantaloni e biancheria in un
angolo del bagno ed entrò nella doccia. Aprì l'acqua, che schiaffeggiò gelida
la sua schiena, poi lentamente si intiepidì, fino a diventare talmente calda da
produrre vapore.
Nella
nube intorno a lui la mente vagò ancora. Era difficile per lui non pensare;
l'unico modo era agire in qualche maniera, ma non è che avesse tanta
possibilità di fare qualcosa. Al momento era ancora un ricercato, con due
omicidi importanti sulle spalle, omicidi che non aveva commesso, ma non è che
chi lo cercasse stesse lì a sottilizzare.
«Devi
restarne fuori adesso.» gli aveva comunicato la voce incolore di Near.
«Cosa?!»
era tutto quello che la sua rabbia gli aveva permesso di esprimere, per quanto
di cose da dire al suo rivale ne avesse, nessuna troppo gentile.
Near
si voltò a guardarlo. Lui era lì, impalato e tremante, le guance arrossate da
quella che si potrebbe definire rabbia mista a vergogna.
«Ho
elaborato un piano e tra due giorni sarà messo in atto. Al momento tutti ti
credono morto e va benissimo così.»
Lo
sguardo degli sgherri di quel nanerottolo bianco lo pungeva da due schermi
appesi alle pareti e dal volto non troppo amichevole di Rester,
che pareva aver messo su una particolare simpatia per il suo rivale. Non aveva
scelta, non aveva possibilità di decidere un bel niente. Così era restato fuori
da tutta quanta la faccenda, nel senso che non gli fu spiegato nemmeno tutto il
piano, quasi non fosse degno di sapere niente. L'importante era che se ne
stesso buono, senza fare nulla.
Non muovere un dito era stato più
difficile di quanto pensasse. Non poteva nemmeno parlare, discutere con Near, unica persona che riteneva comunque degna di avere
una conversazione decente con lui; gli altri erano decisamente inferiori per
meritare la sua attenzione. Ogni volta che faceva obiezione su quella parte di
piano che conosceva, veniva zittito.
Chiuse il rubinetto della doccia.
Prese un asciugamano pulito e si asciugò alla bell'e meglio. Strofinò i suoi
capelli con rabbia e li lisciò un po', dato che pareva un pazzo con i capelli
per aria, l'espressione truce e il volto sfigurato.
Ma vaffanculo!
Nella
sua nudità varcò la porta del bagno e non si stupì di trovare Near seduto sul suo letto. Non l’aveva sentito entrare,
come sempre. Near strisciava silenziosamente nelle
stanze e solo dopo ti accorgevi della sua presenza, quando il tlack dei suoi
puzzle ne svelava l’essenza.
«Vattene.»
disse secco Mello, mentre tirava fuori dal cassetto
del comodino dei vestiti puliti.
«Vorrei
parlare con te.» confessò il ragazzo albino con tranquillità.
Mello
lo fissò, poi spostò lo sguardo sulla sveglia sul mobile.
«Alle
tre di notte?» chiese senza tanta enfasi nella voce. In teoria il contenuto
della frase avrebbe fatto desistere chiunque, ma non Near
che, semplicemente, constatò che sì, erano le tre, ma lui era sveglio.
Non
voleva discutere, di conseguenza si sdraiò ostinatamente sul suo letto, pronto
per dormire. Diede le spalle al suo dannato ospite e decise che ignorarlo era
la sua arma migliore... prima di decidere di prenderlo e gettarlo fuori di
peso, poteva provare a ignorare.
«Vorrei
che tu non fossi così testardo.» iniziò il nanerottolo e Mello
lo immaginò arrotolarsi una ciocca di capelli su un dito.
«Non
sempre ciò che si vuole si può ottenere.» rispose il biondino, tenendo gli
occhi saldamente chiusi.
«Io
lo so.» fu la frase di rimando del ragazzo e a Mello
sembrava che avesse sottolineato quell'io
in modo crudele, cosa che chiunque, avesse sentito quella voce monotona, avrebbe
mai pensato o rilevato.
Questo
bastò a far scattare il ragazzo che si sedette e inchiodò lo sguardo sul viso
del suo interlocutore.
«Near, esci di qui.» il tono usato fu basso e minaccioso, ma
non scalfì l'espressione indifferente dell'altro.
«Parliamo.»
«E
di cosa?!» stava perdendo quel briciolo di pazienza che aveva in dotazione, un
piccolo granello nel mare agitato della sua anima.
«Intanto
vorrei ringraziarti, sarei morto se tu non avessi scoperto che si poteva
scrivere anche su un frammento di quaderno.»
«Peccato.»
il sarcasmo fu difficile da nascondere. Near lo
ignorò.
«Senza
di te non ce l'avrei fatta.»
«Il
concetto era chiaro anche prima.»
«Non
sono migliore di L, quindi non potevo essere migliore di Yagami,
che ha battuto L.»
«Gran
ragionamento da bambino di sei anni.»
Era
un battibecco assurdo. Mello pensava decisamente che
quella era una situazione surreale e indesiderata. Se avesse potuto andarsene
dalla sede dell’SPK, lo avrebbe fatto giorni prima. Purtroppo doveva stare a
sentire anche le chiacchiere del suo rivale.
«Io
e te batteremmo di certo L e tu questo lo hai sempre saputo, anche se ti sei
ostinato a voler agire per conto tuo.»
Questo
zittì Mello per un po' che, a gambe incrociate,
osservava lo sguardo perso, che non lo sfiorava, di quel ragazzo sbiadito,
seduto in una posizione stramba e con una dito avvolto dai suoi capelli candidi.
«Dove
vuoi arrivare?» Near non faceva discorsi tanto per
parlare, non parlava mai per riempire i silenzi, ma aveva sempre uno scopo
preciso, un obiettivo.
«Lavoriamo
insieme. Roger ha intenzione di prendere il posto di Watari
e noi possiamo superare L.»
Mello
sbuffò.
«Sai
che non lavoriamo bene insieme, ci hanno costretto a farlo alla Wammy's House ed è finita che abbiamo fallito, dove altri,
in basso nella classifica, sono riusciti.»
«Eri
tu a non voler collaborare.» ricordò Near, senza
addolcire la pillola.
«Sì,
perché non mi piace lavorare con te.» una risposta ostinata, che fu
accompagnata dalle braccia incrociate al petto.
«Non
è questa la ragione. Tu non accettavi di perdere contro di me, di essere dopo
di me in classifica e pensavi che lavorando insieme avresti esaltato le mie
qualità, che mi avresti aiutato, ma anche allora non era così.»
Mello
sapeva che Near stava dicendo la verità. Collaborare
per lui significava impersonare il ruolo del pezzo di puzzle nelle mani abili
di Near, capace di mettere insieme gli indizi di
qualunque natura. Si sentiva un mezzo, un tramite, non un soggetto alla pari e
questa cosa gli faceva saltare i nervi.
«Entrambi
abbiamo dei limiti che non riusciamo a superare, ma insieme siamo capaci di arrivare
dove l'altro fallisce.»
Il
ragionamento di Near era sempre pulito e corretto e Mello si trovava in difficoltà nel contraddirlo: era
maledettamente bravo con le parole. Quel nano ci sapeva fare, ma lui non aveva
la minima intenzione di essere collaborativo. Ok, era vero, anche quando
sarebbe finita tutta quanta la faccenda di Kira, lui
non avrebbe avuto un posto dove andare. Beh, questo era un problema a cui si
poteva rimediare facilmente, ma quale sarebbe stato il suo scopo?
A
fregarlo in tutti gli anni passati all’Istituto e quelli dopo, di solitudine,
di corsa a briglia sciolta nella società, era il suo perseguire un obiettivo
preciso, chiaro, lapalissiano: battere Near, mostrarsi
superiore, vincere e diventare l’erede di L.
A
fregarlo era che lui era l’unico che ci tenesse per davvero. Gli altri ragazzi
della Wammy’s House o si sentivano troppo piccoli di
fronte al detective o erano consapevoli che non erano poi così portati per
l’investigazione, ma lui era diverso, lui considerava L un mito da raggiungere,
qualcuno a cui tendere. Nemmeno Near era così
interessato alla cosa, all’inizio; solo nel tempo era cresciuta dentro di lui
la consapevolezza di potercela fare a diventare l’erede.
Eppure
entrambi impallidivano di fronte a L. Fu terribile la notizia della sconfitta
di quel mito e forte la voglia di vendicarlo. Ma Mello
sapeva di non essere abbastanza; era una consapevolezza piccola piccola, relegata nel fondo, nella cantina della sua
coscienza. Ecco, Near aveva l’ardire di tirarla
fuori. Quanto lo odiava!
«Cosa
vorresti dimostrare? Lo so che abbiamo dei limiti, siamo esseri umani alla
fine.» disse ormai scocciato da quella presenza sul suo letto.
Near
parve stupirsi della risposta.
«A
me piacerebbe lavorare con te.» disse a bruciapelo.
Mello
inarcò l’unico sopracciglio rimastogli. Ci mancavano gli entusiasmi repressi di
Near.
«Penso
che questo tuo desiderio non si avvererà.» parlò come si fa con i bambini
piccoli: semplice e chiaro.
«Hai
dei progetti diversi?»
La
risposta era no, non c’erano progetti. L’unica cosa che forse poteva realizzare
era diventare un vero criminale: finora si era servito di loro e sì, qualche
volta aveva osato, ma era sempre protetto dalla sua capacità di usare il
cervello. Near sapeva che non poteva fare altro, al
momento.
«Non
farmi domande stupide!» rispose stizzito.
«Allora
proviamo, proviamo a lavorare insieme. Non hai niente da perdere.» poi Near fece qualcosa di completamente folle e incomprensibile:
posò la sua mano su quella di Mello.
Era
fredda, congelata. Pareva fosse fatta di ghiaccio, no … di neve, tanto si era
posata delicatamente su quella dell’altro ragazzo. Mello
guardò prima quella strana sovrapposizione, poi cercò gli occhi di Near: questa volta lo guardava intensamente, con gli neri e
profondi, in tutto quel mare di bianco.
Certi
ricordi tornarono alla mente del biondino, dettagli, indizi di qualcosa che non
reputava importante allora, ma che adesso, forse perché cresciuto e con
esperienze dure alle spalle, avevano un senso e un peso diverso.
Ripensò
a Near seduto in corridoio, in sala comune, mai in
giardino, intento a giocare per conto suo.
Da
solo, sempre da solo.
Non
c’era mai nessuno accanto a lui. Non gli piaceva molto condividere, era gentile
ed educato quando declinava gli inviti a uscire fuori o a fare una qualunque
cosa insieme ad altri. I suoi rapporti con gli ospiti dell’istituto parevano di
cortesia, come se fossero stati impiegati in qualche ufficio e l’unica
conversazione che riuscissero ad avere fosse fatta di convenevoli, di “scusi”,
“prego” e “si figuri!”.
Mello
ebbe un brivido.
Che
vita di merda …
Lo
pensò tranquillamente e con un po’ di dispiacere. Ora, si rendeva conto, quel
ragazzo così odiato gli stava tendendo una mano, non solo metaforicamente,
perché, e questo fu un’epifania terrificante, lui era stato il solo e unico
essere umano a cui aveva rivolto il suo interesse.
Dear Mello …
Pure
quelle due parole dietro la sua foto divennero più chiare. Lui era tutto quello
che si avvicinava di più alla parola “amico”. Lui capiva i suoi ragionamenti
astrusi senza troppa fatica, lui poteva capire come ci si sentiva ad essere
orfani e con un QI da paura, lui sapeva cosa significava essere diversi e, per
quanto non sapesse nulla della vita di Near prima
della Wammy’s House e degli ultimi cinque anni, era
sempre la persona più vicina nel sentire.
Sentiva
che quel nano lo stava fregando, di nuovo, per l’ennesima volta; questa, però,
era la prima che lo vedeva consapevole di realtà fino a quel momento ignorate,
era la prima che lo vedeva complice e accondiscendente.
Forse
una possibilità poteva dargliela. Collaborare con lui non sarebbe stato una
passeggiata, la pensavano diversamente su tante, tantissime cose, ma erano due
persone sole, di una solitudine interiore che non aveva pari in nessuno che li
circondava. Per quanto Rester fosse affezionato al
suo capo (Mello sospettava che ormai lo considerasse
un figlio) non poteva capire cosa volesse dire essere Near,
essere un genio, essere una speranza per gli altri e sentirne il peso sulle
spalle. Near non era fragile, questo era fuori
discussione, forse era più forte di lui e Mello aveva
imparato a incassare anche questa sconfitta, ma anche chi è forte e intelligente
ha bisogno di essere confortato, di essere capito, di non dover sprecare parole
e far bastare uno sguardo per comunicare. Nessuno però sapeva cogliere queste
sfumature. Mello sì.
«Senti
un po’» disse infine il biondino, ritraendo la mano da quella del nanerottolo «facciamo
finta che io accetti. Metto in chiaro una cosa: io non sono un tuo sottoposto.»
questa era una cosa ovvia e Near annuì.
«Non
prendo ordini nemmeno dai quei tre che ti stanno incollati e qualunque cosa, qualunque, la decidiamo insieme. Voglio
un perfetto 50 e 50.»
«Alla
pari.» specificò Near.
«Bene,
proviamo a fare questa cretinata.» disse Mello,
tornando a sdraiarsi per dormire.
Tenne
gli occhi aperti e le orecchie vigili a qualunque rumore. Non sentì Near muoversi per giungere alla porta e tornare nella sua
camera o in sala monitor.
«Che
altro c’è?» chiese Mello con la pazienza agli
sgoccioli.
«Posso
restare ancora un po’ qui?» questa volta il biondino avvertì un tono
particolare, una richiesta da bambino di cinque anni.
«Fa
come vuoi.» sospirò «Basta che non mi svegli o non russi. Ho il sonno leggero.»
Quanto
voleva guardarlo in faccia! Resistette all’impulso di voltarsi, specie quando
lo sentì accoccolarsi contro la sua schiena, posare su di essa la fronte e le
manine fredde fermarsi vicine alla sua pelle.
Che
cazzo di situazione!
Nota dell’Autore
Buonasera,
cari lettori!
Ho
iniziato questa storia in un momento di noia infinita, dopo il lavoro. Avevo
due ore di attesa e le ho rese produttive. Oggi ho trovato una conclusione appropriata.
La cosa strana è che ho iniziato questa fan fiction partendo dal titolo, cosa
che non faccio mai. Probabilmente l’abbinamento Near-neve
è banale, forse già usato, ma sarà anche il clima freddo ad aver contribuito a
questa scelta.
Povero
Mello! Che gli tocca fare! Si vogliono bene, sotto sotto … molto sotto, conoscendo Mihael.
A me poi Near dà sempre un po’ di bambino.
Spero
vi sia piaciuta!
Lady
Snape