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Autore: Neal C_    13/12/2011    2 recensioni
[POV Vari]
[BIKE]
Il loro segreto così ben custodito va amenamente a farsi benedire.
E di questo ne fa ne spese Joey, sconvolto fino al midollo, in periodo di ribellione contro l’invasività del padre, e il povero Billie che passa da un casino ad un altro.
Solo Mike rimane impermeabile all’accaduto, dimostrando un egoismo insospettabile oltre che la più totale incapacità di esprimere i propri sentimenti fino in fondo...
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Billie J. Armstrong, Mike Dirnt, Nuovo personaggio
Note: Lime, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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[Joey’s POV]

Apro gli occhi e lancio un’occhiata al soffitto sopra di me.
Un normale soffitto bianco da cui pende una lampada con uno di quei palloni di carta che si scassano e si devono cambiare ogni volta.
Ma non è il soffitto di casa mia.
è un mese che non torno a casa mia.
All’inizio c’era grande agitazione in famiglia: tutti a cercarmi,  a chiamarmi sul cellulare, a domandarsi se devono avvertire la polizia, a chiedere in giro se avevano visto “il figlio di Billie Joe Armstrong”.
Poi un giorno sono tornato a casa e ci ho trovato mio padre che scriveva freneticamente su uno dei suoi fottuti quadernini, strapieni di stronzate che poi sentivo sulla bocca dei miei compagni di classe.
Vorrei gridarlo a tutto il mondo: Billie Joe Armstrong è un immaturo del cazzo.
Un bambino, un ragazzino arrapato che mette il broncio, che va in giro con la matita sbavata a quarant’anni, che perde tempo a scribacchiare sui suoi quadernini le stesse cazzate che scriveva quando ce ne aveva diciassette, di anni.
E poi ovviamente va a letto con il suo migliore amico.
Mi fai schifo.
Gliel’ho detto.
Sei un frocio e sei un figlio di puttana.
Gli ho detto anche questo.
E per una volta non ha neppure aperto bocca.
Poi gli ho detto che me ne andavo, che non volevo essere cercato, che non rompessero il cazzo, lui  e la mamma con la loro stupida ansia da genitori isterici.
Non lo sono mai stati, vogliono cominciare adesso?
L’unica cosa di cui non riesco a perdonarmi è di aver lasciato lì Jake.
Quello non ha capito un cazzo come al solito, a lui basta che nessuno litighi, che tutti siano contenti ed era al settimo cielo quando mamma ha riaccolto papà.
No, io non sono contento, Jake.
E non ti spiegherò il perché, sei troppo piccolo.
Non crescere in fretta, Jake, poi ti ritrovi nella merda.

“Buongiooornoo”
“Ehi”

Volgo lo sguardo verso il ragazzo accanto a me che si strofina gli occhi con il dorso delle mani e sbadiglia.

“Ehi, Jo, che or’è?”
“ ’cazzo ne so.”
“mmhm”

Ralph si appoggia su un fianco e rimane per un attimo a fissarmi instupidito, intontito dal sonno.
Mi da fastidio.
Ogni tanto si ferma a guardarmi, poi si riscuote, abbassa lo sguardo, fa un commento, il più delle volte stupido e poi ciascuno sulle sue.
Io a rimuginare, lui a disegnare.
Per tutto il mese mi ha ospitato lui dopo che avevo chiesto a Cole di trovarmi un posto che non fosse casa sua o di uno dei miei conoscenti.
Non voglio essere rintracciabile, non voglio più ricevere telefonate, visite, suppliche.
Non ho ancora intenzione di tornare, se mai l’ avrò.
Voglio sparire, voglio che il mondo non mi trovi più.
Forse dovrei lasciare questa città di merda.

“Ehi”
“Che vuoi?”
“Mi passi le sigarette?”
“Cristo, non si respira! Almeno fammi aprire la finestra!”
“Ok.”

Non ho voglia di alzarmi ad aprire la finestra e rimango ancora steso, con la coperta appallottolata ai miei piedi.
Non so bene che faccio durante la notte ma la mattina il mio letto sembra un campo di battaglia, come se mi fossi agitato per cinquecento.
Ma come fa, appena svegliato a fumare?
è impressionante quanto cazzo fuma Ralph.
Fa fuori tre pacchetti al giorno, in media, fino ad un massimo di cinque, ha i denti gialli, ogni tanto tossicchia e sembra perennemente raffreddato, con il naso chiuso pieno di catarro.
E ha solo cinque anni più di me.
Sfumacchia praticamente sempre tranne quando lavora.
Fa il tatuatore, disegna tatuaggi su misura e ama il suo lavoro alla follia.
Ha lavorato a bottega dal padre per sei anni e adesso si alternano al negozio che sta in uno dei vicoletti di Little Tokio.
Casa sua è a qualche strada dalla bottega mentre il padre vive nell’appartamento sopra il negozio.
I miei non mi cercherebbero mai qua.

“Ehi, Jo! Cazzo, ti sbrighi?”
“E che fretta hai? Non rompere.”

Sbuffa, infastidito e un ciuffo di capelli scuri, liscissimi da vomitare, si spettina, scoprendogli la fronte.
Come tutti i cinesi, giapponesi o quello che sono, ha gli occhi a mandorla e i capelli piastrati che lui porta semicorti  e scompigliati, con un’ombra di gel e un colorito pallido o giallognolo, a seconda della luce.
Ralph Dayu Nishimura è nato qui in America, mi ha confessato di non essere mai stato in Giappone e non sembra interessargli molto. Si incazza se lo chiami Dayu o Nishimura o se lo chiami giapponese perché si considera un americano a tutti gli effetti.
D’altronde la sua famiglia è qua da generazioni.
A parte la sindrome da giappo-rifiuto è abbastanza normale come coinquilino; ha i suoi spazi, è riservato ma sa essere un buon amico.
Cucina riso e verdure in tutte le salse e i suoi hamburger sono fantastici.
Di meglio non mi poteva capitare.
Mi tocca alzarmi per andare ad aprire la finestra e rovistare sul pavimento della stanza in cerca delle sigarette.  Trovo un pacchetto di Philip Morris blu, semivuoto,  abbandonato sul pavimento sotto la sedia della scrivania.  Lo raccolgo e lo lancio sul divano-letto sfatto che dividiamo.
Diciamo che chiunque abbia progettato questa casa contava di vivere da solo o con una compagna. Punto.
Sono trenta metri quadri di monolocale con bagno e angolo cucina, né Ralph si è preoccupato di riempirlo, anzi c’è un sacco di spazio.
C’è un divano letto a due piazze, un armadio, una libreria piena di cd e dvd, qualche libro qua e là, centinaia di fumetti, americani e giapponesi, un televisore, una scrivania con portatile, carte e impicci vari, un tappeto con motivo geometrico davanti al divano.
Questo è tutto. Non c’è nemmeno un tavolo da pranzo, solo un tavolo di legno pieghevole che va cacciato fuori dall’armadio, insieme alle sedie.

Tanto oramai mi sono abituato a mangiare sul divano quindi tanto piacere.
Il patto è questo: io pubblicizzo il suo locale, gli porto clienti e lo faccio entrare gratis ai concerti e lui mi ospita.
Le pulizie si fanno a turno, la lavatrice la fa lui, il letto lo rifaccio io, chi cucina non lava i piatti.
Vado alla ricerca dei miei jeans, dispersi da qualche parte.

“Senti, quanto pensi di stare?”

Mi blocco, per un attimo mi si gela il sangue nelle vene.
Mi sta cacciando?!

“Che significa?”
“Naa…boh…per sapere.”
 

Si tira a sedere, si accende una sigaretta, aspira e caccia una nuvola di fumo, da grande fumatore quale è. Trovo finalmente i Jeans e me li infilo.
Non posso negare che si sta molto più comodi in boxer, ma, al contrario di mio padre, io non giro mezzo nudo per casa, specie quando non sono solo.

“Cosa hai intenzione di fare ? Ci torni a scuola si o no?”

Questa conversazione è appena iniziata e già mi sta rompendo i coglioni.
Si facesse i cazzi suoi!

“Ma che cazzo di domande fai?!”
“Boh, per sapere.”

Si, è un mese che manco da scuola.
Ufficialmente i miei mi avrebbero iscritto ad una scuola privata dall’altra parte della California.
Ma di fatto anche questo fa parte dell’accordo e quella della scuola privata è solo una formalità per evitare denunce per mancato obbligo scolastico o come cazzo lo chiamano loro.

 

“Hai litigato con i tuoi e quindi adesso addio manager e produttore, non vai a scuola, non sai fare un cazzo a parte suonare e sei bloccato dal contratto con la Adeline Records…che pensi di fare?”

Mi irrita. Non fa altro che sputare fumo come una ciminiera, guardarmi interessato, enigmatico con quel sorrisino stronzo che fanno sempre i cinesi-giapponesi o quello che è, quando hanno a che fare con il resto del mondo. Tutto uno stupido inutile via vai di convenevoli.

“Non so. Potrei andare a dormire sotto i ponti…almeno non avrei qualcuno che cerca di sfrattarmi di casa con piccole allusioni stronze.”

Non so cosa farò.
Prima avevo tutto e non ero contento, adesso non ho niente è sto di merda.
Morale della favola: il bicchiere è sempre mezzo vuoto e non esistono grandi scopi nella vostra vita.
Qualunque cosa facciate prima o poi starete di merda.

“Senti, io una cosetta per te ce l’avrei.”
“Che roba è?”
“Tu sei amico del proprietario del ‘Connecticut’ , no?”
“Embé?”

Si interrompe, si stiracchia, fa un bel sospiro accompagnato da un sorrisetto sornione e sputa fuori altro fumo. Ecco un altro aspetto di lui che mi irrita profondamente.
Una volta che conquista la tua attenzione diventa di un patetismo e di un teatrale che ti fa venire voglia di mandarlo a fanculo.
In genere lo faccio, ma per una volta sono seriamente interessato a quello che potrebbe propormi.


“Sai, ho incontrato Barry, l’altra sera, mentre suonavate.”
“Che cazzo c’entra Barry?”
“Niente…abbiamo parlato, qualche birretta. Una serata piacevole.”
“…”

Altra pausa d’effetto, altro tiro di sigaretta, una scrollatina di spalle.
Gradisce caffè, the, biscotti, magari pane burro e marmellata, nel frattempo?!

“Non sei curioso di sapere di cosa abbiamo parlato?”
“Se magari la pianti di dire stronzate e vai al punto…”
“Beh, abbiamo parlato del tuo amico del ‘Connecticut’.
E…abbiamo concluso che non va.”
“Cosa non va?”
“Non può continuare ad ignorarci.”
“Che vuoi dire?”
“Non fare lo stupido, Jo.”

So cosa vuole. Ma non dipende da me e lo sa benissimo.
Circa due mesi fa, suonavo al ‘Connecticut’con i miei ragazzi, giravano birre, qualche alcolico più serio, gente che andava, veniva, urlava, insomma il nostro solito casino.
Poi venne il momento della sbornia-post concerto e ci avvicinò un cino-giapponese di quelli giallognoli, malaticci con quattro peli neri in testa e gli occhi famelici.
è impressionante come alcuni di questi dimostrano almeno vent’anni più della loro età e  poi sembrano quasi viscidi, untuosi, cerimoniosi fino a farti venire il vomito.
Ci presentammo. Non ci potevo credere che si chiamava Barry e non YingYung o roba del genere.
Glielo feci notare non so quante volte mentre ridacchiavo come un idiota ma lui non si scompose più di tanto.
Credo volesse farmi ubriacare perché non faceva altro che ordinare birra e si fece portare anche un cognac per fare uno “spuntino”.
Insomma alla fine voleva che io convincessi Cal ad affittare loro una delle soffitte del locale per vendere della “roba”.
Da Cal non circolava né fumo né droghe. Erano vietate.
Se ti coglieva in flagrante, lui non ci pensava due volte a chiamare la polizia.

“Non ci posso fare niente, Ralph, lo sai…”

Per un attimo mi sembra di scorgere due fessure al posto degli occhi scuri di sempre e il suo volto si irrigidisce in una smorfia di disappunto. Sento il rumore dei suoi denti che cozzano, i superiori contro quelli inferiori  come un animale che addenta a vuoto, un coccodrillo che apre e chiude le fauci minaccioso.
Poi sputa fuori, a voce bassa, ma chiara:

“Stronzate”

Faccio finta di non sentire.
Non voglio averci niente a che fare.
Non voglio essere coinvolto negli affari fra locali e spacciatori, tanto meno fra locali a me anche troppo familiari e gli spacciatori di Little Tokio.

“Jo, quel lavoro ci serve”
“Ho fame.”

Mi muovo da lì,  cercando di non pensare a Cal, al ‘Connecticut’ e ai casini in cui è invischiato Ralph.
Sento il divano-letto che scricchiola, ormai invecchiato sotto il peso-piuma di un futon e di un ragazzo di massimo cinquantotto chili. Qualche volta, quando lo guardo, ho l’impressione che prima o poi mi si sbriciolerà davanti agli occhi tanto mi sembra sottile e fragile.
In effetti non fa altro che lamentarsi che nelle risse le prende sempre.
Non farebbe paura nemmeno ad una formica.

 

“Jo, piantala di cambiare discorso.”
“Ho detto che ho fame. Punto.”

Gli ringhio contro e sbuffo come un cavallo tanto che il ciuffo ribelle che ho sulla fronte mi scivola sul naso, i capelli mi pungono gli occhi. Da quanto tempo non vado dal barbiere?
Ho sempre tenuto i capelli corti, con quelli lunghi sto male; in fondo ho ereditato quella faccia di cazzo da mio padre. Sono costretto a rimettere a posto la ciocca sovversiva con un gesto brusco.
L’ho zittito. Sono uno dei pochi da cui si fa zittire anche se non ho mai capito perché ho tutta questa presa su di lui. Non è certo uno dei miei migliori amici, anzi, fino a qualche giorno fa non lo consideravo nemmeno tale.

“Nel frigo ci sono delle uova.”
“Non ne ho voglia. Esco.”
“E dove vai?”
“E che ne so?
Non ti preoccupare, mammina, torno per cena.”

Ho la bocca ancora impastata dal sonno e non ho per niente fame.
Semplicemente me ne voglio andare da qui, almeno per qualche ora, anche perché so che difficilmente potrei trovare altrove un posto migliore di questo; quindi datti una calmata, Joey, e non tirare troppo la corda con quello lì.
Ma, proprio ora, non si respira qui dentro e non parlo certo dell’ennesima Philip Morris che pende dalla bocca di Ralph.



******************

Ho fatto una sorpresa a Sarah e mi sono presentato sotto casa sua, intimandole di scendere se aveva il coraggio.
Era da una settimana e mezzo che non ci vedevamo; o meglio era una settimana e mezzo che mi sfuggiva, che io pretendevo una risposta.
Forse ho fatto una scemenza, quella sera, a quella festa, a dichiararmi, con un mazzo di fiorellini strappati dal giardino di un certo Tim, il festeggiato che non conoscevo nemmeno di nome, mezzo ubriaco, dopo che mi ero imbucato solamente per poterla vedere.
Non so che impressione le ho fatto ma certo non devo essere apparso un giovanotto brillante e raccomandabile come la maggior parte dei damerini che frequentano la sua scuola.
Lei però si è messa a ridere, ha accettato i fiori, mi ha accompagnato in bagno e mi ha tenuto la testa mentre vomitavo l’anima. Poi, il giorno dopo, mi sono svegliato nel salotto di casa sua, con una coperta addosso e una lettera di lei al mio fianco:

Ho preferito non svegliarti, tanto oggi sicuramente ti saresti sentito di merda, dopo la sbronza che ti sei preso ieri. E avresti bigiato comunque scuola, quindi non fa differenza.
A proposito di ieri…dammi qualche giorno per pensarci, ok?
Sei stato frettoloso, anzi non so nemmeno se stavi facendo sul serio o era solo una presa per il culo.
Comunque sei stato carino a strappare quei fiori dal giardino di Tim solo per darli ad una mezza sconosciuta. La prossima volta magari lascia perdere, stanno benissimo dove stavano.

Sarah


Non so cosa abbia raccontato ai suoi ma mi sono ritrovato in casa, da solo, con la donna delle pulizie che mi guardava storto perché era quasi mezzogiorno e finchè non me ne fossi andato lei non avrebbe potuto rassettare il soggiorno.
Inutile dire che ricordavo tutto e in quel momento ho sperato che mi rispondesse di si.
è per questo che sono andato sotto casa sua, dopo essere fuggito da Ralph e l’ho minacciata di arrampicarmi fino al suo balcone se non avesse accettato di vedermi.
Lei è scesa, tutta bardata come un’eschimese, ridacchiando nella sciarpa color panna, dicendo che ero un rompiballe, che lei aveva la febbre e in teoria non avrebbe dovuto mettere piede fuori di casa.
Le ho detto che magari, per una volta, poteva far lavorare un po’ quei dannati anticorpi e darmi la soddisfazione di vederla disobbedire ai suoi.
Troppo carina e accomodante, troppo educata e obbediente.
Che pensasse un po’ a divertirsi...
eppure forse era per questo che mi era piaciuta fin dal primo momento.
L’ho portata al Lunapark come si fa con i bambini piccoli, le ho offerto il pranzo e poi, qualche ora più tardi un bastoncino di zucchero filato.
Verso le cinque mi ha detto che era ora di tornare ma io non avevo ancora avuto la mia risposta.
Avevo disertato le prove con il gruppo per questo, avevo mollato Ralph che forse mi aveva aspettato per pranzo, o forse no. Insomma, in quel momento volevo solo sapere se il suo era un si.
è stupido tremare come un bambino alle prime armi ma non riuscivo a stare calmo, avevo le mani sudate e ogni tanto arrossivo quando sentivo il suo sguardo intenso, con quegli occhi verde chiaro che mi investivano, facendomi venire i sudori freddi.
Poi lei aveva capito e aveva cominciato a parlare, con l’aria seria di chi deve confessare una cosa importante.

Joey, tu...per me sei stato una scoperta...un vero amico...non ci avrei mai creduto se ti avessi incontrato in un’altra occasione...

Ecco di cosa avevo paura; che mi dicesse che per lei ero solo un amico, con cui si trovava a suo agio, a scherzare, ad andare in giro cazzeggiando allegramente, ma che non sarei potuto essere nient’altro.
Lei era così vicina, i suoi occhi erano così chiari, la fronte aggrottata come se dovesse concentrarsi per scegliere bene le sue parole, per non farmi troppo male, per rifiutarmi con gentilezza e tatto, perché lei faceva tutto con gentilezza e tatto.
Vedevo le sue labbra muoversi a rilento, mentre da quella distanza notavo piccoli particolari del suo viso, con un piccolo baffetto nerastro che faceva timidamente capolino sopra al labbro oppure quel neo che le dava un’aria esotica ed aristocratica, sulla guancia.
Eravamo ad un soffio; e ogni secondo che passava sentivo che mi avrebbe detto no.
E invece quando aveva finito la frase non avevo potuto trattenere un’esclamazione sorpresa, quasi non ci credessi io stesso.
Poi mi ero sporto in avanti e l’avevo baciata.
Le sue labbra sapevano ancora di zucchero filato, avrei voluto mangiarmele pian piano ma temevo che si potesse ritrarre e fuggire da un momento all’altro.
Ci era voluto qualche secondo perché si rilassasse e ricambiasse timidamente il mio bacio.
Come al solito ero troppo impetuoso e lei mi riportava alla calma.
Avevo continuato a premere, stavolta con gentilezza, non volevo lasciare quella bocca zuccherosa, anzi volevo assaporarla con la lingua che fremeva per avere la sua parte.
Mentre lei si lasciava andare e mi concedeva l’accesso a quell’antro di miele, per un attimo ero stato distratto da una figura che si avvicinava di gran corsa a noi.
Rimasi stupefatto quando riconobbi Ralph che la agguantò per un braccio spingendola di lato, via da me, come un uragano furioso che si abbatte su una delle coste del Pacifico.
Ho assistito alla scena, basito, mentre il mio coinquilino urlava, rosso in faccia come un tacchino e schiumante di rabbia:

“Chi è questa puttanella, eh?
Chi cazzo sei, piccola stronzetta? Da dove sei spuntata?
LUI E’ MIO, CAPITO? MIO!
Mettitelo in testa, troietta e torna nel bordello da dove sei venuta!”

Ero troppo sconvolto per reagire; avrei dovuto difenderla e invece me ne sono stato lì impalato, a guardare Ralph che la spintonava, sempre più lontano da me finchè lei non sembrò fuggire via in lacrime.

“La prossima volta che ti ritrovo a ronzare intorno a lui ti spacco quel bel faccino del cazzo che ti ritrovi!”
“Ralph...che cosa stai dicendo?”

Finalmente trovai la forza di parlare, attirando la sua attenzione.

Quello mi si avvicinò minaccioso, con fare sbrigativo e mi latrò contro, aspro:

“Adesso tu vieni a casa con me e non azzardarti a rivedere mai più quella sciacquetta.”
“Ma chi cazzo ti credi di essere per decidere con chi devo o non devo stare?!”
“Mi sono rotto di aspettare che tu capisca. O sei un coglione che non capisce un cazzo o sei un grande stronzo!”

Qualcosa avevo intuito ma non mi piaceva neanche un po’.
E quando non mi piace una cosa tendo ad ignorarla o a non pensarci e basta.
Ma adesso che mi veniva sbattuta in faccia con violenza, ne avevo paura.
Non avevo mai visto Ralph fuori di sé e non era un bello spettacolo.

 

“Piantala con queste idiozie. Lasciami in pace.”

Poi lo sentii arpionarmi il braccio con una rapidità impressionante. Sentii la sua mano stringermi forte il polso, tanto violentemente da farmi male, come se volesse lasciarmi l’impronta delle sue dita sulla pelle.

“No, tu non te ne vai.”
“Lasciami andare! ”
“Tu non torni da quella! Io la faccio a pezzi!
 Non ti dividerò con quel verme insignificante.”
“Ma ti rendi conto delle stronzate che dici?! LASCIAMI SUBITO!”

Tentai di sferrargli un pugno ma quello mi afferrò anche l’altra mano e mi tirò a sé tanto che, nella furia, gli caddi addosso.
Sentivo le sue mani sulle mie spalle, un formicolio sulla schiena man mano che scendevano, mentre mi spingeva a sé senza che potessi liberarmi da quell’abbraccio che assomigliava più alla morsa con cui il ragno ghermisce una mosca, rimasta intrappolata nella sua ragnatela.
Poi appiccicò le sue labbra sottili sulle mie, cercando di forzarle con la lingua, invasiva come una piccola serpe. Sembrava volesse mangiarmi, prendermi a morsi mentre la sua bocca, attaccata alla mia pelle come una ventosa, mi stordiva con il suo intenso puzzo di fumo,  mi teneva ancorato a sé facendo pressione con il suo busto contro il mio petto e togliendomi il fiato, il suo tocco era brutale e possessivo.

Solo quando mi accorsi che mi stava slacciando la cintura dei pantaloni, solo allora mi riscossi e lottai disperatamente per liberarmi. Lo avevo strattonato così forte che era caduto all’indietro e questo era bastato a indebolirlo abbastanza per sciogliere l’abbraccio. Lui, nel cadere si era aggrappato a me disperatamente e mi aveva strappato la camicia,verde militare, facendo saltare qualche bottone ma io gli avevo calpestato una mano con il piede e Ralph aveva mollato la presa, con un grido rauco.
Poi avevo preso a correre con quanto fiato avevo in gola.
Lui, con il fiato corto che aveva, non mi avrebbe mai raggiunto.

****************


[Ollie’s  POV]

Quasi non ci ho potuto credere quando, dopo mesi e mesi di silenzio, mi sono ritrovata davanti mio nipote in uno stato pietoso.
Aveva la camicia strappata, il pantalone e le scarpe da ginnastica piene di fango, i capelli luridi, ispidi e secchi, come paglia, sulle braccia qualche livido nero, una puzza di fogna e una faccia stravolta. Non so cosa gli sia capitato, non ne ha voluto parlare con nessuno.
Quando ho aperto la porta lui è rimasto a guardarmi per un po’, gli occhi lucidi, rossi e gonfi di chi ha pianto, poi mi si è lanciato contro e l’ho abbracciato stretto stretto.
Singhiozzava, piagnucolava cose senza senso e si stringeva a me come quando, da bambino, aveva paura del buio e non si addormentava se non fra le mie braccia o quelle della mamma.
Non gli ho chiesto niente, l’ho messo a letto, ho cantato per lui come avevo fatto con i molti neonati che erano passati fra le mie braccia, ma faticava a prendere sonno. Gli ho preparato una camomilla, con un cucchiaino di miele sciolto dentro; gli avevo misurato la febbre e aveva quasi trentanove.
Quella notte si è svegliato gridando aiuto contro un certo Ralph che sembrava popolare i suoi incubi, che lo aveva inseguito, perseguitato, che lo voleva morto.
Aveva impiegato un’altra mezz’ora a calmarsi e a riaddormentarsi.
Per tutta la settimana lo avevo tenuto a riposo, a casa mia all’insaputa di tutti.
Era stato lui stesso un giorno a telefonare ad Adrienne e dopo mesi, finalmente si erano rivolti la parola civilmente. Con mio figlio non aveva voluto parlare.
Poi un giorno lo avevo visto mentre osservava quasi intontito il titolo di un articolo di cronaca cittadina:



Arrestato giovane trafficante giapponese, pazzo e violento

ha quasi aggredito una ragazza nel suo appartamento, a South Park

 


Pian piano si è rimesso e tutto sta tornando come prima.
Ha ripreso a frequentare la sua vecchia scuola, suona ancora per locali e fa le prove della band con i suoi amici ma vive ancora da me. Si è fatto portare qui la batteria.
Spesso va a trovare Jake, oppure Adie viene da noi per un pranzo e lui è contento, torna a ridere. Ha cominciato anche a chiedere di suo padre.
Ogni tanto lo vedo però con lo sguardo perso nel vuoto e mi chiedo cosa stia pensando.

 

The End

 

 

 

Non so quanto possa andarvi a genio questo capitolo ma vi assicuro che è stato un luuungo parto.
Mi dispiace da morire per avervi fatto aspettare tanto ma avevo perso totalmente ispirazione e in parte anche interesse per questa storia e non riuscivo più a scrivere niente per questa sezione.
Spero di riprendermi in fretta!
Una cosa è certa, con questo capitolo non ho chiarito un bel niente ma forse è meglio così.
E poi difficilmente io risolvo qualcosa quindi perché cambiare proprio ora? :3
Immaginate pure voi come può essere andata ma dopo il casino che ho combinato all’inizio ho pensato che potevo rendere tutto ancora più drammatico, senza grandi riconciliazioni strappalacrime a cui non crede nessuno perché in fondo è solo quando tocchi davvero il fondo che ti accorgi di quanto siano importanti persone a te vicine, anche se ti hanno ferito e deluso.
Spero di non aver sconvolto nessuno a parte il povero Joey ma in effetti scommetto che se la passa benissimo, ignaro di tutte le scemenze che ho scritto su di lui. Salute a lui.
Grazie mille a tutti coloro che hanno voluto seguire/ricordare/commentare/preferire.

Misa

  
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