Fanfic su artisti musicali > Jonas Brothers
Ricorda la storia  |       
Autore: novalee_ack    20/12/2011    7 recensioni
"La gente non ha quello che si merita, ha quello che gli capita. E nessuno di noi può farci niente."
[...]
Posò lentamente le sue mani sulle mie gambe e mi fece scivolare verso di lui. Finì seduta a cavalcioni sulle sue cosce. Posai le mani fredde sul suo petto nudo e quel contatto mi fece quasi male, per quanta fosse la differenza di temperatura tra me e lui. Mi prese una mano e intrecciò le sue dita con le mie. «Sei la cosa più bella e vera che sia mai stata mia», sussurrò flebile. Feci quasi fatica a capire le parole che uscirono dalla sua bocca.
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Joe Jonas, Kevin Jonas, Nick Jonas, Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Another Day
 


Camminavo.
Camminavo e basta. Ormai era l'unica cosa che mi riusciva bene, camminare. A pensarci bene, nella mia vita nulla mi era mai riuscito bene, anche respirare, mi diventava giorno per giorno sempre più difficile, come lo era la mia vita, anche troppo per una ragazzina di diciassette anni.
Vivo in un quartiere malfamato di Brooklyn da tutta la vita praticamente. Non ho mai visto altri posti in vita mia e non ho mai conosciuto persone nuove, forse perché non sono molto socievole o forse perché la maggior parte delle persone mi vuole morta.
La mia casa, se così si può definire, è un piccolo appartamento al quarto piano di un palazzo senza ascensore e senza una persona che se ne occupi. Vi lasciò immaginare perché ogni volta non perdo occasione per paragonarlo ad un porcile.
Sono figlia unica, fortunatamente. Mia madre prende ancora la pillola, così che nessun altro povero e innocente essere umano patisca tutto il dolore che ho patito io.  
E' tutto complicato nel mio mondo, anche camminare per strada tranquillamente senza che nessuno provi a puntarti una pistola addosso oppure un coltello alla gola. A me è capitato, credetemi. 
Mio padre è stato sbattuto dietro le sbarre qualche settimana fa, finalmente. Sì, è stato un sollievo sapere che ora è dentro e che ci resterà per un bel po’, almeno così le mie ferite avranno tutto il tempo necessario per rimarginarsi. Non abbiamo mai avuto un buon rapporto io e mio padre, sono quasi convinta che tra di noi non ci sia mai stato un vero e proprio rapporto. A stento ci salutavamo la sera quando ritornava a casa, e questo succedeva raramente, che lui ritornasse a casa. Gli piaceva vivere per strada, spacciare, bere, e anche uccidere di tanto in tanto. Direi che l'ergastolo se l'è meritato. Ed ora io sto bene, almeno credo.
A scuola ci vado, solo perché mi ci hanno costretto, altrimenti, dicevano loro, se ne sarebbero occupati gli assistenti sociali, e sinceramente, la mia vita fa già abbastanza schifo e finire in una specie d’istituto o qualcosa del genere non mi sarebbe stato d'aiuto. 
C'è chi dice che la propria vita fa schifo in un momento di rabbia, quando si è disperati per un’unghia spezzata, quando tutto non va come avevi immaginato. Neanche io avevo immaginato tutto questo per me.
Da piccola sognavo sempre che un giorno avrei indossato dei bei vestiti, avrei potuto tenere i capelli come piacevano a me e farli crescere lunghi quanto quelli di Raperonzolo, così da poterli calare giù dalla finestra e farci salire su il mio principe azzurro. Cazzate! 
Sognavo che qualcuno alla fine mi avrebbe salvato dall'uomo nero che ogni sera mi picchiava e abusava di me, mio padre. Un’altra cazzata o forse no. «E' tutto okay piccolina», mi ripeteva ogni volta. Come poteva essere tutto okay, come?  
Ma dopotutto uno dei miei sogni si era realizzato, anche se dopo tredici lunghissimi anni. Mi era stato tolto qualcosa troppo presto, e quella potevo definirla la mia vendetta. 
Mia madre era una bella donna, ma con il fumo, i problemi che le portavo io, il suo fidanzato con il quale litigava ventidue ore su ventiquattro, la casa, il suo schifosissimo lavoro, i suoi anni parevano essere sessanta invece di trentasette. Il suo viso era ormai tracciato da profonde rughe agli angoli degli occhi e della bocca. La sua voce, che un tempo era stata squillante e vivace, ora era spenta e rauca. «Tutta colpa del fumo», continuavo a ripeterle. «Quando la smetterai di fumare quella roba che ti fa solo male?», urlavo ancora. Lei non mi ascoltava. Per lei era come se il mondo fosse tutto uno schifo, ma io sapevo che non era così. Lei non lo capiva, non capiva che se avessi perso lei avrei perso tutto. Non lo capiva.
Di amici non ne ho. Dove abito io non esiste la parola "amicizia", per loro e tutta una questione di guerra per il potere tra le varie gang. Quante persone ho visto morire davanti ai miei occhi, quante persone hanno sprecato la propria vita senza neanche averla vissuta veramente. Voi non potete neanche minimamente immaginare quante volte mi sono ritrovata sul letto di un ospedale con una pallottola ficcata in una gamba o per una coltellata che mi è costata ventitré punti al fianco sinistro. Per tutte quelle volte che sono tornata a casa ricoperta di sangue da capo a piedi e vedere mia madre piangere ogni volta. Purtroppo questa è la mia vita, questo è quello che mi circonda ogni giorno, questo è quello che vedo, sento e tocco. E' qualcosa che non si può spiegare, ma io voglio provarci. Voglio che qualcuno sappia della mia vita, di come trascorro ogni attimo senza pensare che qualcuno possa uccidermi da un momento all'altro. Voglio far capire a tutti come ci si sente a non avere niente, cosa si prova ad avere come unica amica la paura.
Il mio nome è Stephanie Grey, ma tutti mi chiamano Fanny.
 
 
«Io esco!», urlai prima di chiudermi la porta alle spalle. Mi chiedevo perché mi ostinavo a farlo ancora, tanto loro non mi sentivano comunque. Mia madre e il suo fidanzato, che litigavano, ancora. Le loro grida erano tanto forti da coprire anche il suono della musica rock che ascoltavo nella mia camera a tutto volume. Chissà da dove prendevano tutta quell'energia per urlarsi parolacce a tutta forza in quel modo. 
Scesi velocemente le scale, io non prendevo mai l'ascensore. Non sono paranoica o qualsiasi altra cosa, è solo che non mi piace l'idea di rimanere rinchiusa anche per pochi secondi in quella cabina scura e piccola quanto il nostro televisore a venti pollici.
Controllai la posta, cosa che facevo quotidianamente, e niente di niente. Solo qualche ragnatela e tanta polvere. Mi strinsi ancora di più nella mia felpa grigia, ormai consumata, e alzai il cappuccio sulla mia testa, nascondendo i miei lunghi capelli castani e coprendo anche gran parte del mio viso.
 «Merda! Ho dimenticato l'ombrello». La pioggia cadeva sempre più forte e sembrava intenzionata ad averne ancora per un bel po’. Fatto sta, che non avrei rimesso piede in quella casa, anche solo per prendere l'ombrello. Sbuffai e m’incamminai a passo svelto verso il parco giochi abbandonato.
Anche quel giorno il cielo piangeva e il Signore aveva deciso di abbattere la propria ira ancora una volta su Brooklyn. Lampi e tuoni erano uno scenario perfetto per scrivere, sfogarsi su delle pagine bianche. Andavo sempre allo stesso posto a scrivere. Lì mi sentivo come a casa in un certo senso. Potevo piangere, ridere, urlare, senza che nessuno lo sapesse. Era il mio rifugio, sì.
Entrai nella piccola casetta di legno che si reggeva a malapena, ma che era in grado di reggere ancora me. Calai il cappuccio zuppo d'acqua e lo strizzai. Stessa cosa feci con i capelli, dopodiché li legai in uno chignon arrangiato. Tirai fuori dalle tasche della felpa, una sorta di diario segreto e una piccola matita.
 
Ciao Mon,
Come va lassù? E' una palla, vero? Qui non si può dire lo stesso.  Sembra di essere in un videogioco, dove si spara, si spara e basta. La gente pensa solo a sparare. Dormo con una pistola sotto il cuscino Mon. Dopo l'episodio dell'altra sera mia madre non ci ha capito più niente e così ora dormo con un pezzo di acciaio che mi fa compagnia durante la notte.
Ho paura Mon, tanta. Non voglio morire, non così, con un colpo di pistola. Ho paura di soffrire, di sentire tanto dolore. 
Tu hai sofferto molto quando ti hanno sparato? Quanto vorrei che tu fossi ancora qui con me. Non sai quanto mi manchi. Non passa giorno che io non pensi a te e a quel maledettissimo pomeriggio. Quando te ne sei andata proprio davanti agli occhi miei. Quando sono ritornata a casa con i vestiti sporchi del tuo sangue. Quando eri ancora troppo giovane e non sapevi neanche cosa significasse davvero vivere, amare, odiare.
Oggi ripensavo alla prima volta che ti vidi. Ti odiavo, perché avevi i capelli più lunghi dei miei. E poi il mio stupido soprannome? Fanny.
Vorrei tanto essere con te in questo momento...
Mamma e Cody litigano come due bestie, e poi dicono di amarsi. Che stronzate! Ma devo ammetterlo Mon, mi sento meglio da quando papà è in carcere. Sto bene.
Ora ti saluto Monique, e mi raccomando, tienimi il posto accanto al tuo quando ti raggiungerò.
 
Tua,
Fanny.
 
Richiusi il piccolo quadernetto e riposi tutto nelle tasche della felpa. 
Mi faceva sempre bene parlare con lei. Mi sentivo più sollevata e per un po’ smettevo di pensare a dove mi trovassi. Era come se mi catapultassi in un’altra dimensione per quei quindici minuti. A volte mi chiedevo se tutto ciò che le scrivevo le arrivasse davvero. Non c'era cosa che non scrivevo sul mio diario. Monique sapeva tutto, così era prima che la uccidessero e così sarà fino al giorno in cui non uccideranno anche me, a quel punto potrò raggiungerla e parlarle davvero. 
Mi alzai da terra. Il legno era bagnato e puzzava di fango. Affondai i piedi nel terreno, poco me ne importava che si sporcassero le scarpe, e iniziai a camminare a testa bassa, con il cappuccio calato sugli occhi. 
Non avevo affatto voglia di ritornare a casa, meno tempo ci passavo e più stavo bene con me stessa. Quindi, decisi che sarei passata prima a prendere un caffè.
In quel momento rimpiansi il mio lettore mp3 che ruppi qualche mese prima in preda ad uno dei miei attacchi di rabbia. Il tragitto che facevo ogni volta da casa al parco e dal parco a casa era troppo lungo e senza musica mi sembrava sempre più tortuoso.
Sentii dei passi pesanti avvicinarsi. Avrei dovuto avvertire un senso di paura, di minaccia. Ma non me ne curai minimamente.
«Stephanie Grey», disse una voce alle mie spalle. Non mi voltai, continuai a camminare. «Stephanie, ho bisogno di parlarti», continuò, sempre con quel filo di malizia. Ma io non lo ascoltai, come sempre, e continuai a camminare. Mi si parò davanti all'improvviso e gli urtai contro. «Non ho niente da dirti, Joseph Parker», dissi con disprezzo, sputando il suo nome come se fosse veleno. Gli girai attorno e ripresi a camminare. La sua mano, afferrò prontamente il mio braccio, bloccandomi. «Lasciami», sibilai a denti stretti, ma lui non mi ascoltò.
«Mi servono i miei soldi Grey», disse.
«Mi hai forse scambiato per un bancomat?». Cercai di divincolarmi dalla sua presa, ma niente. Il cane non voleva mollare l'osso.
«Non mi sembra il momento di scherzare. Rivoglio i miei soldi e subito. Riferisci questo messaggio a tuo padre». Mi fece l'occhiolino e mi lasciò il braccio.
«L'hanno sbattuto dentro mio padre, dovresti saperlo, no?». Mi uscì con così tanta naturalezza. 
«Non m’interessa! Procurati i tremila dollari che mi devi, o meglio, che tuo padre mi deve e dopo ti lascerò in pace». 
«Non c'è li ho tremila dollari e anche se c'è li avessi non li darei di certo a te. Ora scusami ma devo andare».
«L'ergastolo, eh? Gli è andata male questa volta. Insomma sei figlia di un assassino. Com'è che si chiama il tuo ragazzo? Carter? Povero... Non sa niente su di te, della tua vita e della tua famiglia. Sarà un trauma per lui quando scoprirà tutto, non credi? Perché glielo dirai vero? Oppure lo farò io. Voglio i miei soldi Grey, entro la fine della settimana!». Rise, come se quello che aveva appena raccontato fosse una barzelletta e non la mia schifosissima vita.
Sentivo gli occhi accendersi dalla rabbia, diventare sempre più infuocati. Le mani chiuse a pugno iniziavano a tremarmi. Quanto avrei voluto avere la forza di un lottatore di sumo per spaccargli la faccia e metterlo KO. «Lascia in pace me e la mia famiglia!», urlai. Mi allontanai da lui, ma riuscì lo stesso a sentire quel «Voglio i miei soldi». 
Entrai nel primo bar che mi capitò davanti e ordinai un caffè, che portai via con me. 
 
Quando misi piede in casa, fui meravigliata dal silenzio che regnava nell'aria. Posai le chiavi sull'isola della cucina, tolsi le scarpe ormai da buttare, la felpa bagnata e i jeans sporchi di fango. Rimasi con addosso solo la biancheria. Andai nella mia camera e tirai fuori dall'armadio il vestito più bello che avevo e lo poggiai sul letto. Presi lo scatolo bianco delle mie scarpe nuove e le poggiai sulla scrivania. Non me ne intendevo di alta moda, sapevo solo che erano il regalo più bello che avessi mai ricevuto. Era stato Carter ovviamente, il mio fidanzato. 
Lui abita fuori città e non sa quasi niente sulla mia vita reale. Ogni volta passa a prendermi alla stazione dei treni, dove per arrivare puntuale sono costretta a scendere da casa mezz'ora prima. Ma per lui avrei fatto questo ed altro.
Non volevo che scoprisse della mia famiglia, del posto in cui vivevo e della mia vita. Sapevo che l'avrei perso se l'avessi fatto. Il mio teatrino andava avanti da più di un anno e per ora era giusto che fosse così. Entrai nella doccia e lasciai che l'acqua bagnasse ogni centimetro del mio corpo. Lavai i capelli lunghi con lo shampoo alle erbe e passai il bagnoschiuma alle more per tutto il corpo. Mi depilai con cura le lunghe e formose, anche troppo per i miei gusti, gambe. Sono sempre stata una ragazza in carne, non grassa, ma solo con qualche chilo di troppo e i fianchi un po’ troppo pieni. A Carter piacevano, diceva che lo facevano impazzire. Sorrisi ripensando a quando facemmo l'amore per la prima volta e sembrò molto contento delle mie curve, che apprezzò non poco. Lui ha due anni in più di me e lo conobbi una delle poche volte che andavo in spiaggia con Mon. Era bellissimo. Posso dire che fu amore a prima vista. Asciugai i capelli e li lasciai lisci, al naturale. Indossai il reggiseno e gli slip non abbinati, ma entrambi dello stesso colore. Presi il vestito nero a maniche lunghe e lo indossai. Il tessuto fresco mi avvolgeva delicatamente le braccia, il seno e le cosce. Non volevo apparire troppo volgare, ma neanche troppo sciatta. Così scelsi una collana e un paio di orecchini di perle, entrambi erano stati di mia nonna. Truccai i miei occhi verdi smeraldo con sfumature di nero e grigio brillantinato, e colorai le mie labbra con un rossetto color pesca. Calzai le scarpe nere, troppo alte per i miei gusti. Quella sera mi sarei permessa un taxi per arrivare alla stazione. Presi una piccola pochette e ci infilai dentro tutto ciò che mi sarebbe servito. Presi la giacca dall'appendiabiti e uscì di casa, lasciando un messaggio a mia madre su un post-it. Ok, ero pronta per affrontare Carter e la cena con i suoi genitori.

 


-
Molto probabilemte qualcuna di voi si sarà già imbattuta inq uesta ff.
Bè, non so come, ma un bellissimo giorno non ho più ritrovato la mia storia dove l'avevo lasciata.
Ci tenevo e ci tengo molto tutt'ora, e non ho voluto sprecarla. Così ho deciso di ripostarla. (:
Non ho molto da dire, solo che per scriverla ci ho messo davvero molto, e non mi dispiacerebbe sapere cosa ne pensiate <3
Good night,
Lee.
   
 
Leggi le 7 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > Jonas Brothers / Vai alla pagina dell'autore: novalee_ack