Natale sportivo
Sotto una coltre perenne di nuvole e
pioggia…
Isabella storse il naso, mentre cercava di descrivere con poche semplici parole
il clima di Forks.
Essere una scrittrice era davvero un
lavoro duro!, pensò mentre annuiva tra sé e buttava giù quelle righe. Era
sera quando l’ispirazione la colse improvvisamente, richiamando con un’urgenza
fisica il bisogno di non lasciar fuggire via quelle idee che ormai le
affollavano la mente.
Mentre era assorta nella contemplazione dello schermo del computer, Charlie
raggiunse l’uscio della porta, rimasta socchiusa.
Non palesò la sua presenza, non era da lui irrompere nella camera della figlia.
Amava i suoi spazi, così come li amava lei. Avevano lo stesso carattere
riservato, timido e chiuso, ma c’era una luce che esprimeva tutta la sua
determinazione ogni volta che si trasformava nella scrittrice.
Isabella non si vantava mai dei suoi lavori nel campo dell’editoria, sebbene
qualche piccolo successo li avesse ottenuti. Era umile, modesta, ma sapeva
riconoscere quando un suo progetto meritava la giusta attenzione.
Charlie sorrise, seppur con quei grandi baffi neri con qualche spruzzata di
bianco, non si riuscisse a scorgere granché quel segnale di orgoglio che
caratterizza ogni genitore.
Perché lui lo era, orgoglioso come non mai della sua bambina.
In mano teneva un vassoio, nel quale vi era una tazza di caffè, minestra di
pollo e una ciotola con dell’insalata fresca. Fece attenzione e aprì la porta
senza fare alcun rumore.
Servirono a ben poco quei modi discreti e silenziosi. Isabella ruotò la sedia,
stropicciandosi gli occhi e sforzandosi di sorridere. Ci riuscì a metà: uno
sbadiglio lo interruppe sul finale.
«È tardi. Forse ti conviene mangiare e poi andare a riposare» le fece notare
lui, poggiando il vassoio sullo scrittoio davanti a lei e giocando ad
arricciare i baffi.
Lei stiracchiò le braccia. «Non lo sai che quando le idee mi folgorano…»
cominciò.
«Niente e nessuno deve impedire che tu le perda per strada» continuò Charlie,
ironico.
Lei batté un pugno sul palmo della mano, con sguardo deciso lo osservò.
«Esattamente, papà. Vedo che cominci a entrare anche tu nella mente degli
scrittori».
«Più che mente…», gettò uno sguardo alla stanza, dove ammassi di vestiti
giacevano informi nell’angolo vicino al letto, altri nella sedia vicino al
comodino, cartacce appallottolate vicino il cestino dei rifiuti, già pieno fino
all’orlo, «direi nell’ottica. Guarda qua che gran confusione».
Isabella rise, costatando che suo padre aveva ragione. Era una ragazza
disordinata, che non faceva molto caso a ciò che indossava, purché fosse
comodo. D’altronde gli scrittori non dovevano mostrarsi in pubblico a mo’ di
sfilata, si disse, perché perdere tempo in boutique di vario genere, quando la
pagina di Word o anche un semplice foglio bianco la attirava come il miele con
le api?
Se Alice avesse avuto il dono di leggere nel pensiero, una ramanzina con i
fiocchi non l’avrebbe potuta in alcun modo evitare.
«Perché sogghigni a quel modo? Devo preoccuparmi anche della tua sanità mentale
oltre delle ore piccole che fai molto frequentemente?» domandò lui, beccandosi
una di quelle palline di carta in pieno.
«Sogghigno pensando a che faccia avrebbe Alice se entrasse qui adesso e vedesse
tutto questo», e fece un ampio gesto della mano per accompagnare le sue parole.
Charlie finse di rabbrividire, ricordando quel piccolo folletto pazzo e la sua
assurda mania per la moda e i vestiti. Le stava molto simpatica, nonostante
questa caratteristica un po’ particolare, ma era un vulcano in piena eruzione,
di quelli che anche solo con la loro presenza ti rallegrano la giornata.
«Probabilmente ti cancellerebbe dalla sua rubrica e per almeno un mese ti
terrebbe il broncio» ridacchiò, infine.
«Probabilmente» concordò lei.
Si guardarono negli occhi per qualche istante, poi scoppiarono a ridere
entrambi.
«Sarà meglio che mangi, altrimenti si raffredderà» indicò Charlie, muovendo il
capo verso il vassoio fumante.
Isabella annuì. «Grazie, papà».
Lui arrossì per risposta, dandole le spalle e avvicinandosi alla porta, pronto
a congedarsi nel più totale imbarazzo. Anche se scherzavano, erano pur sempre
poco avvezzi ai complimenti così espliciti.
E questo era il caso, notò lei sorridendo e scuotendo la testa.
Stava per afferrare la tazza che sprigionava l’aroma tipico del caffè, quando
la vibrazione del cellulare bloccò a metà l’azione.
Un sorriso diverso da quelli che aveva dedicato a Charlie spunto sul suo viso,
e lì vi restò.
Fece partire la conversazione, leggendo il nome di chi la stava chiamando.
«Pronto?» rispose lei.
«Scommetto che, se hai risposto con tanta velocità, vuol dire che ancora non
sei sotto le coperte» affermò con sicurezza la voce all’altro capo.
Isabella ridacchiò, sorseggiando il caffè e leggendo quelle idee che erano già
sottoforma di pagine Word. «Potrebbe essere. Ti da qualche fastidio?»
«Ehm… forse» rispose misterioso l’altro.
«Dipende da cosa?» lo stuzzicò maliziosa lei.
«Dal fatto che potrei essere qui, sotto la finestra della tua stanza,
infreddolito e con i denti che battono, dopo aver terminato l’allenamento in
palestra» rise, e subito dopo un colpetto alla finestra la fece trasalire.
Cacciò un urlo che avrebbe spaccato i timpani a chiunque, persino a Edward che
adesso allontanò di scatto il telefono. «Per un semplice sassolino lanciato
contro il vetro cerchi di farmi divenire sordo?» borbottò, stringendosi nel
cappotto invernale e affossando i piedi nella coltre candida di neve bianca.
«Edward!» gridò nell’apparecchio, schizzando verso la finestra e aprendo i
vetri.
«Non avevi ancora capito che ero io?» scherzò lui, beccandosi un’occhiata
inceneritrice.
«Stupido! Non ho urlato per un sassolino, ma perché dovresti essere a casa,
magari a fare un bel bagno caldo, invece di stare qui sotto pronto per
sostituire il mio pupazzo di neve laggiù», indicando quella specie di montagna
informe con una sciarpa vecchia e un cappello malridotto. Persino i rametti per
far le braccia erano secchi e brutti da vedere.
Edward assunse una faccia fintamente indignata, indicando con il pollice quello
che per lui era un cumulo di neve e basta. «Anche se morissi congelato, sarei
comunque più sexy di quella cosa».
Lei roteò gli occhi, dinanzi a quella battuta. Lui era così: divertente,
ironico – mai pungente, sempre che qualcuno non lo provocasse – e alle volte
anche spocchioso.
Be’, se non era così, si disse, probabilmente non l’avrebbe amato. Le piaceva
proprio com’era, non voleva che cambiasse. Un ragazzo così pazzo e innamorato
di lei a tal punto da congelare fuori; come non si poteva amare?
«Vuoi rimanere lì, ragazzo sexy?» gli chiese.
Si portò l’indice sotto il mento, assumendo un’aria pensierosa. «Mmh. Fammi
pensare…».
Bella scrollò le spalle, fissando con interesse il computer. «Mentre ci pensi,
io torno a scrivere». Fece per chiudere la finestra, ridendo mentalmente e
contando.
3… 2… 1…
«E lasci il tuo ragazzo qua fuori?» urlò lui, irritato e allibito. Davvero lo stava mollando al freddo polare
per scrivere?, si chiese mentalmente.
Bastò vederla sghignazzare di nascosto per capire che lo stava volutamente
prendendo in giro. Ah, è così allora!,
pensò Edward.
Con un lampo di divertimento negli occhi, scattò verso l’albero vicino alla
finestra, aggrappandosi ai rami e issandosi su.
Isabella spalancò la bocca, evitando stavolta di cacciare un altro urlo.
Strano, pensò, come mai Charlie non era corso qui?
Ma lei non sapeva che Charlie stava osservando la scena dal piano di sotto,
esattamente dalla porta sul retro in cucina, mangiando un sandwich. «Un
perfetto scalatore di alberi» notò da sé l’uomo.
«Ah, non è poi così complicato venire su» commentò Edward ansante, mentre si
preparava a balzare sul davanzale per sorreggersi e dopo entrare.
«NON è così complicato?», la prima parola fu un ruggito, poi Isabella cercò di
calmarsi e trattenere la voglia di spingerlo giù di sua iniziativa.
L’avrebbe ucciso lei il suo ragazzo, non l’ennesima bravata che si stava
apprestando a fare.
Edward sbuffò annoiato, anche se il volto era in tensione per lo sforzo di
tenersi in equilibrio e non cadere. Non sarebbe morto se fosse caduto, ma
qualche osso rotto se lo sarebbe procurato senza la benché minima difficoltà.
«Spostati, così entro».
Isabella schioccò la lingua, decidendo sul momento di punirlo per la sua
imprudenza. «E se invece non volessi farlo?». Incrociò le braccia al petto,
guardandolo con occhi di sfida.
Edward rifletté sulle sue parole giusto quel poco che gli servì per prendere
una decisione pazza e imprevedibile. Saltò, afferrando la sua ragazza per la
vita e voltandosi in aria, per poi atterrare di schiena sul tappeto. Lei
strinse forte il giubbotto del ragazzo, soffocando un gemito sul suo collo.
«Te l’avevo detto di spostarti» le ricordò, ridendo a crepapelle.
«Idiota, irresponsabile e…» iniziò, prendendolo a pugni sul petto e sulle
braccia, tentando persino di graffiarlo.
«Stupido?» azzardò, ridacchiando e intrappolando i suoi polsi davanti a sé.
Si fermò, cercando di regolare il respiro accelerato. «Sì, sei anche quello!»
mormorò, divincolando, seppur inutilmente.
Edward sembrava intenzionato a non lasciarla andare tanto facilmente. Ribaltò
le posizioni, portandosi sopra di lei. Aggrottò le sopracciglia, fissandole le
labbra. «Non ti bacio da stamattina».
Subito il cuore di Isabella le schizzò dal petto, per la forza con cui batteva.
Possibile che una frase così semplice la mandasse in subbuglio ormonale?
Possibile che si fosse ridotta come le sue compagne di scuola che non
riuscivano a mantenere le proprie facoltà mentali davanti al ragazzo che piace
loro?
Eppure era così anche per lei. Bastava un semplice sguardo al suo volto per
mandare in fibrillazione quell’organo che batteva forsennato nella gabbia
toracica.
«Non ricordo» mentì lei, con fare innocente.
«Davvero?» domandò Edward sorridendo maliziosamente. Strinse con una mano sola
i suoi polsi, con l’altra accarezzò il fianco della ragazza, sollevando la
maglia del pigiama. «Dovremmo rimediare a questa tua mancanza di ricordi con
qualcosa di nuovo».
Il ragazzo non era di certo il tipo che si perdeva in chiacchiere. Passò subito
ai fatti, baciandola con una passione travolgente, tale da innescare la stessa
reazione in lei. Lui allentò la presa sui polsi per accarezzarle i capelli, il
viso, il collo. Lei agganciò le braccia alla sua nuca, stringendolo
maggiormente a sé.
Non esisteva più nessuno, solo lei e lui.
Isabella e Edward.
Mentre i due continuavano a baciarsi, tra una risata e un’altra, sullo stipite
della porta comparve Charlie, che rimase in silenzio per molto tempo. Solo
quando capì che quei due sarebbero andati un po’ oltre per i suoi poveri occhi,
si decise a palesare la sua presenza, tossicchiando rumorosamente.
Entrambi i ragazzi sobbalzarono. Edward si mise subito in piedi, porgendo una
mano a Isabella e invitandola a fare altrettanto. Lei abbassò la maglia che il
ragazzo le aveva sollevato, arrossendo dinanzi a suo padre.
Quest’ultimo teneva il telefono in mano. Isabella aggrottò le sopracciglia,
sospettosa. Perché non si era portato la pistola per spaventarlo? Non l’avrebbe
ucciso, ma minacciato di non mettere le mani su sua figlia, sì.
Allungò la mano con il telefono, agitandolo in aria. «Temevo di dover chiamare
l’ambulanza per te, ragazzo, ma vedo che sei in perfetta forma fisica dopo il
balzo dall’albero, altrimenti non staresti lì sul tappeto, dimostrando tutta
quella grinta» disse, fissando Edward che deglutì, improvvisamente nervoso.
Accidenti! Suo padre lo stava guardando
mentre si arrampicava e non aveva detto nulla!, pensò lei, divenendo rossa
come un pomodoro.
«Signore, io…».
«Potevi usare la porta, invece di fare tutte quelle acrobazie inutili.
Altrimenti dovrò far montare una scaletta di legno che ti porti direttamente in
camera di mia figlia» lo interruppe Charlie, fissandolo minaccioso.
In realtà, era divertito. Non capitava tutti i giorni di sorprendere il ragazzo
della propria figlia, arrampicarsi su un albero e scavalcare la finestra.
Quanto sarebbe durata questa storia delle visite notturne?
Non voleva svegliarsi nel bel mezzo della notte perché avrebbe dovuto portarlo
in ospedale per qualche osso fratturato.
No, sicuramente.
Edward non chinò il capo, rimase con lo sguardo rivolto verso di lui. «Mi
dispiace. La prossima volta userò la porta» si limitò a dire.
Charlie annuì. «Sarà meglio così, no? L’importante è che non facciate sorprese
prima del tempo. Sono troppo giovane perché sia nonno, Isabella» ammise con un
sorriso, uscendo e chiudendosi la porta alle spalle.
«Che figura!» piagnucolò la ragazza, affondando il viso nel suo collo.
Lui la avvolse con un braccio. «Non sei l’unica. In sostanza mi ha minacciato
non molto velatamente nel caso tornassimo in tre».
Isabella soffocò un risolino, attutito dalla stoffa del maglione. «Ammettilo:
ti ha messo paura lo sceriffo Swan!».
Edward cercò i suoi occhi, divertito. «Essere il ragazzo della figlia dello
sceriffo ha i suoi difetti. Devo procurarmi un giubbotto antiproiettile?».
Lei gli diede un buffetto sul naso. «Certo, per difenderti da me, più che
altro!» esclamò gioiosa.
«Però quello con il porto d’armi è lui. Sarei molto più tranquillo sapendo che
è lui a maneggiarla piuttosto che una ragazza isterica».
Spalancò la bocca, indignata da quella battuta. «Io sarei isterica?»
Edward annuì vigorosamente. «Chi altro, altrimenti? Non è da donna innamorata
lasciare il proprio ragazzo fuori con tutto quel gelo!».
Lei socchiuse gli occhi, puntandogli un indice al petto. «Si dia il caso che
non sono tenuta a salvare una scimmia appesa all’albero di fronte la mia
stanza» gli fece notare.
Il ragazzo ci mise poco a capire. Afferrò Isabella per la vita, gettandola di
peso sul letto sfatto. Lei soffocò un urletto, ridacchiando e prendendolo a
cuscinate.
Durò un paio di minuti quell’allegro gioco, perché poi ne cominciò uno più
focoso.
Si baciarono a lungo, accarezzando l’uno il corpo dell’altro e godendosi
quell’attimo d’intimità.
«Edward… mio padre…» sussurrò, le labbra gonfie e rosse.
Le leccò sensualmente, incrociando i suoi occhi verde smeraldo con quelli
cioccolato di lei. «Non verrà».
«Ma prima…» obiettò.
Le posò un dito sulle labbra, bloccando le sue parole sul nascere. «Sono sicuro
che dopo avermi avvisato, non tornerà di nuovo. Sa che non faremo niente».
«Davvero?» chiese Isabella, inarca un sopracciglio.
Come faceva a sapere lui che Charlie non sarebbe ritornato con una pistola, o
peggio ancora, il fucile da caccia?
«Certo!» rispose con aria grave.
In quell’istante, il display del computer andò in standby, e una scritta
luminosa cominciò a saltellare sullo schermo, vivace. Questo attrasse
l’attenzione della ragazza, che balzò giù dal letto, scaraventando il ragazzo
giù per terra.
«Ehi! Che modi rozzi che hai ogni volta!» esclamò irritato lui, massaggiandosi
la nuca indolenzita.
Lei arrivò alla scrivania, voltandosi verso di lui e facendogli una linguaccia.
Mosse il mouse e riprese a scrivere, ignorando le sue lamentele.
Ripensò a tutte le notti in cui Edward si arrampicava sull’albero e s’intrufolava
furtivo nella sua camera, restando alle volte per dormire abbracciati l’uno all’altro.
Il ragazzo lo osservò mentre le dita delicate si muovevano velocemente sulla
tastiera. Sospirò, passandosi le mani nervose, tra i capelli.
Mancava una settimana a Natale, e quella notizia che circa un’ora fa il suo allenatore
gli aveva comunicato, lo aveva messo in difficoltà.
Non gli importava poi molto passare il Natale fuori, se si trattava di dirlo
alla sua famiglia, ma adesso c’era Isabella nella sua vita.
E per la prima volta si ritrovò a detestare quel dannato sport. Era il primo
Natale che passavano insieme da fidanzati, o almeno lo aveva sperato fino a
poco fa.
Come comunicarle quella spiacevole notizia? Come dirle che sarebbero rimasti
separati durante una festività così importante?
Strinse i pugni, cercando di riordinare le idee. Il discorso che si era
preparato durante il tragitto era andato a farsi benedire, per sua sfortuna.
Non era mai stato così insicuro prima d’ora, né così in bilico su ciò che era
giusto e cosa no. Da quando aveva capito di amare quella ragazza dai capelli
castani e gli occhi color cioccolato, tutto il resto sembrava passare in
secondo piano, persino quello stupido campionato.
Ci teneva a guidare la sua squadra, ci teneva a vincere il trofeo tra i licei
dello Stato di Washington, ma non a questo prezzo.
«Sei troppo silenzioso…» gli fece notare, mentre continuava a scribacchiare al
computer. Gli dava le spalle, ma le bastava davvero poco per capire che
qualcosa non andava per il verso giusto.
Edward cercò di abbozzare un sorriso, seppur triste. «Davvero?»
Isabella annuì. «Sì, rare volte ti sei comportato così. Significa che c’è
qualcosa che bolle in pentola e non sai come dirmelo», si voltò verso di lui
senza alzarsi in piedi, «cosa succede, Edward?».
Lui prese un respiro profondo. «Sai che gioco a calcio…» cominciò.
Isabella scoppiò a ridere, beccandosi un’occhiataccia. «Lo sanno anche i muri
della scuola, Edward. Sei anche il capitano!».
Scrollò le spalle quest’ultimo, roteando gli occhi al cielo. «Già, proprio per
questo non ho potuto rifiutare».
A quelle parole, nella stanza calò un silenzio inquietante. La ragazza abbassò
lo sguardo a terra, soppesando le parole del suo ragazzo.
«In che senso “non ho potuto rifiutare”? Cioè…» cercò le parole adatte, ma non
ci riuscì. Alzò lo sguardo, incatenandolo al suo. «Cosa non hai potuto
rifiutare?»
«Fra due giorni andrò a disputare le ultime partite del campionato tra i licei
dell’intero Stato di Washington a Seattle. Se riusciamo a vincere, in primavera
inizieranno quelli tra i vari Stati della Nazione» le rivelò.
La reazione di Isabella, a detta di Edward, fu molto strana.
Non urlò, non si arrabbiò, non scoppiò a piangere. E forse tutto questo sarebbe
stato meglio di quella fredda indifferenza. Gli voltò le spalle, continuando a
tacere.
«Dì qualcosa, ti prego» sussurrò, avvicinandosi a lei e afferrandole le spalle,
improvvisamente rigide.
«Non vedo cosa dovrei dire. Sei il capitano, come hai ripetuto tu poco fa. È
giusto che tu ci sia per i tuoi compagni. Inoltre Seattle è a poche ore da qui,
non sarai lontano…».
«Basta!» proruppe a voce molto alta Edward, interrompendo quel discorso.
Aveva capito: come il solito Isabella tendeva a nascondere le proprie emozioni,
soprattutto se si trattava di qualcosa che le faceva male. Ma non voleva questo
stasera.
Non voleva che si tenesse tutto dentro. Anche lui avrebbe sofferto per la
lontananza, anche lui avrebbe sentito un grande vuoto nel petto.
La tirò su per un braccio e la fece voltare. Sgranò gli occhi, notando quelli
lucidi di lei. Due piccole perle trasparenti facevano capolino sul volto, che
lei ostinatamente cercava di spazzare via con la manica del pigiama.
Edward le afferrò i polsi, abbassandoli, poi le prese la nuca e fece scontrare
le loro bocche. Non c’era poi tanta dolcezza ma passione, urgenza di assaporare
l’altro, poiché per una settimana sarebbero rimasti lontani.
Lei aveva il giornalino della scuola da mandare avanti, insieme con Alice e
altre ragazze che lavoravano con lei. Bisognava realizzare il servizio
natalizio prima delle sospirate vacanze, e lei era la migliore organizzatrice
in quel campo.
Entrambi erano richiesti, ma purtroppo in luoghi diversi.
La tenne tra le braccia per un tempo che sembrò infinito, finché non si
addormentarono insieme sul suo letto.
Il giorno dopo, Isabella si svegliò tra le carezze e i baci del suo fidanzato,
che non smetteva di mormorarle quanto lo amava e che due settimane sarebbero
passate velocemente.
«Lo dici tu che passano velocemente. Saranno le più lunghe della mia vita»
sbottò acida.
«Solo per te? Stiamo insieme da poco, chi mi dice che non mi scaricherai per un
altro?» le domandò con un cipiglio minaccioso.
«Dubiti della mia fedeltà?» domandò a sua volta Isabella, irosa.
«Mmh…», si avvicinò e con la punta del naso cominciò a solleticarle il collo,
«può essere».
Isabella lo vide con la coda dell’occhio sorridere, perciò stette al gioco.
«Hai ragione, potrei puntare gli occhi su un altro ragazzo queste due
settimane. Magari qualcuno della riserva…».
I movimenti di Edward si bloccarono, il sorriso che aveva dipinto sul viso
svanì. Poteva significare solo una cosa quella frase, soprattutto se lasciata
in sospeso. La strinse con forza a sé, imprecando parole incomprensibili.
«Forse faccio prima a portarti con me, così evitiamo quel genere d’incontri»
ragionò Edward, strusciandosi come un gatto che fa le fusa.
Isabella rise per via della gelosia che si scatenava in lui ogni volta che
accennava alla riserva di La Push, dove viveva un ragazzo di nome Jacob con la
pelle ambrata, occhi neri come il carbone e un sorriso solare.
Un ragazzo poco più piccolo di lei, innamorato della ragazza da parecchi anni.
Isabella non aveva mai ricambiato quel sentimento, anzi, s’illudeva che potesse
essere amore alla fine, per via di quello che lui provava per lei.
In realtà, lei credeva che coincidessero quei sentimenti, che anche lei fosse
innamorata, e che forse il fatto che non provasse chissà quale scarica
elettrica era solo una questione di timidezza, proprio come suo padre e sua
madre.
Non era così. Le era bastato conoscere Edward e in seguito frequentarlo, per
capire che era innamorata cotta di lui. Quello che provava per il caro amico
d’infanzia era ben lungi dall’essere classificato “amore”. Era amicizia, punto.
«Tranquillo, l’ho messo in chiaro che sono felicemente fidanzata con un ragazzo
dai capelli ramati e gli occhi verdi. C’è rimasto male, ma alla fine ha capito»
gli spiegò, accarezzando proprio i capelli che tanto amava.
«Spero per lui che abbia capito davvero» borbottò, non del tutto convinto.
«Ancora non ti è entrato in quella testolina che Jacob ed io come coppia non
abbiamo futuro?».
Edward rotolò sulla schiena, trascinando Isabella sopra di sé. «Tu ed io
l’abbiamo capito. Lui no, credimi».
«Smettila! Vai a darti una sistemata in bagno, prima che Charlie si svegli e ti
trovi ancora qui», storse il naso in una smorfia buffa, «non credo che, una
volta che ti ha visto ieri sera, andresti tranquillamente a giocare quelle
partite. Come minimo te le frattura le gambe» scherzò.
«Divertente, davvero!» esclamò sarcastico, afferrando un piccolo asciugamano
che lei gli porse.
E così, tra battutine sarcastiche e coccole, i due trascorsero gli ultimi due
giorni insieme prima della partenza.
Carlisle era entusiasta della notizia del figlio, nonostante lo avessero avuto
lontano. Esme, invece, era molto triste, perché era la prima volta che un
figlio passava il Natale solo, lontano di casa. Non era ancora pronta per
quella divisione forzata.
Per non parlare di Alice…
La sorella di Edward era saltata su tutte le furie a quella rivelazione.
«Mi hai rovinato il Natale, Edward. Tu e quello stupido gioco, dove si deve
prendere a pedate una stupida palla! Avevo organizzato tutto nei minimi
dettagli, accidentaccio a te!» gridò dal piano di sopra, il giorno della
partenza.
Ignorando gli attacchi isterici di quel folletto, Isabella aveva salutato il
suo Edward, ripromettendosi l’un l’altro che due settimane erano davvero poche
e sarebbero passate velocemente.
«Non ci posso credere! Hai permesso al tuo ragazzo di andarsene proprio la
settimana del Natale!» continuò a lagnarsi la sua migliore amica, mentre erano
in fila per il pranzo in sala mensa.
Erano agli sgoccioli, ormai l’euforia per le vacanze era nell’aria. L’intera
scuola era vestita a festa: festoni con la faccia buffa di Babbo Natale
ovunque, il caro Mike Newton con il cappellino natalizio, Jessica che tentava
inutilmente di attirare la sua attenzione con un vestitino da aiutante di Babbo
Natale davvero corto, Tanya che come sempre cercava un modo per screditare
Isabella davanti agli occhi di tutti, pubblicando oscenità nella sua rubrica
con il tema natalizio.
Eh già, anche lei era da considerarsi membro dello staff del giornalino. Era
l’unica pecca, ma anche quella di cui non poteva liberarsi. Suo zio era il
preside dell’istituto, questo la diceva lunga su tutto.
Le sue storie ai limiti dell’indecenza erano un vero scandalo per Isabella,
eppure alle altre ragazze, che fantasticavano con gli ormoni in subbuglio,
andavano più che bene.
E chi era lei per impedir loro di leggere?
Nessuno, assolutamente nessuno.
Poteva pubblicare nel suo angolino ciò che voleva, a patto che fosse
specificato il nome di chi scriveva l’articolo.
Purtroppo, proprio perché lei era intoccabile, trascinava dalla sua parte altre
ragazze frivole, e questo la irritava parecchio. C’erano altri nomi su quegli
articoli inguardabili.
D’altronde, volendo diventare un giorno una scrittrice affermata, aveva
dedicato un giorno la settimana, nella sua cara redazione, alla pubblicazione
di veri e propri racconti.
Niente di complicato, un modo come un altro per avvicinare quei giovani ragazzi
alla scrittura.
La vibrazione del suo cellulare la riportò alla realtà, ricordandole di essere
ancora in fila con Alice, perennemente con il broncio e che batteva
nervosamente il piede per terra.
Lo sfilò dalla tasca, osservando il nome di Edward lampeggiare sul display. In
alto, la data le ricordava quanto ancora doveva durare quell’agonia. La
lontananza, per due adolescenti innamorati come loro, pesava parecchio.
«Ciao» rispose sorridendo.
«Mi sei mancata» sospirò lui, osservando i suoi compagni correre sul campo
coperto offerto da un’associazione calcistica nella periferia della città.
«Ma sei mi ha chiamato stamattina per il buongiorno, signor Cullen!» scherzò,
anche se dalla voce si capiva che era felice di sentirlo di nuovo.
Decise di giocare un po’, perché non erano loro se non si stuzzicavano a
vicenda.
«Ah, è così! Le basta sentirmi una volta sola il giorno, signorina Swan?»
chiese indignato, ma i suoi occhi erano divertiti, almeno quanto quelli di lei.
«Certo! Come faccio ad amoreggiare con Mike se sto al telefono con te ogni
singolo secondo?».
Quell’insinuazione maliziosa e sfacciata lo fece sorridere, il che era strano.
Avrebbe dovuto irritarsi, ingelosirsi, ma sapeva che lei non avrebbe mai filato
quel ragazzo che sembrava essere uscito da un cartone animato.
Era goffo, biondo slavato e terribilmente stupido. Insomma, a parte le
ragazzine altrettanto stupide, nessuno poteva pensare di averci una storia.
Non una ragazza come Isabella.
«Perciò è colpa mia se tu non riesci a fare la civetta con l’idiota?».
Isabella rise dall’altro capo, mentre una voce seccata e poco femminile
sbottava: «muoviti, ho fame!», seguita da un’altra più iraconda, «non lo vedi
che sta al telefono?».
Edward aggrottò le sopracciglia. «Ma sono Alice e Rosalie che stanno
litigando?».
Lei sghignazzò, beccandosi un’occhiataccia dal folletto che fu trascinato da
Jasper, il suo ragazzo. Rosalie sorrideva beata, mentre Emmett giocava con una
ciocca dei suoi capelli biondi. Lui a stento riusciva a trattenere le risa, per
via della scena che il folletto ci stava mostrando: sprizzava rabbia da tutti i
pori.
Sembrava una locomotiva a vapore, con il fumo che le usciva dalle orecchie.
«È ancora arrabbiata per averle rovinato il Natale perfetto?» domandò
sbigottito.
«Certamente! Ha detto che ti graffierà la macchina» mentì lei, ridendo con
Rosalie ed Emmett lì vicino.
Edward balzò dal muretto, dove si era abbarbicato, urlando un «cosa?» che anche
il suo allenatore lo udì, richiamandolo.
«Cullen, invece di usare tutta quella rabbia al telefono e fare il fidanzatino
geloso, vieni qua e sfogala sul campo. Ti voglio in forma! In questi giorni
sembri avere la testa sulle nuvole».
Isabella sentì ogni singola parola urlata dall’allenatore di Edward e capì che
qualcosa non andava. «Edward, che significa? Stai male, per caso?».
«Ma no, cosa vai a pensare…» ridacchiò nervoso, sia per quell’intromissione non
gradita, sia per quella vipera della sorella.
«Edward, lo sento. C’è qualcosa che non vuoi dirmi…».
«Senti, devo riattaccare. Ci sentiamo stasera, eh!».
Edward non le lasciò molto tempo per ribattere, infatti terminò immediatamente
la chiamata, stringendo la cornetta con forza.
Era vero quello che diceva il suo allenatore: giocava, dormiva e mangiava male.
Non si era mai reso conto di quanto fosse diventato dipendente da Isabella.
Era una costante nella sua vita, colei che ci sarebbe sempre stata per
occasioni importanti come quella. Ma non era così.
Lei non c’era. I suoi fratelli e i suoi genitori non c’erano.
Ed era così vicino il Natale.
Altri giorni passarono così. Isabella continuava a chiedere a Edward come
procedevano gli allenamenti, anche se in realtà si trattava di domande di
routine.
Le partite le vincevano, è vero, ma ogni volta che il cameraman inquadrava
Edward, facendogli un bel primo piano, s’intuiva che c’era qualcosa di
sbagliato.
Guardava continuamente gli spalti, come se stesse cercando qualcuno, o
semplicemente l’appoggio dei suoi fan.
Ma proprio la vigilia di Natale, quando Isabella era a casa con suo padre e si
stava preparando per andare a La Push da Billy e Jacob, Alice insieme agli
altri tre ragazzi spuntò dal vialetto, afferrandola per il giubbotto.
«Ehi!» esclamò.
«Andiamo, forza! Sali in macchina» ordinò con tono imperioso.
Rosalie si avvicinò a Charlie, sussurrando qualcosa al suo orecchio.
Di qualunque cosa si trattò, era riuscita a convincere suo padre a lasciarla
andare con loro.
Quando vide che stavano uscendo da Forks, cominciò a preoccuparsi. Nessuno
parlava, erano tutti seri e nervosi.
«Ehm… posso sapere dove stiamo andando?» domandò infine lei, spezzando come per
magia quel silenzio opprimente.
Fu Alice a rispondere per tutti, dicendo con fare ovvio: «da quello smidollato
del tuo ragazzo che ha sabotato il mio Natale felice».
Isabella non seppe se gioire o piangere. Era scontato che Alice ci fosse
rimasta male per l’assenza del fratello, ma si era resa conto anche lei del
dolore che lui provava?
Fu Emmett a rispondere a quella sua domanda muta. «Nostro fratello è messo
molto male. Sono sicuro che vedendoti tornerà quello di sempre».
Jasper, che stava guidando l’auto, scrollò le spalle. «Insomma, gli stiamo
portando la medicina».
Passarono circa quattro ore. Ora erano entrati nella periferia della città. Lo
stadio in cui si stava svolgendo la finale era in centro, così, approfittando
del fatto che la partita era già iniziata, non trovarono alcun traffico,
arrivando in pochi minuti davanti all’ingresso.
Emmett corse verso un uomo che gli fece un cenno con la mano. Ma non era
proprio un uomo. Si trattava di un compagno di squadra di Edward, il ragazzo di
Angela. Ben.
Non indossava la divisa, bensì vestiti anonimi. Evidentemente non poteva venir
fuori con la divisa, ragionò.
Percorsero un lungo corridoio che li condusse fino alla panchina della squadra.
Stavano perdendo. La loro squadra era in svantaggio. Mancava davvero poco alla
fine.
Ce l’avrebbero mai fatta a vincere? Ne dubitava Isabella.
Appena l’allenatore la vide, borbottò un “finalmente”. Dopo qualche minuto,
l’arbitrò richiamò Edward sotto l’ordine dell’allenatore, che mandò in campo un
altro ragazzo che non conosceva.
Edward si trascinò a fatica, asciugandosi il sudore sulla maglietta azzurra. I
capelli erano parecchio arruffati per via della corsa, aveva l’aria stanca,
depressa, ma appena alzò lo sguardo e vide Isabella che lo attendeva in
panchina, sorrise incredulo.
Cominciò a correre come se improvvisamente tutta la tensione gli fosse
scivolata via. La abbracciò di slancio, facendola volteggiare.
Risero entrambi, baciandosi con passione, nonostante alcuni grugniti e colpi di
tosse li stessero richiamando all’ordine.
Ignorarono tutti e tutto. Si erano separati per quel tempo che a entrambi era
sembrato un’eternità. Ora volevano solo restare insieme, o perlomeno solo lui
lo pensava.
«Ehi, mi avevi detto che volevi partecipare al torneo tra i vari Stati. Che
cosa pensi di ottenere se oggi perdi?» lo rimproverò, dandogli un buffetto sul
naso.
«Ormai la partita è persa» le fece notare e per un attimo si pentì di quelle
parole.
Stava davvero gettando tutti i suoi sforzi al vento? Tutti gli allenamenti
fuori dall’orario scolastico a cosa erano serviti?
Evidentemente Isabella viaggiava sulla sua stessa lunghezza d’onda.
Si allontanò da lui. «Torna vincitore, Edward. Starò in panchina a guardarti»
mormorò, poi corse verso di essa e si sedette, incoraggiato persino dal sorriso
di sua sorella.
L’allenatore fece di nuovo il cambio, felice di vedere di nuovo il capitano
pieno di energie e voglia di vincere.
In pochi minuti, riuscirono a pareggiare e, allo scoccare dell’ultimo minuto,
con una stupenda sforbiciata, Edward segnò il punto della vittoria.
I suoi compagni cominciarono a correre verso di lui, gridando il suo nome e
facendo verso gli spalti il segno della vittoria.
Ma lui decise che quella vittoria non era per se stesso, né per la squadra. Lui
aveva vinto per lei, la donna che amava così da volere al suo fianco ogni
singolo giorno della sua vita.
Appena entrambi raggiunsero la metà campo, lui le afferrò il viso, guardandola
negli occhi con un’intensità disarmante. «Ti amo, Isabella Swan. Dedico questa
mia vittoria a te».
Lei non riuscì a soffocare le lacrime, che scesero copiose sul suo viso. «Anch’io
ti amo, Edward Cullen».
Si baciarono lì, sotto gli incresciosi applausi del pubblico.
Non avevano regali con sé, nessun pacchetto da scartare sotto l’albero.
Erano di nuovo insieme il giorno di Natale. Il loro più intimo desiderio si era
avverato, solo questo contava.
Angolo autrice:
Questa non è la
versione pervenuta ai giudici, ma quella modificata e corretta. Qui
sotto trovate la tabella con i relativi punteggi che ha ottenuto questo
racconto. Ricordo, inoltre, che la storia si è classificata
settima, come specificato nell'introduzione.
Grammatica: 8.7/10
Trama: 8.2/10
Tema di Natale: 8.7/10
Gradimento personale: 8.5/10
Totale: 34.1/40