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Autore: AngelSword    23/12/2011    3 recensioni
Passò la sigaretta nell’altra mano e la portò alla bocca. Quando la strinse tra le labbra, sentì il sapore del sangue, il sangue che aveva sulle mani - le sue preziose mani - sul collo, sulla camicia sbottonata, ovunque, sul ferro battuto del divano, sul pavimento. Alzò gli occhi al cielo, il soffitto forse era l’unico punto non macchiato di rosso vivo. O forse era un muto appello a quel Dio che, solo per un momento, aveva smesso di guardarlo.
||Partecipante al contest "Di foto, scrigni e chiavi arruginite [Multifandom/Originali]" indetto da LyaSorrow||
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Nuovo personaggio, Roronoa Zoro, Sanji | Coppie: Sanji/Zoro
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Wake Up, Deadman
Autore: AngelSword
Fandom: One Piece
Personaggi: Sanji, Zoro, Nuovo Personaggio
Immagine: Blood 1
Scrigno: Vetro > Orologio e Pendaglio
Chiave: Ferro battuto (simboleggia la festa - intesa in senso letterale, una festa di colori, di suoni, di odori, ...) 
Rating: Giallo/Arancione
Genere: Introspettivo, Dark, Sovrannaturale, Angst (??)
Avvertimenti: One-shot, Shonen-ai, ZoSan [Onesided]

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Wake Up, Deadman
 

Ecco, l’aveva fatto. L’aveva finalmente fatto. Chissà da quanto voleva farlo. Forse dal primo momento che l’aveva visto, forse solo da qualche giorno. Ma ora non aveva alcuna importanza.

Abbassò gli occhi per osservare ciò che giaceva ai suoi piedi, freddo come l’azzurro delle sue iridi. Sospirò silenziosamente, sentendo l’odore del sangue pungergli il naso. In bocca sentiva il suo sapore metallico, misto a quello di tabacco.

Puntò i gomiti sulle ginocchia, sorreggendosi. Sollevò lo sguardo verso destra mentre prendeva una tirata dalla sigaretta per contemplare le stelle filanti colorate, i festoni e i coriandoli della festa che c’era fuori, nella strada. Le grida e le risate raggiungevano le sue orecchie come lontani suoni ovattati. Il mondo là fuori era diventato bianco e nero.

Esalò lentamente il fumo, sentendolo seccargli il palato ed accarezzargli le labbra, mentre si tirava indietro, poggiando la schiena contro il divano verdognolo. Passò la sigaretta nell’altra mano e la portò alla bocca. Quando la strinse tra le labbra, sentì il sapore del sangue, il sangue che aveva sulle mani - le sue preziose mani - sul collo, sulla camicia sbottonata, ovunque, sul ferro battuto del divano, sul pavimento. Alzò gli occhi al cielo, il soffitto forse era l’unico punto non macchiato di rosso vivo. O forse era un muto appello a quel Dio che, solo per un momento, aveva smesso di guardarlo.

Non avrebbe mai creduto che si sarebbe sentito così. Aveva pensato che  sarebbe stato felice, euforico, di aver finalmente eliminato una delle seccature più grandi della sua vita. E tutte quelle volte che considerava seriamente di ucciderlo con qualche calcio ben assestato, poi si perdeva ad immaginare il suo futuro migliorato dalla sua permanente assenza. Invece no, niente di tutto questo era accaduto. Come si sentiva? Non sentiva niente. Felice, triste, in colpa, allegro, no. Vuoto, là, seduto in attesa che qualcuno lo riempisse di una qualsiasi emozione. Nella più completa apatia.

Ed intanto li aspettava, quei passi sulle scale che si sarebbero fermati di fronte alla porta semiaperta della stanzetta. Li attendeva da un pezzo e non dubitava che sarebbero arrivati presto. Ecco, già li sentiva, le suole che sbattevano duramente contro il ferro della piccola scala a chiocciola.

Poi un respiro affannato, il rumore che cessa.

“Cuoco.”

 

~*~*~

Al richiamo, quasi sputato, di quell’odiosissima voce si voltò rispondendo con un grugnito annoiato. “Che vuoi, marimo?”

Lo spadaccino sbuffò, irritato dall’atteggiamento strafottente del cuoco. “Senti, mi hai trascinato fin qui, almeno aspettami,” disse poi guardandolo storto.

Sanji roteò gli occhi e riprese ad avanzare. Erano capitati su un’isola primaverile in un periodo di festa. A quanto pare era proprio la “Festa dei Sapori”, ed aveva intuito che avrebbe potuto acquistare tutte le spezie ed i cibi che mancavano nella stiva in un colpo solo. La sua intuizione si era rivelata corretta, infatti eccolo là a camminare di fronte a Zoro che al momento stava usando come mulo da soma.

Ignorando l’ennesima protesta del vice capitano, il cuoco diede una celere occhiata al foglietto di carta stropicciato che teneva in mano. Mentre scorreva distrattamente gli occhi sugli ingredienti della lista, si chiedeva perché si fosse portato dietro lo spadaccino. Insomma, lo odiava quello stupido marimo buono solo a mangiare, ubriacarsi, dormire ed allenarsi. E non si preoccupava nemmeno di nascondere il suo odio, ma di palesarlo ogni giorno di più con continue liti e scaramucce causate anche dalla più insulsa sciocchezza. Lo avrebbe ammazzato se avesse potuto, ma qualcosa ogni volta lo fermava.

 Non era solo tutta la faccenda di essere nakama, della lealtà tra compagni e dell’onore. C’era qualcos’altro sotto. Una specie di bestia viscida che ogni volta che lo vedeva si agitava nel suo petto, facendogli battere il cuore sempre più in fretta. Qualcosa che non aveva mai provato dinanzi ad alcuna donna. Certe volte, senza che se ne accorgesse, si ritrovava a scandagliare il campo di battaglia con gli occhi per accertarsi che quella testa verde fosse ancora là, e non per terra tra i morti. Ogni volta che usciva, ultimamente, lo chiamava sempre per costringerlo - anche grazie all’aiuto di Nami - ad accompagnarlo a far compere, usando la scusa che gli serviva una mano a portare le buste. E quando Zoro gli chiedeva, stizzito, perché non chiamasse qualcun altro, sapeva solo rispondere con un freddo “Sta zitto”. Qualche volta - cazzo, stentava ancora a crederci - gli portava degli spuntini nella palestra, solo perché voleva vederlo sudato e senza maglietta addosso.

Non sapeva come chiamarla, questa sensazione, e la cosa lo infastidiva. Molto. A tal punto di desiderare la morte dello spadaccino ogni giorno di più. Ma allo stesso tempo, già, sentiva di aver bisogno di lui.

Scosse la testa, riportato bruscamente alla realtà da qualcosa che lo trattenne per un braccio. O meglio, qualcuno. “Si può sapere che ti piglia, torciglio?” domandò Zoro guardandolo con quell’espressione austera che impediva alla sua fronte perennemente corrugata in un broncio di distendersi.

Il cuoco, sbuffando una nuvoletta di fumo, si liberò malamente dalla presa dello spadaccino con una secca scrollata di spalle. “Niente che ti riguardi, idiota palestrato,” sibilò di rimando a denti serrati. Prese un lungo respiro, tentando di calmarsi. Percorse con gli occhi azzurri la lunghezza della strada, sorridendo di fronte alle buffe maschere che alcuni passanti indossavano, ai tessuti di mille colori che drappeggiavano le bancarelle, alla gente che, ridendo, passeggiava attorno a loro. Più che una “Festa dei Sapori”, si ritrovò a pensare Sanji guardando i bambini per cui ogni scusa era buona per lanciare in aria coriandoli e stelle filanti, aggiungendo altri colori a quel già variopinto viale, sembra più una festa di colori. In effetti quella strada sembrava un acquerello - di quelli pieni di centinaia di diverse sfumature - che a prima vista poteva apparire solo come un enorme guazzabuglio di colori, ma la tenda di quella bancarella era di un arancione leggermente più scuro di quella del festone, ed il verde di quella stella filante era di una tinta più chiara di quella della maglietta della ragazza in fondo alla strada. Erano i colori stessi a decidere le forme, non le linee di contorno. Quelle li avrebbero limitati e basta.

Si accorse di star sognando ad occhi aperti, un’altra volta. Leggermente spossato dalla sua seconda venuta alla realtà, sbattè un paio di volte le palpebre, passandosi una mano su volto per riprendersi. Che diamine, come mai oggi continuava ad incantarsi come un’idiota...

Riaprendo gli occhi con un sospiro si accorse che non era più nel viale della città. No, era lì, nella città, ma la strada era vuota e spoglia. C’era silenzio, tranne che per lo scrocchiare del terriccio sotto le sue suole. Tutto era immobile, nemmeno un filo di vento osava rompere quella staticità. I muri, le vetrine, tutto era grigio come il cielo nuvoloso che lo sovrastava. Sentendo l’agitazione e lo sconforto strisciargli su per la schiena, facendogli tendere i muscoli pronti a reagire, ispezionò guardingo con gli occhi l’ambiente circostante.

“Non c’è bisogno di stare così sulle spine.”

Una voce rauca e stridula lo fece voltare di scatto, la gamba già alzata pronta a sferrare il primo colpo.

La abbassò quasi deluso quando davanti a sé vide sono una piccola vecchietta, curva sotto il peso degli anni. Il cuoco studiò sospettoso l’anziana, conscio che dietro a tutto questo doveva pur esserci una fregatura di qualche genere. Mordicchiò nervosamente il filtro della sigaretta. Dubitava fortemente che la vecchietta lo volesse invitare a bere un thè coi biscotti.

“Chi sei?” chiese infine affondando le mani nelle tasche dei pantaloni. Cercò di apparire il più rilassato possibile, a costo di sembrare strafottente.

Le spalle della vecchia sussultarono leggermente. “Io?” La sua voce gracchiante suonava sorpresa da quella domanda. Poi ridacchiò, stringendosi nel suo scialle nero. “Sono solo una povera vecchia che ha visto un giovanotto in cerca d’aiuto,” rispose.

Sanji alzò un sopracciglio. “Sinceramente non ho bisogno di nessun aiuto, grazie.”

La donna sghignazzò di nuovo portandosi una mano davanti alla bocca. Alzando gli occhi vitrei sul cuoco, disse “Ne se proprio sicuro, giovanotto?”

Wow, fantastico. Era stato catapultato in una specie di dimensione parallela e come se non bastasse adesso aveva davanti una vecchietta a cui l’Alzheimer aveva probabilmente dato alla testa. Davvero grandioso.

“Magari c’è qualcuno...” continuò la sconosciuta.

D’un tratto Sanji rizzò le orecchie, interessato.

“Qualcuno che ti fa battere il cuore... ma che odi con tutta l’anima.”

Lui rimase in silenzio, gli occhi spalancati fissi a terra.

“Qualcuno che ti fa sentire un povero idiota capace solo di piangersi addosso quando non sa come comportarsi...”

“Perché diamine stai chiedendo a me cosa dovresti fare?! Un vero uomo dovrebbe sempre aver chiaro cosa vuole e cosa non vuole fare!”

“Qualcuno a cui non importi davvero niente...”

“Vedi di non intralciarmi, stupido damerino! Faresti meglio a farti prendere da un proiettile vagante!”

“Qualcuno che non ti ringrazia mai...”

“È pronto? Bene.”

“Qualcuno che, nonostante quanto tu lo ritenga importante, non ti chiama mai per nome.”

“Oi, cuoco.”


 Strinse le mani a pugno dentro le tasche. Tremavano, come il suo respiro a stento tenuto sotto controllo. Teneva i denti stretti in una morsa d’acciaio, minacciando di tranciare il filtro della sigaretta con i canini. Perché quella reazione? In fondo non gli era nuovo il fatto che al marimo non importasse mezza cicca di lui. Lo sapeva che quella testa verde aveva in mente solo il suo sogno, che non avrebbe mai ritagliato un piccolo pezzetto del suo tempo per lui. Era conscio che quell’idiota palestrato non lo avrebbe mai guardato come lui avrebbe voluto. Era perfettamente a conoscenza del fatto che Zoro non avrebbe mai sentito bisogno di lui, a differenza di Sanji.

Sentì qualcosa bruciargli agli angoli degl’occhi mentre la vista cominciava ad appannarsi. Sbattè un paio di volte le palpebre, sorpreso. Cazzo, no, non questo. Strofinò una manica su di essi con rabbia. Possibile che quell’insulsa alga marina lo avesse quasi portato a piangere? Dio se lo voleva vedere morto in questo momento.

“Guarda qua, giovanotto,” gracchiò la vecchia facendo scivolare una mano sotto al suo mantello color pece.

Lui la guardò con aria risoluta e leggermente stizzita, in attesa. Quella donna gli stava facendo un brutto effetto, non lo convinceva per niente.

Tirò fuori due oggetti: un orologio rotondo d’ottone con lo sportellino finemente intagliato, di quelli così vecchi che si fatica a trovarli anche nei negozi d’antiquariato, ed un pendaglio - anch’esso dall’aspetto molto antico - in onice attaccato ad una catenella nera. Sanji si piegò per studiarli da vicino, incuriosito. La vecchia aprì lo sportellino dell’orologio, rivelando le lancette ferme sulle sei. Sul pendaglio vi erano delle scritte graffiate e a tratti illeggibili. Riuscì ad intravedere alcune lettere, come la S e una V, ma la calligrafia era troppo complicata.

“Uno di questi,” cominciò a spiegare l’anziana, un sorriso a tenderle il volto rugoso, “ti darà ciò che vuoi. L’altro ciò di cui hai bisogno.”

Trascurando il fatto che la voce della vecchia era diventata tremendamente suadente tutto d’un tratto, Sanji corrugò la fronte, confuso. “Ma non sono la stessa cosa?”

Lei si limitò a fissarlo con quel sorrisetto, gli occhi due simpatiche virgolette.

Sì, di grande aiuto, davvero.

Tornò a scrutare i due oggetti, rassegnato ormai all’idea che la vecchia doveva avere qualche serio problema. Beh, un orologio fermo gli parve abbastanza inutile. Nemmeno a dire che poteva ripararlo, di sicuro era talmente vecchio che le parti di ricambio erano fuori commercio da anni ormai. Spostò le iridi azzurre sul secondo strumento. Era più interessante, sì, più bello di quell’altro arnese arrugginito, e quei graffi gli conferivano un nonsochè di misterioso. E magari gli stava pure bene addosso. Stava per prenderlo quando un pensiero lo folgorò, bloccandolo. Scosse la testa raddrizzandosi. “Mi dispiace, signora, ma non ho soldi,” disse mettendo su un sorriso di scusa.

“Uuuh, ma no, non voglio niente in cambio,” replicò l’altra trascinandosi a piccoli passi dietro le sue spalle. “Abbassati, giovanotto, per favore,” gli chiese e Sanji obbedì meccanicamente. Vide con la coda dell’occhio le mani scheletriche della vecchia passargli qualcosa attorno al collo per poi sparire nuovamente dietro la sua testa. Sentì qualcosa di freddo pressare contro il suo collo, allentandosi e andando a battere sulle sue clavicole in seguito ad un leggero click. “Ecco fatto,” gracchiò la vecchia girando di nuovo attorno al cuoco per guardarlo in faccia.

Prima che potesse replicare, lei, stringendosi nel suo scialle, gli sorrise ancora, dicendogli “Spero che tu abbia fatto la scelta giusta.”

Sentendo pronunciare queste ultime parole, Sanji si ritrovò di colpo nel viale della città, quello dove la gente rideva e festeggiava. Sembrava come se qualcuno avesse spinto un pulsante e riacceso improvvisamente i colori, accecandolo. Sbattè un paio di volte le palpebre, sopraffatto da quel repentino cambio di luce.

“Dannazione cuoco!” esclamò furiosa una voce alle sue spalle.

Si voltò di scatto, vedendo Zoro che lo scrutava inviperito mentre reggeva su una spalla le buste della spesa, in piedi nello stesso punto dove si trovava la vecchia due secondi prima. Sanji ricambiò con un’occhiata spaesata, ancora non del tutto convinto di quanto era appena accaduto. Portò una mano al collo e sentì sotto i polpastrelli la superficie fredda e logora del pendaglio.

Che cos’è stato...?

La fronte dello spadaccino sembrò distendersi un pochino di fronte all’espressione persa del nakama, ma non per questo volle apparire meno severo. “Ma...” attaccò distogliendo gli occhi scuri da lui per fissarli sulla bancarella alla sua sinistra. “Sicuro di... sentirti bene?” gli chiese cercando di suonare il più disinteressato possibile.

Mentre lo spadaccino parlava, Sanji perdeva gradualmente coscienza di sé. Lo vedeva, lo sentiva, ma se voleva muovere una mano quella rimaneva ferma, inerte al suo fianco. Sentì poi le sue labbra curvarsi in un largo sorriso che chiunque avrebbe definito inquietante.

“Magari dovresti farti vedere da Cho-- Oi!” Tese la mano con cui si stava scompigliando i capelli della nuca verso il cuoco quando questo cominciò a correre in mezzo alla folla. Sentendo la rabbia crescergli dentro, strinse i denti e cominciò a seguirlo chiamandolo per nome di tanto in tanto.

Correva senza sapere dove fosse diretto. Sembrava che le sue gambe fossero già a conoscenza della strada da seguire. Era sicuro che Zoro lo stesse seguendo, riusciva a sentirlo. Il pendaglio continuava a battergli contro le clavicole, facendogli male, ma il suo corpo semplicemente non rispondeva più ai suoi comandi.

Infine imboccò una svolta a destra, entrando nel primo portone aperto che trovò. Udì Zoro imprecare dalla tromba delle scale mentre lui salive velocemente i gradini. Arrivato in cima, rallentò e, come se stesse passeggiando, entrò in una piccola stanzetta abbastanza spoglia se non per il divano verde. E lì attese. Attese che il marimo lo raggiungesse.

E quando se lo vide davanti, fuori dai gangheri più che mai, sentì il pendaglio bruciargli contro il petto ed il mondo gli negò la vista divenendo nero.

 

~*~*~


Era da sempre che lo voleva fare. Ed ora l’aveva fatto. Perché allora si sentiva così vuoto? Aveva ottenuto quello che voleva.

Sì, ma ora?

Il pendaglio gli penzolava dal collo, battendo ritmicamente contro le ossa sporgenti delle sue clavicole, sporco ed appiccicoso di sangue. Come aveva fatto a raggiungere la sua pelle,  quel liquido scarlatto? Di solito non si sporcava mai di sangue altrui.

Ah, giusto. Steso a terra dov’era ora, Zoro aveva allungato una mano per sfiorargli il volto, mimando con le labbra il suo nome, prima che anche quella cadesse senza vita, sporcandogli la camicia ed il petto.

Sinceramente non avrebbe mai creduto che sarebbe riuscito ad avere la meglio sullo spadaccino in un combattimento. Nonostante i suoi calci fossero di una potenza inaudita, la sua corporatura sottile era in netto svantaggio rispetto a quella robusta del vice capitano. Eppure, in qualche modo - lui stesso non lo sapeva - era riuscito ad ammazzarlo. Finalmente.

Ma ora non aveva più niente. Si sentiva stranamente calmo, una calma vuota, priva di qualsiasi cosa.

Forse non era questo quello di cui aveva bisogno.

Si chiese come sarebbe andata a finire se avesse preso l’orologio. Certo, gli sarebbe servito un mucchio di tempo solo per trovare le parti di ricambio, per non parlare poi di quanto avrebbe dovuto impiegarne per ripararlo.

Sì, forse era il tempo di cui aveva bisogno. La cucina, in fondo, gli aveva insegnato che per ottenere il miglior cibo bisognava prendersi cura degli ingredienti, bisognava compiere con attenzione ogni passaggio della preparazione, bisognava pazientare che si cuocessero. Era come la cucina, necessitava tempo.

Ridacchiò, la gola secca gli raschiava ad ogni piccolo sussulto facendogli male, mettendo una mano insanguinata tra i capelli biondi che gli coprivano l’occhio. Aveva fatto un gran bel casino, nel vero senso della parola.


Qualcuno che ti fa sentire un povero idiota capace solo di piangersi addosso quando non sa come comportarsi...

 “Perché diamine stai chiedendo a me cosa dovresti fare?! Un vero uomo dovrebbe sempre aver chiaro cosa vuole e cosa non vuole fare!
.....
E comunque farei del sukiyaki, oggi a pranzo, ma non è che m’interessi...”

Qualcuno a cui non importi davvero niente...

“Ma... sicuro di sentirti bene? Forse dovresti andare a farti vedere da Chopper...” 

Qualcuno che non ti ringrazia mai...

“Sì, ho mangiato e quindi ti aiuto a lavare i piatti.... Ma non credere che ti voglia ringraziare così!”

Qualcuno che, nonostante quanto tu lo ritenga importante, non ti chiama mai per nome.

“SANJI!”

Riportò la sigaretta alla bocca mentre  spostava le iridi azzurre alla sua destra per contemplare i festoni, le stelle filanti ed i coriandoli colorati che addobbavano la strada in festa.

Prese una tirata.

Sì, quel sangue sul suo palato era una vera festa di sapori: dentro riusciva a sentirci di tutto, rimorso, amore, odio, desiderio.

Ed ora doveva, poteva solo attendere per quei passi.

 

~ END ~
 

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 NOTE CONCLUSIVE (ED INCONCLUDENTI) DELL’AUTRICE

Non ho la più pallida idea di come mi sia venuta in mente una cosa del genere.
Prima di tutto, voglio dire che non so se Sanji ce la farebbe veramente contro Zoro, e secondo, non so se Sanji è effettivamente attratto dal marimo. x)
Per il titolo (tradotto: Svegliati, morto) ho preso ispirazione da un mahnwa che ho finito di leggere poco fa. Sanji all’inizio era un “morto” - nel senso che non riusciva ad ammettere i propri  sentimenti e che finisce col vedere alla tentazione del “volere” - che si sveglia  se si rende conto di ciò di cui aveva veramente bisogno solo dopo essersi accorto di aver fatto un “gran bel casino”.
Quel che volevo comunicare con questa storia è la differenza tra ciò che uno vuole e ciò di cui uno ha bisogno. Il “volere” è un sentimento effimero, che si dissipa dopo aver ottenuto l’”oggetto”, spesso creando poi un vuoto. Invece, l’ “avere bisogno” è un sentimento completamente opposto: bisogna pazientare, lavorare sodo, seguire tutti i “passaggi” con zelo, per  raggiungere l’oggetto di cui si è bisognosi. Ed alla fine del “percorso” si è soddisfatti di quel che si è riusciti ad ottenere.
Qua avevo rappresentato il volere con il pendaglio in quanto basta un click della chiusura per ottenerlo e perché il “volere” sparisce, come le scritte.
L’orologio invece rappresentava il “bisogno” in quanto Sanji avrebbe dovuto curarlo e dedicargli del tempo per ripararlo, ed infine sarebbe rimasto con un bell’oggetto di valore in mano.
Le lancette sono ferme sulle sei perché, nei tarocchi, gli “Amanti” sono il numero 6, ma non ha importanza x)
Altra cosa che volevo evidenziare è l’ossessione che certe volte l’amore provoca (sì, perché Sanji era innamorato di Zoro xD).
La vecchia non so io stessa cosa rappresenti, quindi su quello lascio libera interpretazione. x)
E sì, mi sono fatta un mucchio di problemi mentali xD
Spero solo di non avervi annoiato con questa storiella apparentemente senza senso alcuno.
Grazie mille per aver letto ♥
Critiche e commenti ben accetti, purchè mi facciate capire dove ho sbagliato ♥

 

  
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