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Autore: 31luglio    25/12/2011    3 recensioni
Quella bambina era tutta la mia vita. Sì, lei era l’errore, ma era l’unica cosa che mi rendeva felice, oltre a mia madre. Il suo sorriso era stupendo, ti metteva allegria; i suoi occhi erano azzurrissimi e i capelli rossi, come i miei. Era la mia fotocopia. Non aveva preso niente dal padre, se non le labbra, grazie a Dio. Era la bambina più bella del mondo. Era sempre stata allegra, vivace ed intelligente.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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we found love (in a hopeless place).

              it's like you're screaming and no one can hear.
 
«Destiny!», mi chiamò mia madre, non appena fui entrata in casa. La sua voce veniva dal piano di sopra, così come quella di Hope che stava giocando con il cane, o con il gatto, o con qualcuno dei nostri novecento animali. Mia madre aveva una vera e propria fissa: pesci, criceti, conigli, cani, gatti, porcellini d’india, tartarughe, avevamo di tutto in casa. Sembrava uno zoo. Per esempio, appena entravi dalla porta d’ingresso, c’era un acquario marino a parete coloratissimo con dentro circa sette pesci diversi: Tina, Neon, Cosmo, Wanda, Patrick, Flipper, Nemo, Dori e Mea. Sì, tutti i nostri pesci avevano dei nomi. Ogni volta che mia madre portava a casa un nuovo animale, tutta la famiglia – ossia io, lei ed Hope – si riuniva per decidere il nome. Ogni tanto qualche povero animale si ritrovava ad avere un nome ridicolo da cartone animato, ma questo era il prezzo da pagare per tenere una bambina di tre anni in casa.
Guardai in direzione dell’acquario; perché era sparito? Perché non c’era nessun animale in giro per casa, o nessuna gabbia? Non c’era niente. Era tutto vuoto. Salii le scale, esaminando ogni singola stanza, per poi trovare Hope e mia madre nella camera da letto di quest’ultima. «Mamma, dov’è tutto? Mobili, animali… tutto?», le chiesi, agitata. Niente porcellino d’india, né gatto, né tantomeno i conigli e tutto il resto. C’era solo Swami, il nostro Bulldog Inglese di quattro mesi, che ciondolava attorno ad Hope.
Mia madre si alzò da terra, guardandomi, seria. «Tesoro… devo dirti una cosa», iniziò, sospirando. Riprese dopo qualche secondo:«Dobbiamo trasferirci. Ho provato a dirtelo varie volte, ma non vieni a casa da quanto, cinque giorni? Non mi hai mai risposto al telefono».
«Non potevi dirmelo prima di cinque giorni fa?».
«Hai ragione, tesoro, ma ho preferito fare tutto tranquillamente. Ho deciso da poco, comunque, sarà un mese e mezzo. Ho comprato una casa, ho cercato lavoro e tutto e… ecco, dobbiamo partire domani».
«Cosa?», chiesi, incredula. Non sapevo se essere felice o arrabbiata; insomma, sognavo da quando avevo quattordici anni di andarmene, da quando mi era successo quello. Non avevo voglia di ricordare, però, perché faceva troppo male. Sapevo solo che volevo andarmene, perché quelloaveva rovinato la mia vita da spensierata quattordicenne, brava a scuola, che non aveva mai bevuto, né fumato, né tantomeno aveva mai toccato una droga.
Ora, tre anni dopo, ero totalmente cambiata: bevevo quasi ogni sera fino ad ubriacarmi e droga e fumo erano ormai i miei migliori amici. Non ne andavo fiera, sognavo di poter tornare quella di prima, ma il posto – e la compagnia che frequentavo – non me lo permettevano. Mia madre aveva provato decine di volte a farmi allontanare dai miei ‘amici’, mettendomi in punizione, ma io ero sempre scappata. Era come se non potessi farne a meno.
«Destiny?», mi chiamò mia madre, «mi stai ascoltando?».
«Mi ero persa nei miei pensieri».
«Ho notato», ribatté, divertita. «Dicevo, in questi giorni ho fatto portare tutti gli animali nella nuova casa; quando arriveremo, andremo a comprare un’altra cagnolina, va bene?», chiese. Hope batté le manine, felice. Lei amava gli animali, esattamente come mia madre, esattamente come me. «L’aereo partirà alle 9 di domattina. Preferirei che tu non andassi a salutare la tua compagnia, sai come la penso».
La guardai incredula, senza nemmeno rendermene conto. Era stato un riflesso incondizionato, come se volessi andare ad avvisarli. In verità, me ne fregava veramente poco di tutti loro, da Savannah, che avrebbe dovuto essere la mia migliore amica, ma non lo era mai stata, a Jake, che in teoria era il mio ragazzo. Non l’avevo mai sentito tale: era il responsabile di quello e lo odiavo. L’unico peccato era che mi teneva come prigioniera. Non potevo fare niente, se a lui non andava bene. Ricorreva spesso a minacce, alzava le mani, sia con me che con tutti gli altri, era stato denunciato varie volte per furti. A mia madre non era mai piaciuto e sapevo che, se fosse stato qui, non sarebbe piaciuto nemmeno a mio padre. Ma lui non era più con noi da poco più di tre anni. Era stato investito da Jake, e da lì era iniziato tutto. Fu quella sera che successe quello.
«Non preoccuparti, mamma, non ho voglia di salutarli; piuttosto, come faccio ad avvisarli? Insomma, non che mi interessi, sia chiaro, ma potrebbero rintracciarmi… e non voglio che lo facciano».
«Ascoltami, D», mi disse lei, venendomi vicino. «Quando arriveremo ad Atlanta, dove ci trasferiremo, compreremo un nuovo telefono, scheda telefonica inclusa». 
«Davvero? Grazie, mamma!», urlai, abbracciandola. Sapevo che nuovo telefono stava a significare ‘iPhone’, perché sapeva che era il mio sogno da sempre. Non perché volevo farmi figa, ma perché mi piaceva. Lo sognavo da quando ero una piccola tredicenne, e mai me lo avevano regalato, perché ero troppo piccola. Ora, che di anni ne avevo diciassette, quel meraviglioso telefono stava per essere mio.
Stavamo bene con i soldi, mio padre faceva il chirurgo, perciò in eredità ci aveva lasciato un bel po’ di soldi; stessa cosa mio nonno, che aveva sempre fatto l’avvocato, ma di quelli che difendono solo le persone ‘giuste’; non aveva mai difeso assassini, ladri, imbroglioni, e mai l’avrebbe fatto. Comunque, eravamo una famiglia abbastanza ricca, ma comunque molto umile. Anche senza il bisogno di lavorare, mia madre ogni mattina alle otto e mezzo era in studio; anche lei, seguendo le orme di suo padre, aveva studiato per fare l’avvocato, ed era riuscita a diventarlo. Era sempre ricercatissima in città, sapeva fare il suo lavoro e sapeva ciò che era giusto e ciò che era sbagliato. Per questo aveva sempre cercato di farmi smettere di frequentare la mia compagnia: perché era sbagliato essere così, come Jake, come Savannah, come tutti loro.
«Pappa!», gridò Hope, battendo le manine. Quella bambina aveva sempre fame, mangiava a qualsiasi ora, eppure era sempre stata magra. Non era malata perché, quando l’avevamo portata dalla pediatra, qualche settimana prima, questa aveva confermato che era sana come un pesce. Aveva detto solamente che era magra perché aveva un buon metabolismo.
La presi in braccio e scesi in cucina. Aprii il frigo e la credenza, ma entrambi erano vuoti. Effettivamente, ricordai che l’ultima volta che ero tornata a casa e avevo cercato da mangiare mi ero lamentata che non c’era quasi niente da mangiare; evidentemente avevano mangiato anche le poche cose che c’erano, per non buttarle nella spazzatura; in casa mia non si buttava niente.
«Prendiamo la pizza, eh?». Mia madre era la salvezza. Mentre la piccolina batteva le mani – le piaceva particolarmente farlo – lei prese in mano il telefono e compose il numero della pizzeria. Ordinò tre pizze, una ai quattro formaggi per lei, una piccola con i wurstel per Hope e una con le patatine per me, poi restò a parlare per qualche minuto con il pizzaiolo; era simpatico.
Dopo aver riattaccato, ci informò che la cena sarebbe arrivata venti minuti dopo, così io ed Hope andammo in salotto a giocare un pochino. Quella bambina era tutta la mia vita. Sì, lei era l’errore, ma era l’unica cosa che mi rendeva felice, oltre a mia madre. Il suo sorriso era stupendo, ti metteva allegria; i suoi occhi erano azzurrissimi e i capelli rossi, come i miei. Era la mia fotocopia. Non aveva preso niente dal padre, se non le labbra, grazie a Dio. Era la bambina più bella del mondo. Era sempre stata allegra, vivace ed intelligente. Aveva solo un difetto, però: impazziva per Justin Bieber. Non sapevo chi era quella maledetta persona che gliel’aveva fatto ascoltare, però lo amava. Il 99% delle volte mi chiedeva di mettere una sua canzone e le conosceva tutte a memoria. Qualche tempo prima mi ero accorta di conoscerle tutte a memoria anche io, e mi ero accorta che mi piacevano parecchio, ma non l’avrei mai ammesso.
Per me era un ragazzo che si dava tante arie perché era famoso, niente di più. Non l’avevo mai sopportato e mai l’avrei fatto, ne ero sicura; col tempo, qualcosa cambiò e lui divenne una delle mie tre ragioni di vita. Questo, però, allora non lo sapevo ancora.
   
 
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