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Autore: kuroichigo    26/12/2011    8 recensioni
[OS di una coppia di "Borderline", si può leggere anche senza aver per forza letto la long, ma alcune cose magari non verrebbero capite].
Era ed è risaputo che gli artisti sono gente strana, quelle persone un po’ particolari che vorresti sì conoscere ma che a volte ti sembrano fuori luogo, pazze o semplicemente su un altro livello che di sicuro non è il tuo.
A volte ti incanti ad osservarli e ti mettono soggezione, altre semplicemente non li capisci.
Ebbene, David non riusciva assolutamente a capire su che lunghezza d’onda fosse Brandon.
(Appuntamento Brandon/Dave, Auguri :3!)
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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_Love Struck_
 




 

 
Era ed è risaputo che gli artisti sono gente strana, quelle persone un po’ particolari che vorresti sì conoscere ma che a volte ti sembrano fuori luogo, pazze o semplicemente su un altro livello che di sicuro non è il tuo.

A volte ti incanti ad osservarli e ti mettono soggezione, altre semplicemente non li capisci.
Ebbene, David non riusciva assolutamente a capire su che lunghezza d’onda fosse Brandon.

 
“Ti passo a prendere davanti al bar all’angolo della scuola per le due” gli aveva detto poi la sera stessa.

 
Non si sa come, aveva il suo numero di cellulare.

Dave pensò di dover “ringraziare” di ciò i suoi compagni di squadra che da bravi idioti qual’erano glielo avevano procurato.

Davanti al bar all’angolo, e poi nient’altro, nessun altro indizio, nessun “e poi andiamo…”, e ciò metteva tanta inquietudine quanta voglia di sapere.
 


Era lì da mezz’ora, il moro, con ampio anticipo a dire il vero.

Controllava freneticamente l’ora sullo schermo del cellulare, chiedendosi stupidamente perché era così in anticipo.

 
Aveva avuto modo di riflettere sul più grande il giorno prima.
 

Ogni suo comportamento lo mandava in bestia,e questo  era più che palese,però doveva ammettere che non gli dispiaceva né stuzzicarlo né essere stuzzicato dall’altro, era quasi divertente.

Come quando due bambini litigano per lo stesso giocattolo, solo che il “giocattolo” in questione non c’era nel loro caso.

O forse era la consapevolezza di aver battuto, almeno a parole, l’altro.

 
Si perse un attimo a contemplare il bel cielo luminoso di quel pomeriggio,il sole che colpiva gli edifici colorati o con vetri, o la scuola stessa in lontananza.

L’estate era quanto più prossima, e il caldo, specie in quelle ore, si faceva sentire più del solito.

 
-Daaaave!-

 
E il moro fino a quel momento manco pensava che il sangue nelle vene gli si potesse ghiacciare con tanta rapidità.

A fare l’urlo terribilmente mielato, e terribilmente satirico, che aveva appena sentito era Brandon, sulla sua moto, stava giusto arrivando dall’altra parte della strada, in sella a quell’aggeggio malefico che il moro aveva identificato come il suo amatissimo mezzo di trasporto.

Lo salutò appena con un cenno della mano.

Si accostò velocemente al marciapiede.
 

Aveva dei jeans alquanto scoloriti, quasi datati e a tubo, semplicissime scarpe da ginnastica bianche e una maglietta di mickey mouse sotto alla felpa leggera e blu lasciata aperta.
Il casco ancora in testa, di uno splendente color bianco con fiamme nere.

 
Niente di strano insomma.

 
Anche Dave non si era impegnato eccessivamente a scegliere qualcosa da mettere, jeans chiari, una maglietta rossa e le solite scarpe.

Niente complicazioni.

Non ce n’era stato motivo, non voleva apparire interessato all’opinione dell’altro, per lui valeva poco quell’incontro, o così gli piaceva pensare.
 

Intanto Brandon scese dalla moto e recuperò un altro casco dal vano apposito.

Lo porse poi all’altro, che si era mosso di poco, e che lo guardò scettico.

 
-Vuoi un invito scritto?-

 
Gli chiese con il solito tono di chi la sa lunga, scuotendo appena il casco che aveva in mano, come chiaro invito a salire a bordo.

 
-Solo se è con la carta bollata-

 
Nel mentre afferrò il casco che l’altro gli porgeva, sedendosi a bordo del veicolo, mentre l’altro scuoteva appena la testa alla stupida battuta con cui il più piccolo se n’era uscito.

Salì sulla sua moto, una normalissima Honda CBF 125 bianca e nera, l’aveva da qualche anno ormai, comprata da un rivenditore dell’usato, e mise in moto, partendo.

Per i primi mesi non voleva saperne di andare, poi in qualche modo più la usava e meno problemi dava, quasi ci fosse un legame fra proprietario e mezzo.

Brandon non gli aveva detto nulla, ma pareva avesse fretta, accelerava non appena poteva, percorrendo con gran rapidità le strade, a quell’ora per fortuna poco trafficate, della città.

 
-Guarda che se non ti attacchi, cadi!-
 

Gli aveva praticamente urlato il biondo dal sotto il casco, ma il moro si ostinava a non cedere, attaccarsi significava non solo avere un contatto fisico ma anche fidarsi, e a livello inconscio non ne voleva sapere.

Non voleva fidarsi, non ancora.

 
Ecco perché era seduto sul posteriore della moto, con le mani ben artigliate al sostegno in ferro alla coda della vettura.

Ma questo Bran non lo poteva sapere.


 
-Dove stiamo andando?!-

 

Urlò di rimando l’altro, ignorando l’avvertimento del più grande.

 

-Lo vedrai quando saremo arrivati!-


 
Fu l’unica risposta alla domanda del moro, e da quel momento non si parlarono più.

 

Non fu un viaggio troppo lungo,in qualche modo non era durato più di venti minuti.

Ma un quarto d’ora fu più che sufficiente per raggiungere la meta che si trovava, e Dave l’aveva appena notato, esattamente dall’altra parte della città.

La moto entrò in uno spiazzo di un grande edificio di mattoni dal tipico colore rosso spento, quasi antico per come si presentava, gli ricordava terribilmente i manieri medievali europei che aveva avuto modo di osservare in numerosi film storici.

Sembrava quasi un abazia, con quelle grandi vetrate e alcune finestre ai piani superiori sbarrate.

La ghiaia chiara che stava percorrendo la moto nello spazio produceva un suono tanto fastidioso quanto gradevole, non sapeva come definirlo. All’impatto forse un po’ troppo forte o sgraziato, via via sempre più regolare, quasi normale.

 
Brandon parcheggiò accanto una fila di moto e biciclette, in un angolo riservato dello spiazzo interno.

Scese mentre il moro si toglieva il casco e ancora si guardava attorno, quasi incantato, gli sembrava di essere in un mondo parallelo, un mondo antico e inusuale.
 Quello a cui era stato abituato da sua madre, amante delle architetture romane e greche.


 
-Dove siamo?- chiese poi mentre ancora osservava quella specie di torre che svettava dall’altra parte dell’edificio.
 
-Nel mio mondo!-


 
Rispose noncurante e con tono allegro l’altro prendendo dalle mani del moro il casco e riponendolo assieme al suo, vedendolo poi scendere dalla moto e seguirlo all’interno della costruzione.
 

David potè notare i colori accesissimi dell’interno, rosso e giallo accostati orizzontalmente, una scritta disordinata su una parete vicino a una scalinata: ”Academy of Art University”.
Guardò il biondo con aria interrogativa.

 
-Si, è l’accademia dove studio.-

 
Confermò il più grande, leggendo quella domanda nell’espressione dell’altro, che stranamente non chiese altro, avvicinandosi invece curioso alla bacheca di truciolato alla parete vicina, leggendo dei vari concorsi.

Il biondo stava per indicargli la direzione quando una ragazza mora e dal viso fin troppo conosciuto non lo chiamò.


 
-Brandon! Che ci fai qui? Oggi non c’è lezione,domani si consegna e te non hai ancora fatto nulla!- 

 
Disse la ragazza, sorpresa che l’amico fosse in accademia anziché a casa a lavorare ai progetti.

 
-Lo so Tina, sono solo venuto qui a portare un amico in “visita”, poi me ne vado-

 
E accennò con la testa alle sue spalle.

La ragazza si sporse appena aguzzando appena la vista da dietro le lenti sottili dei suoi occhiali, notando un ragazzo di poco più basso leggere alcune cose sulla bacheca dell’istituto.
Quest’ultimo si voltò verso la ragazza, che gli era già andata incontro.

 
-Piacere- e gli porse la mano che David strinse, incerto al gesto spontaneo della mora – Tina Sanders, compagna di classe di quello stupido lì- accennò poi con la mano libera al biondo, e Dave rimase quasi interdetto dalla situazione. 

Era in territorio “nemico” con una ragazza sconosciuta “amica del nemico” che gli stringeva la mano e che aveva appena sfottuto apertamente e tranquillamente il “nemico”.
 

Quella non era solo una compagna di classe, troppo confidenziale per esserlo.

Inoltre il più grande non se l’era presa per niente, come se fosse abituato a quel genere di trattamento.

 
-Piacere- ribattè quindi il più piccolo, quasi sorridendo- David Worral, compagno di squadra e giocatore dell’Union.
E sullo stupido, ti do ragione.-
 

Accennò un leggero sorriso.

 
La ragazza rise appena, lasciando la mano al ragazzo e rivolgendosi al compagno di classe che, avicinatosi, ormai subiva impotente gli insulti scherzosi (più o meno) da parte dei due.

 
-Ok, io vado allora, sono dovuta rimanere per i moduli dell’appartamento ma niente, non sono ancora pronti. A domani Bran-

 
Gli disse scoccandogli un bacio sulla guancia, Dave si sentì quasi invisibile a quel gesto...
 

-È stato un piacere conoscerti!
A presto!-

 
E uscì dalla porta dalla parte opposta alla quale erano entrati loro, sparendo nella sua gonnella a balze grigie e maglietta bianca.
 

-Andiamo?-
 

Chiese poi Brandon accennando al suo compagno di squadra e indicandogli delle scale che portavano a un piano interrato.
Dave annuì, seguendolo.


Ormai si era rassegnato all’idea che era lì, e che lì sarebbe rimasto.


Solo non capiva perché era lì!


Arrivarono a una stanza con più porte, Brandon tirò fuori da una tasca una piccola chiave e aprì la serratura, guardando attentamente che non ci fosse nessuno in vista.
Fece entrare anche Dave e richiuse a chiave, premendo l’interruttore lì a fianco.


 
Percorsero un ampio corridoio di mattonelle scure illuminato solo da pochi neon, arrivando a una sala molto più scura, e con luci soffuse.
 


-Resta qui un secondo- e il più grande si allontanò avvolto nella penombra scura.

 

David, com’era sua solito, non stette fermo, anzi. Camminò incerto verso alcune lucine, tanto forti da schiarare un poco il buio quanto deboli, visto che nulla si vedeva, nonostante quei punti di luce.

Camminò alla cieca fino a trovare delle scalette, salendole appena e poggiandosi su un pavimento che, si sentiva dai suoi stessi passi, era di legno.
 

Quasi si spaventò quando le luci gli si puntarono addosso, accecandolo per pochi secondi data la loro intensità.
 

E fu così che, non appena riprese a vederci chiaro, riuscì a guardarsi intorno.

Si trovava in un ampio auditorium, sul palco di legno chiaro, per la precisione.

Davanti a lui scorse con gli occhi ancora appannati dall’ombra decine e decine di poltroncine rosse e vuote erano incastrate in sei spazi solcati da filoni di pavimenti e scale nere. In alto due porte laterali, in basso altre due su muri di un grigio intenso, come il muro dietro di lui, sullo sfondo della scena.

Alla sua sinistra del palco poteva vedere la lunga e pesante tenda bordeaux raccolta al lato, con  le varie attrezzature dietro le quinte.

Alla sua destra gli si presentava la medesima scena, solo che in mezzo a spot e materiale vario c’era anche il più grande mentre armeggiava con gli interruttori.
 
Lo guardò un attimo mentre indeciso abbassava lentamente una leva, e gradualmente anche le luci si facevano più fievoli.
David rimase sul palco, percorrendolo con un po’ di incertezza.

Da piccolo aveva fatto qualche recita, se le ricordava appena, ma le aveva vissute, almeno in quegli attimi.
E ora la nostalgia di quei tempi stava quasi tornando, anche se su un palco sconosciuto, anche se quei ricordi erano ormai stati relegati, anche se non li sentiva quasi più suoi.
Si sedette sul bordo del palco, con la sfilza di poltrone davanti a sé…
 
-Ho pensato che a uno come te sarebbe piaciuto questo posto-
 
Il biondo si avvicinò mentre la sua voce rimbombò appena nell’auditorium vuoto, così come rimbombò il leggero colpo che diede al pavimento quando si sedette accanto al ragazzo più piccolo.
 


-Uno come me?-


Gli fece eco il minore, con un sopracciglio alzato, ma con un tono giocoso.

Quello che si stava abituando a usare in sua presenza.
 

-Uno a cui piace stare sotto i riflettori, si-


 
Sorrise apertamente a quell’affermazione così vera, Dave.

Vera , quanto sinceramente svelata.

 
Tina aveva ragione, Brandon era uno stupido.
 


-Perché mi hai portato qui?-
 

Ogni singola poltroncina aveva un numero, ora che notava meglio.
Un numero dorato e a più cifre.

 
- In teoria non si potrebbe entrare in questa sala, ma ho fatto una copia della chiave della porta d’accesso.
E poi,  questo posto ormai è usato solo per le conferenze stampa o per lezioni particolarmente noiose e lunghe.-
 

Si volse verso il più grande, lo guardava mentre teneva gli occhi fissi davanti a sé, carichi di una malinconia che mai gli aveva visto addosso.

Tuttavia, non capiva dove volesse andare a parare.


 
-Ormai?-
 
-Si, il primo anno che entrai qui era ancora un laboratorio teatrale, ed era in uno dei corsi che frequentavo anche io.
Poi sostituirono la materia con una più moderna, sia perché dovevano mantenere alta l’avanguardia dei corsi e sia perché al corso di teatro non aderiva più quasi nessuno, e fummo costretti a scegliere un’altra materia…-
 
-Ti manca il teatro?-
 
-Mi piaceva molto, moltissimo…
Per qualche ora non sei più te, sei un’altra persona con un’altra vita, con altri problemi, con altri sentimenti, per qualche ora tu non esisti, non hai problemi, non hai nient’altro se non qualcuno da interpretare…
Prendimi per pazzo, ma io amo recitare, anche se non sarò mai chissà chi, mi piace essere qualcun altro…
Quando voglio stare da solo, o voglio riflettere, bè, vengo sempre qui -

 
“Quando vuole stare da solo…”

 
-Da piccolo ho partecipato ad alcune recite, solo che non mi ricordo granché, avrò avuto sei anni…-

 
Confessò il moro con sincerità, era piccolo è vero, ma ricordava un particolare comune nelle poche recite che aveva fatto, il sorriso e gli applausi di sua madre a ogni fine spettacolo.

Brandon annuì piano.
 

-Capisco…- Volse il suo sguardo all’altro, che ricambiò un secondo dopo -Ma non siamo qui per questo…-

disse reclinandosi poi sul pavimento del palco, interrompendo il contatto visivo e alzandosi, andando verso un angolino seminascosto.
 

-E per cosa?-

 
Dave intanto si era girato, chiedendosi che stesse facendo.

Lo vide correre appena verso quell’angolo e lo sentì frugare.


 
-Hai sentito Tina no?-
 

“Che cavolo c’entra Tina ora?!”

 
Il biondo ne uscì con un largo foglio bianco in mano e un astuccio metallico nell’altra.

 
-Devo consegnare un progetto domani…- Si sistemò sul pavimento del palco, al centro, disponendo con casuale, o forse studiato, disordine le sue matite e i suoi carboncini.
 
-E il tuo progetto sarei io?!-

-L’idea era quella-


 
Rispose tranquillamente l’artista, tracciando le linee guida sul bordo.

Aveva già in mente la scena, da un bel po’ anche.

A dire il vero, molte scene e molti suoi pensieri erano da un po’ abitati dagli occhi di fiamma nera di David e dai suoi capelli scuri.

E Brandon in quel periodo si chiedeva da quando il moro si era trasferito nella sua mente.


 
-E quindi?-  

 
L’oggetto dei suoi pensieri si mosse, alzandosi dal bordo del palco, e camminando leggermente verso l’artista, si abbassò sul foglio, osservando come l’altro stesse disegnando a grandi linee il teatro tutt’attorno.

Erano linee semplici, per niente accurate, veloci ma soprattutto chiare.

Si capiva perfettamente che figura stesse componendo.

Le sagome delle poltroncine, delle scale, del tendaggio, tutto.


 
-Quindi cosa?-


 
Dave sbuffò, chiedendosi se l’altro avesse il cervello collegato o meno.


 
-Quindi che devo fare?-


 
Brandon non pensava che avrebbe ceduto subito, in fin dei conti, però non gli spiacque quella decisione, e gli rivolse un sorriso di gratitudine.
 
Dave non pensava che l’avrebbe fatto ancora, però si ricordò della sensazione degli occhi dell’altro su di lui.

Era una sensazione strana.

Dava fastidio eppure non cercava altro se non un gesto dell’altro, o uno sguardo o qualsiasi cosa.

Ripensò al foglio che aveva ricevuto quasi in dono dall’altro al campetto,ben conservato e nascosto alla vista di tutti se non alla sua.
 
Sentirsi osservato dagli occhi nocciola chiari di Brandon, bè, per quanto fastidioso non era affatto male.


 
-Devi solo stenderti sul palco, più al centro della visuale che puoi.-

 
Gli indicò a spanne il punto dove il suo modello si sarebbe dovuto mettere, e l’altro seguì le indicazioni con un accenno di riluttanza.

 

-Così?-

-No, sei troppo rigido, sciogliti un po’, e mani dietro la testa, devi sembrare tranquillo-

 
Il moro sussurrò appena un “ok”, portandosi le mani dietro la nuca, come richiesto.


 
-Cosa dovrebbe significare tutto questo?-

 
Chiese poi il moro steso a terra, con gli occhi puntati al soffitto.

Una distesa di materiale liscio e probabilmente insonorizzato.
 

-Il tema  che ho scelto è la “spontaneità”.
Il palco su cui sei disteso lo rappresenterò come il teatro della tua vita, la tua maschera, o quella che interpreti.-

 
Spalmò lentamente la matita bordeaux sul lato sinistro del foglio, probabilmente delineando le tende.
Forse non si rendeva conto di quanto quella maschera di cui stava parlando fosse vera, di quanto l'avesse addosso e la interpretasse.
Ogni singolo giorno.


 
-Il fatto che tu sia così rilassato denota che non partecipi alla tua stessa maschera, non lo sei, non te ne frega niente, non ti senti obbligato ad indossarne una, e per questo sei così tranquillo e steso.
Spontaneo.-

 
Il moro annuì piano, in effetti non ci aveva pensato, però immagine e significato combaciavano alla perfezione.

 
Chino sui fogli, Brandon osservava le linee del palco, ma anche e soprattutto del suo soggetto, i capelli che ricadevano sul palco leggermente impolverato, gli occhi nascosti ma probabilmente attenti e vigili, la linea del collo leggermente nascosta dal braccio e il resto del corpo rilassato.

 
Non ci avrebbe messo molto, in fondo.

Era un lavoro facile, e in più non doveva essere per forza dettagliato.

Il genere di lavoro che preferiva in pratica.

 
Le pieghe morbide e leggere della maglietta rossa,le braccia stranamente slanciate dietro la testa, la tranquilla postura che aveva in quel momento.
E che stava facendo solo per aiutare lui.

 

-Parlami di te-

 
Esordì poi il biondo, e Dave si mosse per rivolgergli un’occhiata quasi truce.
 

-Avanti, sii spontaneo- Rincarò l'ultima parola con enfasi,

 

Dave sorrise appena.

Che razza di stupido…

Chiuse gli occhi, nel relax più totale.


 
-Mi chiamo David Worral, nato in questa stupidissima città quasi diciotto anni fa, mia madre si chiama Joanne, mio padre si chiamava Jacob Jacob Worral.
È morto quando avevo tre anni…
Era appassionato di immersioni, adorava andare al mare o al lago e immergersi in acqua, esplorando i fondali.

Una volta, ha avuto un malore mentre era sotto e ci è rimasto secco.

Mia madre mi ha cresciuto da sola, per quindici anni, finchè non ha conosciuto un tizio con la quale sta tutt’ora assieme… -


 
Erano in pochi a conoscere la vita del moro, non l’aveva detto quasi ad anima viva.
Ma con lui sentiva di poterlo dire, sentiva che nessuno l’avrebbe saputo da lui.


 
Sentiva che quella confessione era  al sicuro.


 
-Mi spiace…-

-Non importa…tanto manco lo conoscevo, non ne ho ricordi se non tramite mamma.
Ma ha smesso di parlarmene da quando frequenta Luke…-

-A te non piace Luke?-

-Non ho nessuna voglia di conoscerlo, lo trovo irritante, sia lui che le sue cavolo di manie sulle pulizie, una volta mia madre lo ha fatto entrare in camera mia e quasi non gli veniva un colpo, non sono mai stato un precisino ordinato però non esageriamo, avevo solo qualche cosa in disordine, mica una catastrofe, ma per lui nooo, era una camera indegna di essere visitata da quanto era “sporca, disordinata, impolverata”, testuali parole, come se lui fosse un Dio sceso in terra e io un povero comune mortale …-

 
E Dave si fermò.

Non tanto perché stava parlando della sua opinione su quel Luke, opinione che non aveva mai detto ad anima viva, ma per gli occhi castani che aveva sopra, al posto del soffitto,e per quei capelli biondi che scintillavano ancora di più sotto le luci cocenti dei riflettori.

 
Brandon, dal canto suo, non si mosse da dove era ora.

Non più chino sul foglio, ma chino sull’altro.

 
Dave aveva avvertito un leggero movimento d’aria e aveva aperto gli occhi, mentre la sua voce aveva coperto i passi leggeri dell’altro.
 

Occhi incatenati, e la sua voce si fermò.

Il fiume di parole contro il compagno di sua madre sembrava esauritosi.


In pochi semplici secondi carichi di silenzio e null’altro, secondi passati a guardarsi negli occhi, senza che le labbra si muovessero, senza  che nessuno dei due dicesse qualcosa.
 

Brandon gli regalò un sorriso strano, quasi triste, mentre le su mani gli prendevano il viso e il loro proprietario chinava maggiormente il capo verso l’altro.

Dave non era rimasto fermo, capendo cosa l’altro volesse fare, indietreggiò lentamente quanto potè, ma stranamente, non si alzò di scatto, non gli urlò contro di allontanarsi, non lo prese a calci come invece avrebbe forse fatto qualche tempo prima.

Come unica “arma” s’era solo spostato, quasi impercettibilmente, poiché più strada faceva il viso del biondo, e più lentamente si spostava il moro.

Bran arrivò a quasi un soffio dalle labbra dell’altro, leggendo una strana paura mista ad attesa nei comportamenti del più piccolo, che aveva chiuso gli occhi, strizzandoli.
 


-Non sei ancora pronto…-


 
L’aveva sentito sussurrargli a un passo dalle labbra, mentre le dita gli carezzavano gentili le guance, abbandonandolo e sentendo ancora lo spostamento d’aria  Dave aprì gli occhi.

Bran si era alzato, recuperando poi il suo lavoro, quasi del tutto ultimato e mettendo a posto il suo materiale nell’astuccio metallico, mentre Dave si metteva a sedere sul palco, incerto.
 

Che diamine, non gli poteva rifilare un pugno o una qualsiasi altra cosa per essersi avvicinato troppo?

Eppure non aveva sentito fastidio, né nulla.

Anzi, al contrario,era tranquillo, fermo, e il più grande non gli aveva comunque fatto niente, pur avendo interesse per lui, e questo lo sapeva bene.

Si sentiva a posto, moralmente e fisicamente.


 
-Io ho finito.-


 
Annunciò l’altro, e preso il foglio ormai imbrattato di colori e linee, lo arrotolò e fermò con un elastico, incitò poi l’altro a uscire dall’auditorium.

 
Il minore annuì, guardandosi attorno per un ultima volta.

 
Gli era piaciuto da subito quel posto, così calmo, fuori dal mondo, così strano.

Intuì che probabilmente era il luogo a cui l’altro teneva di più, e fu colto dalla consapevolezza che l’altro l’aveva  voluto condividere con lui.

Sorrise appena, dicendo addio a quel luogo, e uscendo dalla stessa porta da cui erano entrati, mentre il più grande spegneva le luci e raggiungeva l’uscita assieme all’altro.

Ripercorsero tutto il tragitto accompagnati solo dal rumore delle scarpe sul suolo, nessun’altro suono.

 
Appena fuori, si accorsero che erano passate quasi tre ore, e Dave doveva assolutamente tornare a casa.
Si mosse per raggiungere la fermata dell’autobus, ma l’altro lo bloccò.
 

-Ti posso accompagnare io se vuoi.-

-Non è necessario…-

-Sicuro?-

-Si, l’autobus passa fra poco e si ferma quasi davanti a casa, quindi…-

-Allora, aspetto finchè non passa.-



 La fermata era praticamente lì attaccata, la raggiunsero in pochi secondi.
Brandon tamburellò appena le dita sul cartoncino leggero del foglio, mentre Dave rivolgeva lo sguardo alla strada.
 


-Ehy!- Si volse verso il più grande ,che lo guardò con aria interrogativa.

-Tu non mi hai detto niente di te!- Continuò il moro- Potresti essere un alieno travestito e io non lo saprei!- Smorzò appena il suo tono di voce, riscoprendo difficile parlare con l’altro dopo ciò che era successo.

 
“anche se in realtà non è successo nulla di che…”
 

-Veramente sono un assassino ricercato in Europa!-

 
Scherzò l’altro, usando un tono così serio che fece ridere il ragazzino.
 

-È quella là in fondo che devi prendere?-

-Si-

-Ok, allora al prossimo appuntamento!-

 -Prossimo appuntamento?!?-

-Vuoi sapere se sono un assassino si o no?-



Ammiccò soddisfatto all'espressione attonita del minore.
 
Non ebbe tempo di rispondere, Brandon s’era voltato per raggiungere la sua moto, l’autobus era arrivato e l’autista lo guardò in maniera esplicativa: ”Sali o ti lascio a piedi” pareva dire.

E David salì, con un mezzo sorriso, postandosi al finestrino di uno dei pochi posti liberi, e sbirciando con la coda dell’occhio il biondo che s’infilava il casco.

 

“Per me rimani un alieno!”


 

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Auguri a tutti in ritardo *_*
Ebbene, doveva essere pronta ieri, ma non ci sono riuscita, e oggi invece, puff, ho avuto il tempo necessario.
Non è granchè, ma li adoro troppo, così dolciosi carinosi…
Ok, Spero vivamente vi piaccia, amo questa coppia, e voglio fare altre OS su di loro :D!
Per chi non avesse letto Borderline, la trovate nel mio profilo ovviamente, se vi ho incuriositi almeno un po’, dategli un’occhiata :D!
 
Ah, e Love Struck è una canzone dei V Factory, leggetevela ;D

Ribadisco che ho una pagina face book, la trovate nella mia pagina su efp, sui bottoncini in alto, perché siete quasi in 90 che mi seguite ma sulla pagina siete solo 24, animo su!
Vi voglio vedere tutti >w  
Un abbraccio e un bacio a tutti, buone feste ^.^

 
Kuro
  
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