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Autore: Sylphs    28/12/2011    6 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1

 
 
 
 
 
La neve scricchiolava sotto gli stivali foderati di pelliccia che fasciavano i piedi di Vivian e il gelido vento invernale che soffiava irruento su Parigi le arrossava le guance e strappava lacrime ai suoi grandi occhi color nocciola, costringendola a strizzarli per potersi agevolmente guardare intorno e ad abbassare ancora di più il cappuccio sulla fronte pallida e tirata.
Dal basso della sua esigua statura, la ragazza osservava quella città grande, oscura e puzzolente e faticava a trovarle un particolare gradito, abituata com’era ai selvaggi panorami di Annecy, sua terra natale. In quel momento dell’anno alla sua cittadina la neve era una bianca distesa purissima che s’ammucchiava sui tetti delle case e scivolava lungo i pendii, ed era a tal punto soffice che non occorrevano neanche le muffole per fabbricarne palle con cui giocare. Lì, invece, non era altro che una fanghiglia grigiastra e molle spinta agli angoli delle strade dal passo sostenuto degli abitanti frettolosi.
“Sporca” fu il primo pensiero che le attraversò la mente: “Parigi è molto sporca”.
Fortunatamente avevano oltrepassato i quartieri poveri in carrozza e le era stata risparmiata l’ordalia d’aggirarsi in mezzo alle bancarelle del pesce e della carne cruda, tra il lezzo di tutti quei corpi disabituati al lavaggio che s’accalcavano nei vicoli e il fetore dei topi che sgattaiolavano furtivi in cerca di cibo. La zona prestigiosa, come l’aveva definita Madame Lefevre, era costituita da imponenti palazzi circondati da giardini ormai inutilizzabili (le nevicate non erano state clementi) e da negozi dalle insegne dorate e dalle vetrate ricoperte di ghiaccio. La gente che s’aggirava a piedi era abbigliata con ricchi soprabiti di seta o di velluto e portava sul capo elaborati cappelli di moda, adornati da piume variopinte e da nastri multicolori. Gli uomini avevano pesanti orologi d’oro allacciati alle giacche e le signore portavano guanti di pizzo che difendevano le loro mani rese morbide dalla crema di latte dal rigore invernale. Il profumo che ognuno di loro s’era abbondantemente spruzzato mascherava abilmente il fatto che puzzavano quanto e più dei poveri.
Vivian abbassò lo sguardo sulla propria giacca di lana non tinta consumata dal troppo uso, con il primo bottone che pendeva sbilenco, e sulla semplice veste di cotone che portava sotto, la gonna ostruita dal peso ingombrante degli stivaloni invernali. La sua indisciplinata massa di riccioli corvini, che aveva sempre lasciato sciolta, era arruffata a causa del lungo viaggio e guardandosi intorno s’accorse che tutte le donne, anche quelle giovani come lei, s’erano date la pena di raccogliere i capelli con nastri e forcine. Arrossì e si strinse nei suoi abiti miseri, provando un forte senso di inadeguatezza e di vergogna. Chiunque si sarebbe accorto che era un’orfana.
“Non preoccuparti, ma chére” la voce sussiegosa di Madame Lefevre le arrivò soffusa attraverso il turbinio della neve e del vento e un attimo dopo la sua attuale tutrice la affiancò, prendendole la mano avvolta nel guanto senza dita: “Dopo che ti sarai ben inserita nell’ambiente, nessuno farà più caso al tuo abbigliamento. Soprattutto quando avranno modo di ammirare la tua indiscutibile abilità con il pianoforte!”
Il suo tono stucchevole e visibilmente falso infastidì non poco la giovane, che sottrasse la mano alla sua stretta e alzò lo sguardo, strizzandolo per impedire che i fiocchi di neve le entrassero negli occhi: la sontuosa e imponente costruzione dell’Opera svettava sopra di lei come un faro nella notte. Non aveva mai veduto nulla di simile: il portone riccamente ingemmato, sovrastato da marmoree statue di angeli e di divinità, s’apriva su di una scalinata candida che conduceva ad un mondo di colori e di luci, e una cupola luccicante come un gioiello scintillava sulla cima del teatro, esaltandone l’aspetto tipicamente barocco. Tutto in quell’enorme edificio suggeriva magnificenza e fastosità, ma se persone come Madame Lefevre si lasciavano incantare dal suo splendore, Vivian e tutti coloro che preferivano la sostanza all’apparenza non potevano che provare diffidenza per quel posto. Sì, era bellissimo, non c’erano dubbi in proposito, ma…che genere di regole e compromessi si celavano dietro quelle mura di marmo, e quale ambiente l’attendeva oltre il grande portone, nel tepore e nella luce che regnavano all’interno del teatro? Sarebbe stata costretta ad adeguarsi ai giochi di potere dei ricchi per ingraziarseli e ottenere un miserevole ruolo in quel tempio della divina arte della musica, e avrebbe dovuto faticare tre volte più di loro per essere accettata?
No, in quanto a questo, non si sarebbe comportata come tutti si aspettavano da lei. Aveva ottenuto il permesso di seguire lezioni di piano in quel luogo così prestigioso unicamente per il buon nome della sua defunta madre, che la precedeva di un quarto d’ora ovunque andasse e che sempre la confinava nel ruolo ingrato di sua pallida ombra, e aveva accettato perché le stava veramente a cuore la sua preparazione, ma non si sarebbe mai messa a fare i salamelecchi alle ricche signorine che si esibivano nel coro e nel corpo di ballo. Piuttosto preferiva rimanere nell’orfanotrofio per tutta la vita. Se la apprezzavano per ciò che era, bene, se avevano da ridire su di lei e sui suoi vestiti, bene uguale. Tutto quello che le interessava era migliorarsi e dimostrare di non voler seguire le orme di quella magnifica cantante che era stata sua madre. A lei piaceva suonare. Non cantare. Suonare. E non le faceva nessun effetto sapere che la grande Amélie Carré, prima di ritirarsi in isolamento ad Annecy, avesse imperversato sul palcoscenico dell’Opera cantando a gola spiegata.
“Voi insegnate qui, Madame Lefevre?” si volse a guardare la sua tutrice con i denti che le martellavano per il freddo: “Ci venite tutti i giorni?”
La donna accontentò con piacere la sua curiosità: “Proprio così. Sono maestra di canto. Probabilmente non avremo occasione di lavorare insieme, ma posso assicurarti che gli altri insegnanti sono tutte persone molto preparate” ebbe una leggera esitazione, e non resistette all’impulso di fare un ennesimo tentativo: “Lo sai, vero, che mi farebbe molto piacere se tu seguissi anche le mie lezioni. Ne saresti perfettamente in grado. D’altra parte, con un cognome come il tuo, non avresti difficoltà a…”
“Madame, credo di essere stata piuttosto chiara al riguardo” le uscì una voce dura e aspra che probabilmente non avrebbe dovuto usare con la sua anziana e austera educatrice, ma ne aveva proprio abbastanza di quella storia: “Non ho nessuna intenzione di perfezionare le mie capacità canore. Sono venuta qui soltanto per il pianoforte”.
“Ma tua madre…”
“Mia madre è stata una bravissima cantante, non lo nego, ma sappiano tutte e due che non potrò mai eguagliarla” gli intensi occhi marroni della ragazza, che dominavano un viso ovale dalla carnagione olivastra e dalle labbra così rosse da apparire dipinte, si piantarono con risolutezza in quelli sbiaditi dell’anziana donna: “Sarei soltanto un suo pallido ricordo, una sua goffa imitazione, e credetemi, questo non è certo il mio sogno”.
Finse di non notare l’occhiata di profonda disapprovazione che le lanciò la sua tutrice e si diede una vigorosa scrollata per togliersi di dosso tutto il nevischio che l’aveva ricoperta mentre sostava immobile al centro del piazzale dell’Opera: “Ora, Madame, non per mettervi fretta, ma se rimango qui in piedi solo un minuto di più, dovranno usare i picconi per scongelarmi”.
L’altra ebbe un sussulto: “I…picconi?”
Vivian emise un pesante sospiro, che si condensò in una piccola nuvoletta di vapore. Ecco una caratteristica degli agiati che proprio non sopportava: non erano capaci di cogliere il sarcasmo, o almeno, lo coglievano ma erano talmente radicati nelle regole della loro società bigotta che si sentivano in obbligo di fingere sconvolgimento o perplessità. Insomma, erano del tutto privi di senso dell’umorismo, proprio come sua madre, che sveniva ogni volta che risuonava una canzone scollacciata o un’imprecazione. Fortunatamente lei aveva ereditato lo spirito del padre (che tutti rammentavano come un miserabile ubriacone caduto in disgrazia) e sapeva cosa voleva dire farsi una sana risata e sdrammatizzare le sventure.
“Lasciate stare” intensificò il battito dei denti e si circondò con le braccia in un’irriverente caricatura di congelamento: “Consigliavo semplicemente di sbrigarsi, vista la temperatura non troppo clemente”.
“Oh!” gli occhi acquosi di Madame Lefevre si spalancarono leggermente e le conferirono quell’aria da pesce in agonia che ormai la ragazza aveva imparato a riconoscere: “Oh, certo, c’est vrai! Ti staranno aspettando. Coraggio, andiamo”.
Si avviarono incontro all’alta costruzione affondando le calzature nella neve fresca e Vivian percepì i primi sintomi di nervosismo attanagliarle la bocca dello stomaco. E se l’avessero derisa? Se la fama di sua madre non fosse bastata a cancellare le miserevoli origini paterne e la sua natura provinciale? L’avrebbero certamente squadrata dall’alto in basso, bisbigliando tra di loro, e sarebbero echeggiate critiche sulla scarsa cura con cui si abbigliava e acconciava e sul suo modo di camminare, così diretto e deciso, quasi militaresco, che assolutamente non si addiceva ad una signorina. Le sembrava di vederle, le sue future compagne di corso, impeccabili statue di gesso con il volto incipriato e i corpi che annegavano in una montagna di tulle e di velluto, pronte ad esibirsi al meglio delle loro capacità e a penare come delle dannate per risaltare e ottenere una posizione di rilievo. Sapeva come funzionavano certi giochetti. A lei per fortuna sarebbe stata risparmiata una così feroce competizione: forse nel mondo del canto il suo cognome le avrebbe permesso di entrare a far parte del gruppo di raccomandate, ma la sola idea la disgustava e nell’ambito in cui aveva deciso di specializzarsi sarebbe stata semplicemente l’orfana Vivian, sola e fornita dell’unica protezione di una vecchia maestra di canto, troppo insignificante per sperare d’essere notata.
Non che questo le creasse problemi. Non ambiva a far impazzire il pubblico dell’Opera, composto proprio da quel particolare ceto sociale che odiava, desiderava soltanto uscire di lì diversa, migliore, con una preparazione che le avrebbe consentito di potersi definire una vera esperta di pianoforte. Sua madre, Madame Lefevre e la maggior parte degli artisti che lavoravano in quel teatro trovavano che l’arte fine a se stessa fosse inutile, ma per Vivian possedeva un fascino che raramente aveva avvertito nei confronti d’altre cose. Come le sarebbe piaciuto sentirsi chiamare Maestra Carrée impartire lezioni private a giovani e promettenti talenti, componendo nel frattempo opere che sarebbero appartenute a lei e a lei soltanto e che nessuno avrebbe mai potuto insozzare.
Diavolo, aveva bisogno di quelle lezioni! Non si sarebbe lasciata intimidire da una manciata di oche parate a festa la cui unica abilità particolare consisteva nello sparlare a oltranza!
Si mordicchiò una ciocca di capelli come era solita fare quando voleva trovare coraggio e raddrizzò la schiena, marciando incontro al suo futuro a testa alta e a gambe larghe…
….ma con una paura dannata lo stesso!
 
Nei camerini che le giovani allieve dell’Opera condividevano risuonava un cicaleccio frivolo e ininterrotto, inframmezzato da risatine acute e dai fruscii dei tutù che le aspiranti ballerine indossavano con eleganza quasi magica, sostando semisvestite per un lasso di tempo maggiore del dovuto con lo scopo di farsi ammirare (e, probabilmente, invidiare) dalle compagne. Membra esili e ancora acerbe si stiravano in una serie di esercizi di riscaldamento, pronte a dare il meglio di sé a lezione, e affusolate dita dalle unghie curate raccoglievano le fluenti chiome in stretti chignon, fermandoli con una gran quantità di forcine che prendevano dal ripiano su cui erano appoggiate. Le coriste, più robuste ma non per questo meno sofisticate, si esibivano in una serie di gorgheggi di prova e indugiavano su ciascuna nota, la gola fremente e il petto che incamerava aria in preparazione all’acuto successivo. Chi tra le ragazze era sufficientemente sicura di sé da non avere bisogno di allenarsi e chi, al contrario, trascurava i suoi doveri pur di poter spettegolare era raccolto in un angolo, stretto a crocchio e già vestito di tutto punto, e discuteva con la massima libertà, senza farsi scrupoli di volume. Le voci leggere echeggiavano sulle pareti marmoree e ridevano spensierate.
“Quindi Christine si è ritirata?” domandò una giovanissima ballerina dai capelli rossi e il viso lentigginoso, alzando il sopracciglio con fare interrogativo. Una biondina al suo fianco si irrigidì, ma una vistosa cantante con una gran testa di boccoli dorati assentì con divertimento famelico, un lampo di malignità negli occhi chiari e affilati: “Proprio così. È scomparsa dall’Opera subito dopo la notte del Don Juan, e nessuno ha più avuto notizie di lei”.
“Strano” commentò una brunetta grassottella intenta ad allacciarsi senza troppo successo le scarpette da ballo, eternamente condannata dal suo peso ad essere sempre sopravanzata dalle compagne: “In fondo era all’apice della sua fama qui, o sbaglio? Finalmente i direttori le avevano concesso di ottenere la parte più importante e di farsi notare, e quella cosa fa? Si ritira! Si può essere più stupidi di così?”
Le ragazze diedero in una risata maligna e sovreccitata. Evidentemente l’oggetto della loro discussione non riscuoteva molta popolarità tra di loro, e il godimento che le accumunava per la sua carriera mancata era più che mai palese. L’unica ad ostentare un’espressione seccata era la ballerina bionda e gracile appoggiata alla parete di fianco alla rossa, i denti che mordevano ansiosamente il labbro per il fastidio e il nervosismo. Intervenne con l’audacia di chi difende qualcosa di caro: “Non era sua intenzione abbandonare l’Opera, ma alcune…circostanze…l’hanno costretta a farlo”.
La corista dai boccoli impeccabili le scoccò uno sguardo di evidente compatimento: “Oh, lo sappiamo di quali circostanze si tratta…è stata rapita dal temibile Fantasma dell’Opera!”
Una seconda, fragorosa risata riecheggiò per i camerini, ma stavolta diverse tra le fanciulle restarono in silenzio e si guardarono intorno con timore malcelato, come se covassero la paura che parlando di quella spaventosa figura, essa si sarebbe magicamente materializzata davanti a loro. L’esile bionda intervenuta a difesa della vittima di quel pettegolezzo si tinse d’un deciso rossore: “Sono soltanto leggende” borbottò in fretta.
“Eppure quell’uomo l’abbiamo visto tutte!” ricominciò implacabile Boccoli d’Oro: “Christine si deve essere compromessa con lui, ecco perché è scomparsa”.
“Smettila di sputare veleno, Colette!” alzò la voce l’indifeso “avvocato”: “Christine si è felicemente sposata con il Visconte Raoul DeChagny ormai sei mesi fa ed è divenuta Viscontessa DeChagny” fece una pausa e, con astuzia acida: “Un titolo che ben poche di noi potrebbero mai ambire a ricoprire, dico bene?”
Colette incassò la frecciata e serrò le labbra: “La difendi solo perché era tua amica, Meg” ribatté appoggiando la voce su quell’era: “Ma non capisco proprio perché lo fai. Si è più fatta sentire dopo i presunti avvenimenti della notte del Don Juan? No, ovviamente appena ha trovato il suo Visconte e il suo palazzo nobiliare, ha fatto in fretta a dimenticarsi di te, anche se siete state come sorelle fin da piccole! Un comportamento crudele, non trovi?”
Un’espressione di dolore si diffuse sul viso di Meg e i suoi occhi grigi si volsero altrove, come se non avessero la forza di sostenere lo sguardo trionfante di quelli affilati della compagna. Non riuscì a replicare nulla a quella spietata verità e finse di doversi chinare per un allungamento, perdendo la discussione. La rossa al suo fianco, che non aveva osato interrompere Colette e che come la maggior parte delle ragazze la contemplava con timore reverenziale, si reinserì nella conversazione con tono di disprezzo: “È stato un bene che la Daaé se ne sia andata. Quell’arietta angelica sempre stampata sul suo odioso faccino, quel suo sorriso modesto…a volte avrei voluto darle un pugno! E poi, chissà cosa ci trovavano i direttori in lei…non era certo più intonata di te, Colette!”
La destinataria di quel servile complimento lo accettò senza che alcun tipo di gratitudine alterasse la smorfia compiaciuta dei suoi lineamenti perfetti, aureolata di quell’aria indefinibile di chi è sempre stato adorato e riverito in ogni più piccola cosa: “I direttori sanno quel che fanno” rispose con falsa modestia: “Se ritenevano che Christine Daaé meritasse quel ruolo, evidentemente era vero…sempre che in questo non ci fosse lo zampino di qualche spirito soprannaturale!” continuò con un ghigno furbesco.
La brunetta grassoccia non dissimulò la confusione: “Che intendi dire?”
“Non lo sospettate anche voi? Io ho sempre avuto la sensazione che dietro quel suo falso candore si nascondesse una serpe astuta e raccomandata” sibilò la bionda Colette, colma di risentimento verso colei che le aveva usurpato la posizione che le spettava di diritto: “Quella Daaé non era altro che…”
“Ehm…salve?”
La potente voce femminile che pronunciò questo saluto con tono esitante impedì alle fanciulle di scoprire cosa fosse in realtà Christine Daaé e mozzò le parole in gola a Colette, che si girò prima di tutte le altre nella direzione da cui era venuta, le labbra atteggiate in una smorfietta di fastidio che i gentiluomini dovevano trovare adorabile ma che spesso le sue coetanee detestavano con tutto il cuore. Ritta sulla soglia nel suo ingombrante soprabito invernale, gli stivali bagnati di neve sciolta che gocciolavano sul pavimento e i riccioli scuri più scarmigliati che mai, c’era Vivian, un sorriso di circostanza dipinto sul volto e uno sguardo prudente negli occhi castani. In quel momento si sentiva come un pesciolino appena entrato nella tana degli squali, ma si sforzò di racimolare il sangue freddo e di accettare le spietate regole degli esseri umani, che da secoli e secoli avevano l’abitudine di mettere a disagio il famoso “ultimo arrivato”.
Occhi azzurri, verdi, castani, neri e grigi si volsero in contemporanea su di lei e la squadrarono per un lunghissimo istante nel silenzio più totale, scandagliando ogni minimo particolare del suo abbigliamento e del suo viso con precisione meccanica ed emanando ondate di muta diffidenza che quasi la scaraventarono fuori dai camerini. Li sostenne con ammirevole coraggio, imponendo ai propri lineamenti di comporsi in una posa amichevole ma sicura, ed esaminò a sua volta il gruppo di ragazze assiepato di fronte a lei, pronto per recarsi a lezione. Evitò abilmente lo sguardo di una bionda statuaria dalle azzurre iridi affilate e vagò tra quelle facce chiuse alla ricerca di una buona samaritana che si mostrasse un poco più aperta. C’era una ballerina dai capelli chiari e la costituzione esile che appariva meno letale delle altre, ma stava guardando altrove e non sembrava che il suo arrivo l’avesse colpita più di tanto, così passò oltre e finalmente individuò un mezzo sorriso: apparteneva ad una fanciulla che dimostrava diciotto anni, la sua stessa età, castana e magrolina, con l’aria d’essere timida e scarsamente accettata. Si rifugiò nella dolcezza dei suoi occhi verde scuro e si presentò rivolgendosi unicamente a lei: “Mi chiamo Vivian Carré” fu lieta che la sua voce, a dispetto dello stato d’animo, suonasse alta e sicura: “Sono qui per la mia prima lezione di piano. Sapete dirmi dove devo andare?”
Loro continuarono a scrutarla felinamente, storcendo il naso dinnanzi al suo vestiario poco consono ad una frequentatrice del teatro dell’Opera. Fu Colette, ovviamente, a riprendersi per prima: “Carré?” ripeté aggrottando la graziosa fronte liscia: “Come Amélie Carré?”
Vivian sospirò. Aveva sperato di dover discutere di sua madre unicamente con gli insegnanti, che per ovvie ragioni avevano sentito parlare di lei (Madame Lefevre, sua maestra di canto vent’anni prima, se ne era a lungo vantata e alla sua morte era venuta a prenderla all’orfanotrofio per rispettare una promessa che aveva fatto alla sua cara allieva poco prima che partisse per Annecy, già incinta), ma a quanto pare quel malefico spettro non le avrebbe dato pace nemmeno con le coetanee. Assunse un tono poco vivace, che invitava a troncare l’argomento il più in fretta possibile: “Sì, sono sua figlia”.
“Davvero?” l’acuto falsetto con cui Colette se ne uscì gliela rese immediatamente sgradita. La bionda sbarrò gli occhioni azzurri in modo teatrale, coprendosi la bocca con la mano: “Mon Dieu! I miei genitori adoravano tua madre! Non si perdevano neanche un’opera in cui appariva nel ruolo di solista” fece una pausa e le labbra si tesero a scoprire i denti candidi: “È stato un vero peccato che sia scomparsa dalla scena a soli venticinque anni. Ma d’altra parte, lo scandalo…essersi data ad un uomo, ad un lurido fainéant prima di sposarlo…i giornali non le avrebbero lasciato pace. Mi pare che apparve persino un articolo sull’Èpoque, che i miei hanno conservato”.
Vivian strinse gli occhi, percorsa da un fremito di bollente rabbia che s’irradiò dal centro del suo petto e scese a riempirle il ventre e le gambe tremanti. Quella sciocca ragazzina non s’era lasciata sfuggire l’occasione…della fuga della Carré da Parigi si era a lungo speculato, con dovizia di particolari, ma l’accoglienza degli insegnanti l’aveva illusa che non le sarebbe ricaduta addosso, non a lei, che non ne aveva alcuna colpa, che era stata concepita fuori dal matrimonio senza poterci fare nulla. Inghiottì un sorso di bile amara e rivolse a Colette un sorriso non privo di gelida furia: “Eh sì, un vero scandalo” commentò gaia: “Ma come biasimarla? I piaceri della carne hanno sempre affascinato tutte, siamo sincere…e con un uomo desiderabile come mio padre…chi avrebbe resistito?”
Un fremito d’orrore scosse il gruppo di eleganti fanciulle e più d’una distolse il viso come se la nuova avesse pronunciato una disdicevole oscenità, le guance paonazze per il pudore e lo choc. Colette impallidì, dilatando le pupille, e Vivian si godette con intima soddisfazione l’effetto della sua “sconveniente” frase, per nulla turbata dalla consapevolezza che le avrebbe alienato sul nascere le simpatie delle compagne. Ma come avrebbe potuto trattenersi? Soltanto guardarle, così sofisticate e impeccabili, così profondamente influenzate dalle regole, la spingeva ad andar loro contro. Lei non era cresciuta così, non si era imposta di distogliere automaticamente la mente da pensieri troppo audaci, e suo padre l’aveva sempre spinta a parlare di ciò che più le aggradava. Lo consideravano un lurido buono a nulla, osannando per contrasto la sua povera madre sedotta, ma lei l’aveva stimato in vita come lo stimava ora che era morto, e sapeva che al suo posto si sarebbe comportato esattamente nello stesso modo.
Colette recuperò una certa padronanza di sé e quando sollevò il bianco viso, i suoi occhi ardevano di puro veleno: “Devi frequentare lezioni di canto?”
“No” ribatté Vivian con sfida, facendosi avanti per non sgocciolare ulteriormente sul pavimento lucente e sfilandosi con un sospiro di sollievo il pesante soprabito zuppo: “Cantare non fa per me, non ho l’aspetto adatto a quest’arte. Quando m’impegno a non stonare, assumo l’aria e le movenze di un uccellino in agonia. Ve lo immaginate con le piume arricciate e le ali strette strette intorno al corpo?” ridacchiò: “Ecco, io sono uguale”.
A giudicare dalla sua espressione, si sarebbe detto che Colette la reputasse una compagnia decisamente poco raccomandabile, e il gesto sprezzante con cui le voltò le spalle per cercare qualcosa a terra confermò questa impressione. La maggior parte delle ragazze la imitò non certo perché condivideva la sua visione della nuova arrivata, ma per puro e semplice desiderio di farsi apprezzare da lei, e in men che non si dica Vivian si trovò sola in mezzo ad una gran quantità di schiene deliberatamente voltate. Ostentò stoicismo. Sapeva che sarebbe andata così, l’aveva previsto fin da quando era partita da Annecy. Ma almeno non si era arresa al loro gioco, non si era piegata per ottenere la loro approvazione, e tanto le bastava.
Una mano le batté un timido colpetto sulla spalla: “Scusa?”
Si girò, sinceramente sorpresa che ci fosse ancora qualcuno disposto a parlare con lei. La ragazza castana dall’aria riservata che le aveva sorriso al suo ingresso si era spostata accanto a lei, le mani che si torcevano nervosamente sull’abito di scena che le ricopriva l’esile corpo, e le stava offrendo un’espressione gentile e bendisposta: “Avevi chiesto dove dovevi andare per le lezioni di piano…Vivian, giusto?”
Ricambiò con un largo sorriso. Non nutriva alcuna antipatia per lei, e le fu grata per la sua disponibilità: “Sì, grazie. Questo teatro è davvero immenso e ho paura che senza la minima indicazione mi perderei e vagherei senza meta per i corridoi come una lugubre anima tormentata…mi hanno detto di cercare monsieur Brochet, ma…”
“Oh, sì, lo conosco” il viso tondo della sua salvatrice si illuminò: “Insegnava anche a me qualche tempo fa, prima che incominciassi con le lezioni di canto. Sta attenta, è molto rigido! Se vuoi posso accompagnarti, in effetti questo posto è un vero e proprio labirinto, ed è davvero difficile orientarsi”.
“Se lo facessi, mi salveresti la vita” disse Vivian con entusiasmo: “Soltanto per oggi, comunque. In realtà ho un buon senso dell’orientamento, credo che già dopo una volta riuscirei a memorizzare parte del percorso”.
“Buon per te! Non è molto lontano da qui. E Colette, beh…” la ragazza abbassò lo sguardo e si accanì nel tormentare la stoffa della gonna tra le corte dita nervose: “So come ci si sente ad essere presi di mira da lei, ecco”.
Vivian liquidò la faccenda con un secco gesto della mano: “Di quello che dice quel ratto maleodorante me ne infischio ampiamente, se non l’hai notato è capace solo di squittire”.
L’altra emise una risatina fievole, quasi avesse timore di venire udita da orecchie indiscrete: “Hai uno strano modo di parlare”.
“Mi esprimo come mio padre. Pensala come vuoi, ma diavolo” calcò apposta su quella parola: “A volte è proprio il linguaggio giusto all’occasione!”
Non ne era del tutto certa, ma ebbe la sensazione di aver fatto una buona impressione a quella che, non c’erano dubbi, sarebbe ben presto diventata la sua unica amica al teatro dell’Opera. Le porse la mano sottile e si presentò con tono maggiormente rilassato: “Adesso ti accompagno. Comunque mi chiamo Emma”.
Vivian gliela strinse vigorosamente: “È un piacere, Emma”.

 
  
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