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Autore: MeliaMalia    14/08/2006    3 recensioni
Una fanciulla allegra, solare e sempre disposta ad aiutare gli altri; peccato che questi aiuti non siano mai troppo graditi.
La breve storia di Levana, una sacerdotessa decisamente fuori dai luoghi comuni che ho creato per una storia con amici. Mi piace molto, perciò la posto qui, sperando di ricevere giudizi e consigli che mi siano utili.
Genere: Commedia, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.

Sua madre la fece accomodare su una delle sgangherate sedie in legno e paglia della cucina; erano otto, le sedie, circondanti un vecchio tavolo in legno scuro. Una sedia per ogni abitante della loro piccola casa, due riservate ai genitori e le restanti per i sei figli, due femmine e quattro maschi. In quella bella cucina dalla finestrella affacciata sull’orto, ogni pasto era un’occasione di incontro, di riunione – e di lotta per porzioni più abbondanti delle altre – per tutti i membri di quella grande famiglia.
Levana adorava quei momenti. Era una felicità, per lei, condividere l’angusto spazio di quel locale con gli altri, conversare e ridere assieme a loro; anche se spesso rinunciava a parte del suo piatto, irrimediabilmente intenerita dagli occhietti degni di un cucciolo abbandonato che i suoi fratellini le puntavano addosso, affamati anche dopo aver divorato la parte che gli spettava.
Non che fossero poveri. Vivevano dei profitti della terra, ed essi erano un guadagno giusto: come un’amorevole Madre, essa li nutriva, garantendo il necessario e spesso tentennando un po’ sul superfluo. Ma non abbandonandoli mai.
La terzogenita dagli splendidi occhi grigio azzurri e lunghi capelli biondi, che di nome faceva Levana, sedette obbediente, senza domandarsi di cosa la genitrice avesse intenzione di parlarle. Era un gran donnone, sua madre, una creatura bassa e tozza, dai placidi occhi castani e capelli biondo cenere. Pacata, riflessiva, buona e gentile; anche se il suo aspetto poteva farla apparire poco elegante, ella, colla sua pelle cotta dal lavoro sui campi, sembrava quasi un’estensione vivente della terra, un sapiente albero secolare.
“Levana, sai che ti voglio bene?” cominciò, dopo aver rilasciato l’aria inalata poco prima in un profondo respiro.
Levana sorrise radiosa. “Sì, lo so!” Era bellissima, anche se ancora acerba, una cucciola di circa tredici anni compitamente seduta in quella cucina illuminata da un freddo sole invernale; presto sarebbe calato, spingendo i contadini ad abbandonare i campi. Presto i suoi fratelli e suo padre avrebbero fatto ritorno, come ogni sera. “Anche io te ne voglio, mamma.”
Lei sorrise. Sedette dalla parte opposta del tavolo, ed allungò su di esso le braccia, stringendo tra le sue mani quelle più piccole e delicate della figlia. Una figlia non sua figlia, che non aveva partorito, ma trovato all’estremità di un campo, in fasce e lacrimante. Ecco perché, pur così giovane, Levana era già più alta di lei; ecco perché fisicamente somigliava così poco ai fratelli. Ma non erano differenze plateali, e nessuno aveva mai sospettato nulla. Solo lei e suo marito sapevano la verità; una verità che sarebbe stata inutile alla piccola, che le sarebbe costata solo amarezza e delusione; e che, quindi, avevano badato a tenere per loro.
“Vorrei parlare dei tuoi sogni.” buttò infine lì la donna, aumentando la stretta sulle mani della figliola. “Continui ad averne, vero?”
Levana, assolutamente all’oscuro di ogni accezione negativa della faccenda, annuì con un lieto sorriso.
Quando aveva rinvenuto quel fagotto che si era rivelata la sua Levana, Kaileen era in attesa del secondo figlio; aveva un pancione enorme, che riempiva d’orgoglio la sua anziana madre. Così, forse per la sua naturale inclinazione alla bontà, forse per l’istinto materno portato dalla gravidanza quasi al termine, l’aveva raccolta, e tenuta con sé. Ma se avesse immaginato il segreto di quella bambina… beh, forse non l’avrebbe lasciata lì, ma certamente ci avrebbe pensato due volte, prima di diventarne madre.
Però ora Levana, da sconosciuta rinvenuta tra l’erba alta, era in tutto e per tutto sua figlia e per lei Kaileen provava una pena enorme. Gravi guai pesavano su quella fanciulla dal fisico esile; guai a cui lei proprio non poteva porre rimedio.
Tutto era cominciato quando aveva ancora cinque anni: era una trottolina come tante altre, che amava seguire il padre sui campi, saltando in groppa ad un paziente ariete ed urlando “al galoppo!” senza ottenere validi risultati. Una bambina sana e felice, senza nessun segno particolare; sino a che non si addormentava.
“Mamma non deve essere triste per la morte della nonna” aveva mormorato un mattino, stando a piedi nudi sul legno della stanzetta che, in attesa di una sorellina del suo stesso sesso, ancora non condivideva con nessuno; indossava una corta veste da notte, che le arrivava alle ginocchia perennemente sbucciate, e parlava quasi con le lacrime agli occhi. “Perché poi è triste anche Levana”
“Mamma non è triste per la nonna” Kaileen l’aveva osservata con stupore. Sua madre era mancata da circa sei mesi, eppure non aveva permesso a nessuno dei figli di vederla piangere. Perché Levana se ne usciva con quella storia ora, proprio il mattino dopo una brutta notte di incubi sulla defunta?
“Mamma non deve più vedere la nonna che cammina nell’orto, Levana ha paura!” la piccolina era scoppiata in singhiozzi, stropicciandosi gli occhi con paffute dita. La donna, impaurita, l’aveva raccolta più per istinto che per reale intenzione, mentre un brivido freddo le era corso lungo la spina dorsale: Levana aveva descritto per filo e per segno il suo incubo. Ma come…?
“Ho paura.” aveva sussurrato la piccolina, nascondendo il volto nell’incavo tra la spalla e la testa della madre. Kaileen, riscossa delle proprie riflessioni, si era voltata, stampandole un enorme bacio ricolmo d’amore sulla testolina bionda.
“Hai ragione, non dobbiamo più pensare alla nonna.” decise, archiviando immediatamente la questione come una banale coincidenza; era una donna pratica, Kaileen. “Hai fatto bene a dirmelo” aveva sussurrato, non sapendo che altre parole trovare.
“Davvero?”
“Davvero.”
E non l’avesse mai detto.
Quello di Levana era un potere; la cosa divenne via via più evidente, con la piccola che, crescendo, penetrava nei sogni dei fratelli e del padre. Ma questo sarebbe stato il meno. Purtroppo, grazie alla consolatoria osservazione fatta da Kaileen a quella Levana di cinque anni, la piccola aveva concluso che parlare con le persone dei problemi che vedeva nei loro sogni fosse cosa buona e giusta. I fratelli, spaventati, cominciarono a prendere le distanze da lei; il padre, rassegnato, dormiva con un pentolino in testa, sperando che questo fermasse il potere della figliola; cosa abbastanza inutile, che però lo preservava da capocciate contro la testata del letto.
Dato che al peggio non c’è mai fine, ad un certo punto il potere di Levana si era ampliato; il suo spirito, forse stufo dei problemi dei soli abitanti di quella casa, aveva appreso ad elevarsi, sempre più alto, spiando nei sogni dei vicini di casa. E nei vicini dei vicini di casa. Nessuno di loro poteva avvertire queste intrusioni, non avendo poteri magici, ma a questo lei rimediava velocemente: gambe in spalla, bussata alla porta, e consigli su come migliorare la propria esistenza.
Lo faceva solo per il loro bene, in fondo. Come rimproverarla?
“Continuo ad averli” ammise felice la fanciulla, puntando occhi onesti in quelli della madre. “Ma la gente non apprezza i miei sforzi…” aggiunse, con tono più amaro. Kaileen ripensò ai forconi, alle torce e ai “bruciamo quella strega!” che spesso avevano rischiato e si sentì in diritto di annuire. Quindi, cercando maggiore forza, decise di parlare francamente alla bambina.
“Il tuo è un dono, piccola mia.” disse, non lasciandole andare le mani. “Ma qui è sprecato. Dovresti andare dove ti permetterebbero di farlo fiorire.”
“Oh, non potrei mai andarmene, madre. Amo troppo voi, ed i miei fratelli…”
“Sarebbe ingiusto tenere questo dono solo per noi, però.” le fece notare Kaileen, sentendosi un po’ un verme; ma questa dolce bugia sarebbe stata certamente meglio della triste realtà: i fratelli maggiori temevano Levana; ed un po’, l’odiavano. Cercavano di non farlo notare, ma la cosa era avvertibile nell’aria, come un pesante fardello. “C’è un tempio, non molto lontano da qui. Un tempio di sacerdotesse.”
“Un tempio dedicato alla Dea?” a Levana la Dea piaceva. Le piaceva il concetto di una Madre, di uno spirito di vita e di morte, giusto e benevolo, anche se spesso freddamente determinato. Credeva nella Dea, fermamente. “Le sacerdotesse sono sempre molto gentili ed utili” rifletté, ricordando le rare visite ricevute nella loro fattoria. Nella sua mente, i ricordi le mostrarono donne dagli abiti viola, dalle lunghe chioma sciolte e delicati sorrisi, perennemente pronte ad una magia benevola, o ad elargire un saggio consiglio.
“Cosa ne diresti? Potresti provare a mettere a frutto le tue capacità, come sacerdotessa.” sua madre trattenne prepotenti lacrime, ed impedì alla sua voce di incrinarsi: era giusto così. “Potrai tornare a trovarci ogni volta che vorrai, Levana. Ti piacerebbe?”
Sì, le sarebbe piaciuto.



   
 
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