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Autore: waferkya    29/12/2011    3 recensioni
Per cui, John è ferito e non può guidare, e sta guidando Dean, e dovrebbe essere un momento molto glorioso perché ha l’Impala tutta per sé, il volante testardo e duro contro le dita callose, i pedali ad intopparglisi sotto le suole degli stivali, ma tutto quello a cui Dean riesce a pensare è che John è ferito, e fa troppo, troppo freddo, e magari morirà prima che riescano ad arrivare al motel.
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Dean Winchester, John Winchester
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Prima dell'inizio
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— Scritta per il Calendario dell'Avvento di Fanworld.


~ Cold as a cold wind.

Fa un freddo boia e le mani di Dean tremano persino serrate attorno al calcio del fucile. Sta digrignando i denti così forte, per impedirgli di battere, che gli fa male tutta la bocca, e il respiro gli si condensa davanti alla faccia in una spessa nuvola di cotone che gl’impedisce di vedere persino la punta del proprio naso congelato. L’inverno è una stagione di merda per andare a caccia, e naturalmente le dannate streghe assassine del Montana hanno scelto proprio la metà di dicembre per impazzire e cominciare a sterminare esseri umani.
Dean detesta il Montana. Sta rabbrividendo di freddo ininterrottamente da quando hanno oltrepassato il confine, non importa quante canotte di lana s’infili e quanto si serri il colletto imbottito della giacca sotto la gola: ha freddo, ha sempre freddo perché fa freddo così tanto che ha freddo persino l’Impala, povero tesoro, e, maledizione, non si può campare con un clima così, figurarsi poi andare a caccia.
Prova a spiegarlo a John, però, e vedi come reagisce.
Dean si sfrega una mano contro la coscia del jeans, tentando di riportare un minimo di sensibilità ai polpastrelli anchilosati. Fa così freddo che potrebbero riempire il bagagliaio della macchina di prosciutti e piselli surgelati e avviare un’onesta attività di trasporto cibarie da un capo all’altro dello Stato. Non è un’idea tanto di merda, in realtà. Con i primi guadagni comprerebbero una casetta sperduta in cima alle montagne nel cuore del Montana, per riposare un po’ durante la via crucis, perché Dean non ne può più di pulciosi motel, e magari potrebbero trovare una brava ragazza che si occupi di spolverare e innafiare il giardino quando loro sono via. Perché naturalmente avrebbero un giardino, Dean ha sempre voluto un giardino - niente di che, per carità, giusto un fazzoletto di terra su cui tentare di far crescere un po’ d’erba, magari due fiori, un po’ di verbena, e magari un alberello, lì in un angolo, per guardarlo inverdire a primavera e diventare arancione, rosso come un tramonto ogni autunno. A Dean piace camminare sulle foglie crocchianti, color caramello.
Non sarebbe una vita da buttar via. Dean sospira, l’aria fredda che gli gela la bocca e la gola e i polmoni.
Potrebbe abituarcisi, alle temperature polari dell’inverno da queste parti, se a bilanciarle ci fosse una casetta a due piani, con un bel camino e un sacco di stipetti nella cucina in cui conservare la torta di mele.
Un tintinnio affilato di campanelle lo riporta alla realtà, strappandogli in petto un buco a forma di casa. Suo padre viene fuori dalla tavola calda dall’altra parte della strada, e Dean risolleva il fucile, ne appoggia la canna contro il finestrino aperto dell’Impala, controlla che nessuno si muova verso di lui con intenzioni sospette. Controlla i palazzi attorno, finestra per finestra, cercando un’ombra minacciosa e scura, un lampo di candele, ma non trova niente. John spalanca la portiera e quella cigola, lui si siede e l’Impala accompagna il suo arrivo inclinandosi un po’, accogliendolo a casa.
L’odore di caffè è forte e stordisce Dean come l’incenso di una Chiesa.
«Sarà una lunga notte,» brontola John, cupo, porgendogli un bicchierone e poi buttando giù un sorso del proprio. «Attento che scotta.»
«Sissignore,» replica Dean, automaticamente, gli occhi leggermente sgranati fissi sulla benedizione in tazza che suo padre gli offre. Mette via il fucile, nascondendolo tra la portiera e il sedile, e prende il caffè, con attenzione, perché scotta.
È buono, dolce, e soprattutto è caldo. Dean neppure ci pensa a trattenere il gemito un po’ roco che gli sale spontaneo dal fondo della gola, e John accanto a lui sbuffa qualcosa che sembrava quasi una risata, oltre il bordo della sua tazza. Mette in moto, poi, tenendo il caffè in bilico tra le gambe, e Dean non si accorge nemmeno di dov’è che stanno andando, tanto è perso a bere.
Quando si fermano ancora, a meno di un isolato di distanza dalla catapecchia abbandonata che è il quartier generale del piccolo Sabba cui sperano di riuscire a rovinare la festa, Dean è all’ultimo sorso.
Scoperchia la tazza, per riempirsi completamente la bocca, e il caffè ha il colore della terra d’inverno, umida e sterile, ma sulla sua lingua sa d’estate.

*
John è ferito. Una delle streghe era più forte di quanto non avessero immaginato, e un attimo prima che i suoi poteri venissero risucchiati dalla scatola incantata che Missouri ha dato a John - «un po’ tipo i Ghostbusters,» ha detto Dean, e suo padre ha soltanto scosso la testa perché, davvero, se l’era aspettato, - è riuscita a lanciargli contro un incantesimo stronzissimo che gli ha aperto uno squarcio incredibile nella gamba, come il taglio di una spada affilata. E ha pure fatto una smorfia insoddisfatta, la stronza, mentre crollava svenuta, perché evidentemente aveva sperato di tranciargli via tutto dal ginocchio in giù.
Per cui, John è ferito e non può guidare, e sta guidando Dean, e dovrebbe essere un momento molto glorioso perché ha l’Impala tutta per sé, il volante testardo e duro contro le dita callose, i pedali ad intopparglisi sotto le suole degli stivali, ma tutto quello a cui Dean riesce a pensare è che John è ferito, e fa troppo, troppo freddo, e magari morirà prima che riescano ad arrivare al motel.
Dean stringe i denti, si morde le labbra, guarda suo padre tutto teso sul sedile del passeggero - è assurdo e sbagliato che John sieda lì, lui guida, lui deve guidare, è invincibile ed è papà, e Dean perde un battito e poi ne recupera cinquanta in un secondo soltanto, - che si tiene la gamba ferita con entrambe le mani e tenta in ogni modo di non urlare ad ogni sbalzo dell’asfalto, e preme un po’ di più sull’acceleratore.
Ci arrivano, al motel, grazie a Dio o, più precisamente, grazie al motore instancabile dell’Impala,
che dove qualsiasi altro ammasso di ferro e cavi e acciaio avrebbe ceduto al freddo, spaccandosi e coprendosi di ghiaccio, lui ha resistito con una tenacia così da Winchester da fare paura. John tenta di scendere dalla macchina ma riesce appena ad aprire lo sportello, e Dean corre a piazzargli un braccio attorno alle spalle e praticamente ce lo trascina di peso, su per la breve rampa di scale all’aperto e poi fino in camera. È un motel molto discreto, per fortuna, di quelli con le camere agglomerate in edifici separati dalla reception perché i proprietari non vogliono grane, ed è abbastanza presto e talmente tardi che non c’è in giro neppure un’anima, a parte questo ragazzo quasi piegato in due sotto il braccio di suo padre.
John piomba a peso morto sul letto, ma Dean si impedisce di farci caso e corre in bagno a prendere un asciugamano, lo butta sotto l’acqua calda e intanto si spoglia - si toglie la giacca di pelle e le prime due camicie che ha addosso, perché gli sembra che nella stanza faccia paurosamente caldo.
Quando torna di là, John è riuscito in qualche modo a sfilarsi gli scarponi e ora sta allargando lo
strappo sul jeans per riuscire a guardare meglio la ferita.
Dean tentenna per un momento, lo guarda, poi afferra una bottiglia di whiskey dalla scrivania e gliela pigia in mano, accovacciandoglisi davanti. John si lascia convincere in fretta, strappa via il tappo dal liquore e se ne versa un sorso immenso direttamente in gola. Dean taglia via l’intera gamba del suo jeans con il coltello a serramanico che porta nascosto in una fondina attorno alla vita, e sta attento a non ferire ancora suo padre.
Il taglio della strega è bruttissimo, ha i bordi slabbrati e sarà un casino ricucirlo. Fa tutto il giro attorno al ginocchio, inarcandosi sul retro verso la coscia, e in certi punti è talmente profondo che Dean intravede i tendini, l’osso al di sotto. Faceva talmente freddo, di fuori, che il sangue si è congelato in cristalli e spessi grumi sulla pelle di John, ma ora sta cominciando a sciogliersi e colare sulle dita di Dean, che sta solo scostando pianissimo i margini della ferita, cercando tracce di sporco, o frammenti di vetro o di una lama o di qualsiasi cosa all’interno.
«Ricucimi,» gracchia John, la voce che raspa dolorosamente sulla gola. Dean alza gli occhi e lo vede bere un altro infinito sorso di whiskey ambrato, di pessima marca ma del colore del legno. Annuisce, si alza, fa il giro del letto per prendere da uno zaino la scatola con ago e filo e ancora alcol, e poi torna ad inginocchiarsi davanti a John.
«Vedi di non morire dissanguato,» dice, tentando di sorridere ma sta scherzando solo a metà. John lo guarda per un’eternità, gli occhi scuri e liquidi per il dolore, per la frustrazione, forse pure un po’ per la gioia perché, diavolo, un’altra caccia finita bene, tutto sommato; meglio di quanto avesse osato sperare.
«Sbrigati, Dean.»
«Sissignore.»
E Dean, obbediente, si sbriga. Ha caldo, mentre ascolta suo padre trattenere bruscamente il fiato ogni volta che l’ago gli buca la pelle, ogni volta che annaffia la ferita di alcol, e non lo sente davvero.
Ha caldo, e non pensa a niente, se non che il sangue che gli si rapprende sulle sue dita ha un po’ il colore delle foglie cadute in autunno, mentre i bordi pallidissimi della ferita di John, invece, e tutta la sua pelle, sembrano il cielo nei giorni in cui nevica, quello soffice e bianco che ti sembra fragile, che ti sembra di poterlo spaccare solo a guardarlo troppo forte.
Negli occhi ha una casetta a due piani, con un giardinetto circondato da siepi e una ragazza, i capelli scuri e gli occhi di John, che mette in lavatrice camicie di flanella e calzini bucati mentre in cucina una torta di mele s’indora nel forno, e quello sì che è un sogno che si spezza nel nero, si spezza nel bianco, si copre di neve, se solo ci pensi troppo. E Dean, accidenti a lui, con suo padre che geme pianissimo di un dolore insopportabile, Dean che non è abbastanza ubriaco per tutto questo, Dean che sente la mancanza di Sam e non vuole ammetterlo, Dean che certi giorni non sa neanche più se sua madre aveva gli occhi azzurri o verdi, Dean è uno di quelli che alle cose che vuole ci pensa troppo davvero.
Cuce l’ultimo punto, annoda con attenzione il filo e poi taglia via tutto quello che non serve. Per buona misura, John s’inonda il ginocchio con quel che rimane del whiskey. Dean si solleva, le ginocchia gli tremano un po’, e osserva il proprio lavoro, le labbra tese in una linea sottile.
John dà un sospiro pesante, si sfila la giacca di pelle, la tira lontano.
«Hai fatto un buon lavoro,» dice, e Dean arrossisce, abbassa gli occhi. John si lascia cadere all’indietro sul materasso, le mani premute sulla faccia, e Dean riesce a muoversi ancora, finalmente. Senza neppure sciacquarsi il sangue via dalle mani scappa di fuori, giù per le scale e oltre l’Impala. Vomita pure l’anima sulle radici secche di un albero ischeletrito dal freddo, la corteccia scheggiata che gli ferisce il palmo della mano con cui si è appoggiato al tronco, e rimane chino sulle ginocchia a respirare la puzza della sua paura e l’odore di ferro del sangue di John finché non si sente male di nuovo, e vomita di nuovo.
Trema, e gli sembra che stia tremando pure l’albero, gli sembra che stia tremando tutto il mondo. Gli fa schifo, l’inverno. È buio, è freddo, e nel buio e nel freddo si nascondo i mostri, buia e fredda è la paura, buio e freddo è il panico, quella morsa centrifuga che ti torce lo stomaco e per cui non sai più che fare, malgrado l’addestramento e una vita passata a centrare lattine vuote di birra coi sassi, e una pistola - a piombini, prima, e poi rimpinzata di proiettili veri, - sempre infilata nella cintura da che i tuoi polsi sono riusciti a reggerla.
Gli fa schifo, l’inverno. Di certo non può fermare le stagioni e non può correre dietro all’estate lungo la Nazione, ma l’inverno gli fa schifo, gli fa schifo il Montana, gli fa schifo, soprattutto, il pensiero di aver quasi perso John, di aver quasi perso papà. Nei suoi ricordi, faceva un freddo incredibile pure quando Sammy se n’è andato a Stamford: c’era questo spiffero ghiacciato che s’infilava sotto la finestra e gli mordicchiava la nuca.
Gli fa schifo l’inverno e gli fa schifo pure la caccia, in realtà, quando mette in pericolo la sua famiglia e quindi sempre, sempre, sempre. Si risolleva un po’ a fatica, stringe forte gli occhi e mentre torna in camera, trascinando i piedi sul selciato ghiacciato che crocchia sotto le suole dei suoi scarponi, tanto per riscaldarsi un pochino dà fuoco alla casa a due piani e a quella vita che gli piace così tanto immaginare.
  
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