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Autore: taemotional    30/12/2011    1 recensioni
[JinDa]
"Il contrasto che c’era tra la sua voce e il viso era sconvolgente. E, in effetti, a Jin era venuto un colpo nel momento in cui, dopo aver sentito quella voce profonda, si era ritrovato davanti uno dei visi dai lineamenti più dolci che avesse mai visto. Il taglio degli occhi non era troppo allungato e le iridi erano nerissime. Il naso all’insù seguiva armoniosamente la curva del mento... I capelli corvini leggermente più corti dei propri gli circondavano dolcemente il viso finendo in delle punte bionde, e quando portò una mano per allontanare la frangia dagli occhi, Jin notò che le nocche erano un po’ rovinate. Come di chi pratica qualche sport simile alla boxe."
Genere: Angst, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Jin, Tatsuya, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La mia prima ff postata qui! Non l'avrei mai detto ^^ Questa storia è stata molto difficile da scrivere per me ma spero che vi piaccia. Ditemi cosa ne pensate alla fine! Critiche ben accette :D
N.B. in fondo ci sono le eventuali note ^^
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~You can't have a dawn without night~
 

<< Intorno a me,
Il mondo continua a girare senza notare la mia esistenza.
Però ora,
Voglio credere a questo incontro. >>


 

Mi domando perché continui ancora a tornare in questo posto.

***

L’izakaya[1] si trovava nel distretto di Ōta, a cinque minuti di tram dalla Stazione Kamata.
A Jin Akanishi non piaceva particolarmente quel posto, era pieno di impiegati che trascorrevano le loro serate a disperarsi per il proprio lavoro fallimentare e di donne di mezza età poco interessanti intente ad inspirare grosse boccate di fumo. Jin andava là solo perché il locale si trovava sulla strada tra il campo di calcio e la stazione, tutto qui.
Non gli andava a genio nemmeno il dover allenarsi in quel quartiere al sud di Tōkyō. Il campo era troppo piccolo e il fatto che dovesse prendere il treno ogni giorno lo irritava. Ma la palestra della scuola doveva essere ristrutturata a causa di un problema alle tubature e, non avendo la possibilità di allenarsi nel campo all’aperto per via del campionato del girone inferiore, la squadra era costretta a tenere gli allenamenti in quel metro quadrato d’erba.
Alla fine, lui era un tipo che si abituava in fretta e già dopo la terza trasferta non fu poi così male. Il locale, invece, faceva sempre schifo. Si domandò se non fosse addirittura peggiorato dalla prima volta in cui ci era entrato. Gli izakaya non gli piacevano proprio. Lui preferiva le discoteche all’occidentale.
In quel suo spostamento serale, l’unica cosa che gli mancavano erano gli aperitivi a base di rum, la musica americana sparata a tutto volume nelle casse e la gente che si scatenava, che perdeva la propria identità in quel groviglio di corpi. Allenarsi ogni sera - incluso il finesettimana - in quel distretto distante quasi un’ora di treno dal proprio quartiere significava proprio dover abbandonare quell’abitudine che ormai andava avanti da almeno tre anni.
 
Una sera, una settimana precisa dall’inizio di quello strazio, pensava proprio a questo mentre era nello spogliatoio e si cambiava gli abiti zuppi di sudore. Chissà se la gente che frequentava assiduamente la discoteca come lui si era accorto della sua mancanza. Di sicuro il barman l’aveva notato, lui nota sempre tutto. Jin se lo immaginò e storse le labbra. Il sorriso radioso e l’aspetto di quel tipo gli mettevano i brividi.
“Akanishi, noi andiamo. Ci vediamo domani.”
Jin alzò una mano in segno di assenso mentre i suoi compagni di squadra uscivano dallo spogliatoio. Di sicuro andavano in qualche locale a divertirsi senza averlo invitato. Alzò le spalle, a lui non interessava uscire con loro. Semplicemente, trovava che quel comportamento fosse infantile, solo perché sono più bravo di loro.
Sbuffò e infilò maglietta e pantaloncini nel borsone. Non c’è bisogno che la competizione diventi un pretesto per spaccare la squadra. In effetti però, la squadra non era proprio divisa. Era solo lui ad esserne escluso.
“Akanishi?”
Jin alzò gli occhi e sorrise, solo il suo allenatore non gli aveva ancora voltato le spalle.
“Nakamaru-sensei[2], me ne vado subito.”
“No, no! Tranquillo,” commentò Yuichi, “Volevo solo sapere come vanno le cose... oggi abbiamo fatto più tardi del solito, non vorrei che vi stancaste troppo.”
“Già...” accordò Jin infilando il cappotto e attorcigliando la sciarpa di lana attorno al collo, “Ma dobbiamo continuare ad allenarci se vogliamo arrivare ai quarti di finale.”
“Sì, però non tralasciare lo studio.”
“Il liceo non mi interessa, mi manca solo un anno, e non mi importa quale punteggio otterrò nell’esame finale. Mi basta uscire con il minimo indispensabile.”
Yuichi annuì, sapeva benissimo che nella testa di Jin la scuola occupava, forse, il gradino più basso nella scala delle sue priorità.
“Allora, a domani sera,” lo salutò Jin.
“Buon rientro.”
 
 Come ogni volta, prese l’autobus e scese una fermata prima della stazione. Il resto lo avrebbe fatto a piedi, ma prima si sarebbe fermato al solito izakaya per bere una birra. Alla fine, la birra che servivano lì era l’unica cosa decente.
Entrò e il proprietario lo salutò come un vecchio cliente.
“La solita birra?” gli domandò e Jin annuì prendendo posto proprio davanti al bancone. Il proprietario, un uomo anziano che aveva perso quasi tutti i capelli, non si era mai domandato se lui fosse maggiorenne o meno. Venti anni non li aveva, ma il suo fisico e i lineamenti del viso erano piuttosto maturi. Nemmeno nelle varie discoteche avevano mai dubitato della sua maggiore età. Per non avere altri problemi, Jin aveva pure deciso di lasciarsi crescere i capelli, e, saltuariamente, li raccoglieva in un codino dietro la nuca. Quella volta, in più, non aveva nemmeno fatto la barba e quei peli radi sotto al mento davano proprio l’idea che avesse almeno venticinque anni.
Quando si sedette e lasciò cadere il borsone al proprio fianco non si era ancora guardato intorno. Cosa vuoi che ci sia di interessante da vedere in della gente che viene qui solo per dimenticare che la propria vita fa schifo?
Poi arrivò la birra, lui guardò per qualche secondo la schiuma in superficie e si rigirò il boccale tra le dita. Ed io? Perché consumo ogni mia energia in quella discoteca?
“Non ti piace?” chiese qualcuno seduto al suo fianco e Jin sussultò, “A me sembra buona...”
Jin non rispose subito ma guardò quella persona aggrottare le sopracciglia nello scrutare il proprio bicchiere di birra.
Quando era entrato non lo aveva proprio notato. Come si era potuto lasciare sfuggire una cosa simile?
“No, è buona infatti,” commentò portandosi la bevanda di malto alle labbra. Il ragazzo gli sorrise e finì il resto in un sorso, poi si mise a ridere: “Non la reggo proprio questa roba.”
Il contrasto che c’era tra la sua voce e il viso era sconvolgente. E, in effetti, a Jin era venuto un colpo nel momento in cui, dopo aver sentito quella voce profonda, si era ritrovato davanti uno dei visi dai lineamenti più dolci che avesse mai visto. Il taglio degli occhi non era troppo allungato e le iridi erano nerissime. Il naso all’insù seguiva armoniosamente la curva del mento.
Jin continuò a studiarlo un altro po’ senza che l’altro se ne accorgesse. I capelli corvini leggermente più corti dei propri gli circondavano dolcemente il viso finendo in delle punte bionde, e quando portò una mano per allontanare la frangia dagli occhi, Jin notò che le nocche erano un po’ rovinate. Come di chi pratica qualche sport simile alla boxe.
“Vieni spesso qui?” domandò ancora quello sconosciuto pagando il conto.
“Ultimamente.”
“Non ti ho mai visto qui prima d’ora.”
Il ragazzo dai capelli neri si alzò stirandosi. Il suo corpo non era affatto quello di un uomo e, se non fosse stato per la voce, Jin avrebbe potuto benissimo pensare che fosse una ragazza dai gusti particolari in fatto di vestiti.
“Abiti da queste parti?” domandò Jin trangugiando il resto della birra. Era davvero tardi, se non si sbrigava avrebbe perso l’ultimo treno.
“Ah, io no, ma la mia ragazza sì. E... ogni tanto vengo a trovarla.”
“L’hai detto come se fosse una costrizione!” esclamò Jin ridendo.
Il ragazzo fece una smorfia e si strinse nelle spalle.
“Comunque ora ho il treno...” commentò Jin guardando l’ora, era quasi mezzanotte e l’ultimo treno sarebbe partito di lì a pochi minuti.
“Ah, in effetti anche io.”
Jin lasciò i soldi sul bancone e disse al proprietario che poteva tenere il resto. Questi si inchinò ringraziandolo.
“Stazione Kamata?”
“Sì,” rispose il ragazzo guardando l’ora, “Ah! Ma è tardissimo!”
“Lo so!”
Si infilarono i cappotti ed uscirono all’aria congelata di Dicembre. Senza dirsi nulla, iniziarono a fare la strada assieme.
 
“Tu ce l’hai una ragazza?” domandò il ragazzo dai capelli corvini con aria noncurante. Jin si sistemò meglio la sciarpa attorno al collo e pensò ad una buona risposta. Non poteva certo dire: no, di solito vado con la prima che capita, ma uso sempre il preservativo.
Si schiarì la voce.
“No,” gli sembrava la risposta più adatta, e quella più vaga.
“Perché?”
Perché non voglio relazioni serie. E perché non le voglio?
“Perché... le donne non aspettano altro che il momento giusto per incastrarti,” rispose aggrottando la fronte. Il significato di quella risposta non lo sapeva nemmeno lui. Ma provava sempre questa sensazione ogni volta che una ragazza lo avvicinava sorridendo.
L’altro annuì come se avesse capito.
Jin tirò su col naso. Ma perché doveva mettersi a raccontare le proprie cose a questo sconosciuto androgino? Forse, proprio perché non lo incontrerò mai più, quindi va bene così.
“Credo che ci convenga iniziare a  correre.”
Jin vide la stazione a pochi metri. “D’accordo,” disse e, seguendo l’altro, accelerò il passo.
 
Si fermarono solo quando furono saliti sul treno e le porte si furono chiuse. Jin stramazzò su un sedile e iniziò a ridere senza motivo. L’altro ragazzo fece lo stesso.
“Ma... perché ridiamo?” domandò lo sconosciuto a un certo punto, quando il treno aveva ormai preso velocità.
“Non lo so, sembra una situazione comica.”
“Se lo dici te, ma forse è la birra.”
Jin scosse la testa e si guardò intorno. Il vagone era deserto come al solito.
“Io reggo di peggio,” constatò poggiando la testa sulla parete dietro di lui e chiuse gli occhi, “Forse è la stanchezza.”
Il ragazzo androgino si era seduto di fronte a lui.
“Ma hai preso il treno giusto?”
Jin annuì, andavano dalla stessa parte.
Il resto del tragitto trascorse senza che loro dissero altro. Quell’ondeggiare tranquillo e periodico era davvero invitante e il cervello si rilassò senza problemi.
 
“Hey!” lo scosse leggermente qualcuno. Jin riaprì gli occhi e ci mise un po’ a riconoscere quella persona che gli stava davanti. I suoi occhi erano davvero neri.
“Io scendo qui.”
“Ah...” Jin si tirò su nel momento in cui il capotreno annunciava il nome della stazione di fermata.
“Io alla prossima.”
Il ragazzo sorrise e annuì, poi scese dal treno non appena le porte si aprirono.
“Hey,” lo chiamò Jin alzandosi in piedi, “Non so come ti chiami.”
“Tatsuya Ueda! Puoi immaginare gli ideogrammi.”
“Veramente no...”
Le porte si chiusero in quell’istante e Tatsuya fece spallucce, poi, prima che il treno fosse ripartito, lo indicò e mosse le labbra: qual è il tuo?
Jin esitò un secondo, alitò sul vetro creando una patina di umidità e scrisse solo il proprio nome in hiragana[3] al contrario. Fortunatamente, da piccolo era solito divertirsi a scrivere in quel modo sui finestrini della macchina.
Tatsuya alzò i pollici nel momento in cui il treno ripartì con un fischio. Jin storse le labbra, il cognome sarebbe stato troppo lungo.
 
Quando, un anno prima, una ragazza piuttosto curiosa gli aveva domandato il nome dei propri genitori lui aveva semplicemente risposto che erano morti da quasi cinque anni.
Prima di passare a miglior vita, la madre di Jin era stata una doppiatrice piuttosto famosa. La sua voce era davvero corposa - come la definivano i media - e si adattava a qualsiasi tipo di personaggio. Il picco della sua carriera, però, lo aveva toccato doppiando la voce di una prostituta in un vecchio film venezuelano. Da quel momento in poi, i suoi fan erano aumentati a dismisura e le richieste di doppiaggio si erano moltiplicate all’inverosimile. Jin, non avendo ancora dieci anni, non ricordava bene di quel suo periodo d’oro. Però non aveva dimenticato la puzza dello sgabuzzino in cui la madre lo rinchiudeva ogni volta che uno sconosciuto si presentava a casa loro.
Il fatto che la madre tradisse il marito con il proprio direttore era una cosa che, una volta venuta allo scoperto, apparve su tutti i giornali nazionali e regionali e rimase sulla bocca di molti giornalisti per un lungo lasso di tempo. Quello fu solo l’inizio del declino della sua carriera ma, chissà perché, il suo stipendio non si ridusse mai di un singolo yen.
Il padre, invece, non si era scomposto affatto alla notizia. Lui era stato un politico piuttosto influente sulla scena internazionale ed era perennemente fuori di casa per lavoro. Probabilmente, la sua coscienza sporca non gli aveva permesso di chiedere il divorzio e ad entrambi andava bene così.
Dopo lo scandalo, però, il padre di Jin aveva iniziato a restare con la propria famiglia il più tempo possibile, cercando innanzitutto di mantenere intatta l’immagina di perfetto capo famiglia, che, addirittura, si mostrava benevolo nei confronti della propria moglie peccatrice.
La notizia improvvisa della loro morte a causa di un incidente stradale aveva sconvolto l’intero Giappone ma Jin, dopo un primo momento di smarrimento, si era ripreso in fretta.
A quel tempo, i suoi zii paterni si erano fatti avanti perché il ragazzo non ancora maggiorenne andasse a vivere con loro, ma lui si era opposto con tutte le proprie forze. Sarebbe rimasto in quella casa da solo e avrebbe continuato ad andare a scuola almeno finché non avesse finito il liceo. Dopodiché, non avrebbe dovuto fare altro che continuare ad inseguire il proprio sogno e infine diventare un giocatore di calcio a livello professionistico.
Quando, un anno prima, quella ragazza curiosa ebbe ricevuto la sua risposta non aveva fatto altro che sorridere e mormorare un flebile mi dispiace. Poi lo aveva preso sottobraccio e lo aveva portato fuori dal locale dicendo: conosco un buon motel, hai la protezione?
 
Al suono della campanella, Jin poggiò la fronte sul banco e chiuse gli occhi. Il risveglio quella mattina era stato traumatico e ancora non si era ripreso del tutto. L’allenamento, durato più a lungo del previsto, era anche stato uno dei più duri, e metà squadra non era nemmeno riuscita a venire a scuola.
Non studio, ma non posso permettermi di perdere le lezioni altrimenti rischio la bocciatura sul serio. E lui, in quella scuola, non voleva passarci un solo giorno in più del dovuto, figuriamoci ripetere l’anno.
“Akanishi,” lo chiamò in quel momento una voce che riconobbe come quella del suo compagno di banco, “C’è il professore.”
Jin alzò gli occhi verso la porta e vide Yuichi fargli un cenno con la mano. Si alzò veloce e lo raggiunse.
“Nakamaru-sensei,” lo salutò, “Buongiorno.”
“Buongiorno... ho visto che oggi molti dei nostri non ci sono.”
“Già,” rispose Jin, “Devono essere distrutti.”
“E anche le occhiaie sotto i tuoi occhi dicono lo stesso di te.”
Jin si stropicciò l’occhio sinistro, “No, è che questa notte ho avuto degli incubi e non ho dormito.”
“Ah, davvero...” commentò Yuichi riconoscendola come una bugia, “Comunque niente.”
“Cosa?”
“Volevo proporre alla squadra di allenarsi un po’ prima oggi ma mi hanno chiesto se per questa sera si poteva rimandare dato che c’è il compleanno di Tanaka.”
“Ah, ma io non ci vado,” commentò Jin venendo a sapere di quel fatto solo in quel momento. Non era stato invitato, poco male. “Io verrò all’allenamento. A che ora?”
Il professore socchiuse gli occhi, “Perché non vai?”
Jin alzò le spalle, “Non ho voglia.”
Ma chi prendo in giro, questa cosa mi fa davvero male.
“Akanishi... so che non vai molto d’accordo con loro... ma potresti almeno sforzarti un po’.”
Cosa sa lei? Lei non sa proprio un bel niente.
“Mi vuole allenare questa sera, o no?” domandò Jin con un tono decisamente troppo duro.
Il professore strinse le labbra. Jin aggrediva le persone in momenti del genere, Yuichi lo aveva notato anche sul campo da calcio.
Ogni volta che si toccava un qualche tema che lo metteva alle strette diventava violento e, una volta, aveva pure iniziato una rissa in piena partita. Non conosceva bene il motivo che aveva spinto Jin a prendere a pugni il suo compagno, e, in seguito, quest’ultimo si era definito completamente innocente al riguardo. Ma Yuichi era stato l’unico a non avergli creduto. In quegli anni aveva imparato a conoscere bene il proprio giocatore di punta e sapeva benissimo che Jin non attaccava briga senza un valido motivo.
Addolcì un po’ lo sguardo.
“Faremo qualcosa di tecnico questa sera, sarà stancante, te la senti?”
Jin annuì con convinzione.
“Ma finiremo prima delle undici,” concluse Yuichi, e la campana che annunciava l’inizio di una nuova lezione suonò.
 
Al contrario, l’allenamento di quella sera fu uno dei più rilassanti che avesse mai fatto. Il fatto di non avere gli sguardi giudicatori dei propri compagni gli permetteva di tenere la mente libera da qualsiasi impedimento e il corpo si muoveva più leggero e veloce.
“Oggi sembravi un’altra persona,” commentò Yuichi raggiungendolo poi nello spogliatoio. Insieme a lui c’era un uomo sulla quarantina che teneva sotto braccio una cartellina semitrasparente piena di fogli.
Jin osservò un attimo l’altro uomo poi annuì, si era sentito davvero un’altra persona. Per la prima volta, c’era stato solo lui e il proprio corpo sul campo.
“Sono convinto che diventerai qualcuno,” aggiunse poi il professore sorridendo, prima di dargli una pacca sulla spalla. Ma Jin continuava ad osservare lo sconosciuto.
“Ah,” commentò allora Yuichi con un sorriso enorme, “Questa persona è venuta a vedere il tuo allenamento. Dice che se farai un buon campionato potrebbe anche chiederti di entrare nella sua squadra.”
Jin sgranò gli occhi e la saliva gli venne a mancare di colpo.
 
Scese dal tram una fermata prima della stazione come fosse una cosa automatica. I suoi piedi avevano calcolato il tempo autonomamente e gli avevano permesso di scendere al momento giusto anche se la mente era da tutt’altra parte.
Entrò nell’izakaya e solo in quel momento si rese conto di dove fosse. Rimase un secondo imbambolato all’entrata e cercò di ricordare come fosse effettivamente arrivato fin lì.
“Buona sera,” lo salutò il vecchio proprietario e lui chinò leggermente in capo. Decise di lasciar perdere quel vuoto di memoria e si avviò all’interno cercando di non urtare nessuno col borsone, oggi c’è davvero tanta gente. Sarà che sono venuto prima del solito.
Qualcuno seduto al bancone si voltò e lo salutò. Jin riconobbe Tatsuya al volo. Lo aveva già notato all’entrata ma il cervello non aveva collegato subito. Anche lui notava sempre tutto, come il barman dalla capigliatura raccapricciante della sua discoteca abituale.
“Allora è vero che vieni spesso,” commentò Tatsuya una volta che Jin ebbe ordinato la solita birra.
“Ho gli allenamenti ogni sera...”
“Ah!” esclamò il ragazzo dai capelli corvini facendosi improvvisamente attento, “Fai sport?”
Jin annuì e prese il boccale che il proprietario gli aveva appena poggiato di fronte.
“E’ davvero palloso venire qui ogni sera per solo un paio d’ore di allenamento,” iniziò, poi gli tornarono in mente le parole di quel manager sconosciuto e un sorriso gli si formò sulle labbra.
“Comunque,” continuò Jin cambiando discorso, pensare a quella cosa lo proiettava involontariamente in un’altra dimensione e non voleva perdere il contatto con la realtà una seconda volta. “Come va con la tua ragazza?”
Tatsuya fece spallucce e si portò la tazza - apparentemente colma di tè verde - alle labbra. Jin constatò che, nella sua attenta analisi del giorno prima, non aveva notato quanto fossero carnose. Proprio come una donna.
“Non sono andata a trovarla oggi,” disse semplicemente.
“E allora che fai qui?”
Tatsuya si strinse ancora nelle spalle.
“Allora non hai nulla da fare questa sera, vero?”
“Nulla di programmato.”
“Vogliamo divertirci?”
Tatsuya alzò un ciglio e lo guardò interrogativo.
“C’è una discoteca vicino alla tua fermata. Ci vado spesso ma ultimamente non ne ho avuto il tempo...”
Tatsuya sorseggiò ancora il tè e sembrava stesse valutando l’offerta.
“Sarebbe la prima volta per me.”
“Eh!?” esclamò Jin scoppiando a ridere, “Ma come hai vissuto fin’ora?”
Tatsuya finì il proprio tè e rise pure lui. “Non lo so, ma se sono arrivato a venti anni senza andarci significa che non è poi così necessaria.”
Jin scosse la testa, “Non capisci, là dentro è come un altro mondo. E ti dimentichi di tutto il resto, sei solo tu e la musica e...” poi ci pensò su e si azzittì di colpo.
E...?”
Jin non rispose. Guardò la schiuma nel proprio bicchiere intatto scomparire lentamente.
Non sono uguale anche io a questa gente? Questi impiegati cercano una fuga dalla realtà. E così faccio io. Fumando, bevendo e cercando calore tra le braccia di ragazze sconosciute, non sono forse io il peggiore qua dentro?
Che incongruente.
“E...” iniziò poi cercando di riallacciarsi al discorso precedente, “Niente, vogliamo andare?”
Tatsuya fece spallucce come suo solito. Sembrava davvero un bambino che non sa prendere decisioni da sé e di conseguenza, per non contraddire gli adulti, li asseconda. “D’accordo.”
 
Jin restò in silenzio durante tutto il tragitto dall’izakaya alla stazione.
Durante quegli anni di solitudine non aveva mai messo in discussione il fatto che la discoteca fosse il suo habitat naturale. Quando entrava là dentro smetteva improvvisamente di essere il pessimo studente, il figlio ignorato, il calciatore escluso. In quella scatola insonorizzata, niente di tutto quello poteva penetrarvi e Jin riusciva finalmente ad essere chiunque volesse, nessuno lo avrebbe giudicato per questo. Ed era finito per diventare solo uno tra tanti. Ma non era forse questo ciò che volevo? Avere qualcuno attorno a me che mi consideri parte di qualcosa. Famiglia, squadra di calcio, discoteca. Andava bene qualsiasi cosa.
Non credeva di dover avere quel bisogno prima della morte dei suoi genitori. Fintanto che loro erano stati in vita Jin aveva amato la solitudine della propria stanza, come un mondo distaccato in cui non c’era nessuno a dirgli come doveva comportarsi, come doveva vestirsi e parlare. Modi diversi eppure simili di isolarsi dalla realtà, inframmezzati solo dalla morte inattesa di due persone.
 
“Cos’hai?” domandò ad un certo punto Tatsuya notando un’espressione disgustata sul viso di Jin. Quest’ultimo cercò di togliersi dalla mente immagini passate, e l’odore di muffa dello sgabuzzino si affievolì un poco.
“Niente,” disse lui precedendolo fuori dalla stazione. Quella zona era completamente deserta e la nebbiolina che era scesa e che si rifletteva nella luce soffusa dei lampioni stradali sembrava essere in grado di passare attraverso i tessuti e arrivare fin sotto la pelle. “Che freddo,” commentò sistemandosi la sciarpa di lana attorno al collo.
Tatsuya concordò e tirò la zip della giacca fino in cima, coprendosi il mento.
“Ho dimenticato la sciarpa,” commentò poi accelerando il passo per stare dietro all’altro, “E’ lontano?”
Jin scosse la testa ed indicò un vicolo, “E’ là, resisti,” disse, “Tu invece da che parte abiti?”
“Qua vicino,” rispose Tatsuya.
“E non sei mai andato in questa discoteca.”
“Mai.”
Jin non disse altro, qualcosa stava cambiando. Il vecchio Jin avrebbe detto ancora una volta: Ma come hai vissuto fin’ora? e invece era rimasto in silenzio.
 
La discoteca non era affatto appariscente dall’esterno e quando Jin si fermò, Tatsuya ci mise un po’ a notare una scritta al neon in fondo a una scalinata sulla sinistra.
“E’ al seminterrato,” commentò Jin facendogli strada lungo una serie di scalini che scendevano al di sotto del livello della strada, “Non si direbbe, ma i primi tre piani fanno sempre parte del locale.”
A vederlo dall’esterno, Tatsuya si era immaginato una discoteca da quattro soldi, come una di quelle bettole che si vedono nei vecchi film americani. Invece la vista della sala lo lasciò stupefatto. Non si poteva dire che quello fosse un locale d’alta classe, ma il divario che c’era tra le aspettative e la realtà era quantomeno ampio.
La sala in cui entrarono era piuttosto spaziosa ma talmente poco illuminata che le pareti, il soffitto e il pavimento non sembravano esistere. La luce proveniva principalmente da delle lampade disposte su piccoli tavolinetti e da alcuni tubi al neon che delimitavano il perimetro del soffitto -inframmezzati solo da qualche lampadina colorata - e del pavimento, creando inoltre una specie di passerella che arrivava fino al bancone. Al centro della sala, leggermente spostata a sinistra, si ergeva una scala trasparente che conduceva al piano di sopra. Se si alzavano gli occhi si notavano altre sale divise da solo vetro in cui la gente si scatenava a ritmo di R&B. In quel primo livello, invece, la musica era debole e creava un sottofondo abbastanza piacevole.
Jin si fece largo tra i tavolinetti lungo quella passerella al neon e Tatsuya ebbe l’impressione di camminare su una lastra di vetro sospesa nel vuoto. Se esci dal perimetro, cadi.
Non c’era molta gente ma, durante quella sfilata, molte teste di ragazze si girarono nella loro direzione per guardare Jin che avanzava sicuro e a testa alta. Quegli sguardi non erano affatto paragonabili a quelli dei suoi compagni di squadra e Jin non vi aveva mai fatto molto caso, eppure quella volta lo infastidirono. Si girò verso Tatsuya, “Stammi vicino.”
Il ragazzo non capì quelle parole. Perché? Di cosa avrebbe dovuto avere paura? E, se davvero c’era qualcosa di cui aver paura, perché allora lo aveva portato a divertirsi in quel posto?  
“Akanishi!” lo chiamò ad un certo punto qualcuno che usciva da una porta laterale, e un gruppo di ragazzi li raggiunsero. “Da quanto tempo! Avanti, vieni, ti faccio conoscere questa ragazza che...” e il resto venne coperto da schiamazzi generali. L’atmosfera tranquilla che c’era un secondo prima era stata inevitabilmente incrinata.
Jin cercò di spiegare qualcosa e lanciò uno sguardo a Tatsuya che era rimasto immobile a guardarlo mentre veniva trascinato via dai suoi amici.
“Aspettami al bancone!” gli gridò Jin, “E non far caso al tipo che c’è là!”
Tatsuya restò da solo sospeso in quel vuoto. Per lo meno, in poco tempo, l’atmosfera tornò alla normalità e solo una sonata al pianoforte rompeva il silenzio. Anche la maggior parte delle ragazze che si erano focalizzate su di loro tornò a chiacchierare allegramente per i propri fatti. Solo alcune continuarono a guardare Tatsuya che, lentamente, si diresse verso il bancone.
 
Dopo il dissolvimento del gruppo di amici di Jin, scomparsi chissà dove, restava solo un punto della sala piuttosto animato. Davanti al bancone, chi seduta sugli sgabelli, chi in piedi, si era radunato un gruppo di ragazze che squittivano cercando di attirare l’attenzione del barman.
Junnosuke Taguchi, il barista più ricercato della discoteca, le osservava compiaciuto e rispondeva alle loro domande con gesti teatrali. Era giapponese solo per metà e i suoi tratti fisiologici stranieri - tranne per i grandi occhi a mandorla - avevano da sempre attirato la clientela femminile del locale. I suoi capelli erano biondi e lunghi fino alle spalle - raccolti in un codino basso con un nastro rosso - gli occhi celesti e freddi come il ghiaccio. La sua altezza era decisamente superiore alla media giapponese e l’ampiezza delle sue spalle aveva fatto sognare decine di ragazze.
 
Mentre Jin veniva portato in un lato appartato della sala, riportò alla mentre il viso di quel barman e rabbrividì. Non sapeva bene dire il perché di quella sensazione, ma se pensava che gli occhi di Tatsuya avrebbero incontrato quelli privi di calore di Junnosuke si sentiva male.
La ragazza che si inchinò una volta che lui le fu davanti rispecchiava in ogni suo particolare il tipo di donna con cui era solito andare a letto.
“Ciao,” lo salutò con un sorriso perfetto, “Ho sentito molto parlare di te.”
Eh? Era la prima volta che qualcuno gli diceva una cosa simile. Cercò di sorridere di rimando.
Lei gli afferrò il braccio e si strinse a lui.
Beh, quella era la solita prassi di tutte le ragazze in cerca di mero del sesso gratuito che non portasse strascichi in seguito. E infatti lui usava sempre il preservativo. La solita routine, niente di nuovo. Però, questa volta, lui la allontanò piuttosto malamente.
“Cosa c’è?” chiese lei, gli occhi che lo scrutavano con attenzione.
“E’ che...” iniziò, non capendo lui stesso il perché del proprio comportamento, poi notò la porta del bagno alle loro spalle, “...devo andare un secondo in bagno.”
Lei rimase zitta e lui si infilò velocemente nella toilette. Anche il bagno era piuttosto appariscente ma era decisamente più illuminato. Si guardò nello specchio.
“Il fatto che quell’uomo ti abbia proposto di unirti ad una squadra di serie D ti ha dato alla testa?” disse sottovoce, quindi si pizzicò una guancia. Datti una svegliata.
Poi ebbe la visione di una ragazza che, nello stesso modo, abbordava Tatsuya. Ma lui era fidanzato, non avrebbe certo ceduto. Lui era fidanzato... allora c’era effettivamente qualcuno con cui andava a letto. Aggrottò la fronte, era anche lui un ragazzo, non c’era niente di male.
“Ah,” mormorò quella ragazza entrando nel bagno degli uomini, “Volevi farlo in un posto più luminoso?”
Akanishi sussultò e la osservò mentre si sfilava una spallina del vestito di raso rosso che le fasciava il corpo.
“Un’altra volta, okay?” commentò freddamente lui e, dopo averla scansata, tornò a passo svelto nella sala principale. Qualcuno al piano di sopra aprì una porta di vetro e una canzone house invase, per un secondo, anche quel piano. Poi cessò di colpo e tutto tornò alla normalità.
Non appena si fu portato più al centro guardò in direzione del bancone e vide Junnosuke servire qualcosa di trasparente nel calice di Tatsuya. Attorno, quelle galline avevano occhi solo per il barman.
Si avvicinò e si sedette sullo sgabello di fianco a quello dell’altro.
“Scusa, mi hanno intercettato,” commentò Jin, e Tatsuya lo guardò con una strana espressione, quindi scoppiò a ridere e trangugiò metà bicchiere in un sorso.
“Ma che diavolo stai bevendo?” domandò Jin. Junnosuke rispose che era semplice Martini.
“Nessuno ti ha chiesto niente,” commentò poi, mentre il barman si scioglieva il nastro rosso dai capelli - sotto gli sguardi estasiati delle ragazze - e si allontanava per servire una giovane coppia qualche metro più in là. Come i pulcini seguono sempre la chioccia, anche quelle ragazze gli andarono dietro squittendo.
“Dovresti smettere,” disse poi Jin ignorando quella scena ormai familiare e tornò a guardare Tatsuya.
“Mhn...” mormorò il ragazzo ondeggiando un po’ sullo sgabello, “...ma è solo il... terz...quart...” e iniziò a contarsi le dita aggrottando la fronte. Jin gli rubò il bicchiere di mano e finì il resto del liquido in un solo sorso.
“Hey...”
“Devi smaltire, hai gli occhi tutti lucidi,” commentò poi Jin sospirando, “Non lo reggi davvero l’alcol.” Lasciarlo nelle mani di Junnosuke era stato peggio che abbandonarlo nelle grinfie di qualsiasi ragazza in quel locale. Ma fu felice che non avesse attirato troppo l’attenzione. Magari l’avevano pure scambiato per una donna.
“Vediamo,” disse Jin mentre Tatsuya abbandonava la testa sul bancone, “Dicono che camminare fa bene per farsi passare la sbornia... magari proviamo a ballare?”
Tatsuya arricciò le labbra e chiuse gli occhi, “Ma cosa... io danzo solo sul ring!” esclamò ridendo.
“Ring?” Jin ne rimase sorpreso. Allora forse fa davvero boxe, poi sorrise. Quel ragazzo non reggeva l’alcol perché non era abituato a bere, quando fai sport non devi assolutamente farlo. Yuichi glielo ripeteva spesso, ma Jin se ne era sempre fregato. L’importante è che poi rendo durante le partite. Immaginò che, se voleva entrare in quella squadra a livello nazionale, prima o poi avrebbe dovuto fare come gli si diceva.
Tatsuya continuava a tenere la guancia premuta contro il marmo del bancone. Jin lo osservò, sospirando per la seconda volta. Che cosa gli era venuto in mente? Portare uno come lui in questo posto.
E da quando considero questo posto negativamente? Non è casa mia?
Poi non poté fare a meno di scoppiare a ridere: Tatsuya aveva iniziato a fare il verso del pesce con la bocca.
“Sembri proprio un bambino spensierato,” commentò Jin e l’altro si tirò su stropicciandosi gli occhi. Quella specie di sorriso ebete che aveva avuto fino a quel momento scomparve dal viso di Tatsuya.
“Perché, tu che pensieri hai?”
Jin esitò, poi si strinse nelle spalle. Di solito non amava parlare della propria vita, ma quella volta gli venne l’impulso irrefrenabile di farlo, di sputare fuori tutto quello che si era portato dentro dalla nascita. Eppure era restato in silenzio, e si era stretto nelle spalle.
“Almeno tu hai una ragazza,” commentò poi e si osservò il pollice sporco di rosso. Probabilmente si era macchiato con il trucco di quella donna. Arricciò il naso, nemmeno mi ha detto come si chiama - che sgualdrina - poi sbuffò e si pulì su un tovagliolo di carta.
Quando tornò a guardare Tatsuya lo trovò con il viso completamente bagnato di lacrime.
“Che diav-” mormorò Jin sorpreso, “Che hai ora?”
“N-non... riesco a s-smettere,” balbettò l’altro tirando su con il naso. Quindi provò a sorridere, ma gli venne fuori solo una smorfia.
Jin prese un tovagliolo pulito e scese dallo sgabello per avvicinarsi di più.
“Uno non piange perché gli va...” commentò poggiando la superficie di carta sulla sua guancia, “Ci sarà un motivo... ho detto qualcosa di sbagliato? O è l’alcol che ti fa quest’effetto...?”
Tatsuya non rispose e chiuse un occhio mentre l’altro ci passava sopra quel pezzo di carta ruvido.
“Avanti,” disse poi Jin iniziando a perdere la pazienza, “Ora smettila.”
Non aveva mai incontrato nella sua vita un tipo come lui. Era un adulto, aveva addirittura più anni di lui, eppure sembrava proprio un bambino.
“Ho lasciato la mia ragazza,” buttò fuori Tatsuya tutto d’un fiato, poi fece un’altra smorfia. Jin si fermò con il fazzoletto a mezz’aria.
“Ah! Ora capisco!” esclamò e gli diede una pacca sulla spalla, poi aprì la bocca per dire qualcosa di consolatorio quando Tatsuya lo fulminò con lo sguardo.
“No che non capisci,” disse serio e le lacrime sospesero la loro fuoriuscita. Jin rimase paralizzato da quell’improvvisa mancanza di vita nel suoi occhi. “E’ la prima volta che accade,” continuò Tatsuya, poi scoppiò a ridere di colpo e poggiò la fronte sul petto dell’altro. “Non mi sento molto bene...”
“Okay,” commentò Jin più che altro a se stesso. Non riusciva proprio a stare dietro alle sue emozioni e al filo dei suoi pensieri, “Devi vomitare?”
“Credo di no...”
“Ti gira la testa?”
“No, aspetta... forse ho la nausea.”
Jin fece per prenderlo per le spalle e allontanarlo ma Tatsuya afferrò la sua maglia con entrambe le mani e sprofondò di più il viso contro di lui.
“Non vorrai vomitarmi addosso!” esclamò Jin cercando di spingerlo via, ma quel ragazzo oppose una resistenza notevole.
“Se sto così poi mi sentirò meglio...” commentò Tatsuya senza mollare la presa. Poi riprese a singhiozzare.
Jin non sapeva più cosa fare. Iniziò a guardarsi intorno per vedere se avevano attirato l’attenzione. Essere in pubblico in una situazione simile con un ragazzo lo metteva indiscutibilmente a disagio. Ma tutto sembrava normale, le persone continuavano ignare a chiacchierare e i camerieri erano ancora intenti a svolgere il loro dovere per i tavoli. Anche la musica era ancora là, che faceva da sottofondo. 
Jin si rilassò un po’ e gli poggiò una mano sulla nuca. Alla fine, se si fossero trovati in un altro luogo - da soli - avrebbe anche potuto abbracciare quel corpo che continuava a tremare sotto gli spasmi del pianto. Invece, si limitò a muovere leggermente le dita e ad accarezzargli la testa.
Lentamente, Tatsuya si calmò e anche la pressione della fronte contro la maglia diminuì.
“Mi dispiace di averti portato qui,” mormorò Jin dopo qualche minuto, “Non è un posto per te.”
Tatsuya alzò il viso e lo guardò. Quegli occhi gonfi contrastavano così duramente con il resto del viso che Jin non poté fare a meno di incolparsi per quel mutamento innaturale.
Stava per scusarsi ancora quando Tatsuya allungò il collo e, come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, gli baciò le labbra.
“Jin,” sussurrò poi il ragazzo portando le braccia attorno al suo collo, “Portami via.”
Jin restò pietrificato ma cercò di non darlo a vedere. Distolse lo sguardo. Ora perché diavolo arrossisco?
“Ah, Akanishi, sta attento,” disse una voce oltre il bancone, “Anche i miei occhi hanno errato credendolo una donna.”
Junnosuke se ne stava appoggiato alla parete e annuiva a se stesso, mentre i capelli biondi ondeggiavano sotto l’effetto di chissà quale vento inesistente.
“Se dici a qualcuno quello che hai appena visto ti ritroverai pelato in meno di un secondo,” sibilò Jin freddamente e si tolse di dosso Tatsuya.
Il barman rise educatamente e si allontanò a grandi falcate verso un cliente che aveva alzato una mano per chiamarlo.
“Non ci credo...” commentò Jin rivolgendosi a Tatsuya, “Ma che diavolo ti salta in ment-” ma si azzittì vedendo che l’altro era crollato sul bancone. “Hey!” lo chiamò scuotendolo per le spalle. Quello mormorò qualcosa di incomprensibile e si voltò dall’altra parte. Non vorrai mica che ti riporti a casa sulle spalle?
 
Una volta che furono fuori Jin cercò di far scendere l’altro.
“Sei pesante sai?” commentò, ma Tatsuya continuava a tenersi stretto contro la sua schiena, “Anche se non si direbbe...”
Alla fine Jin non aveva potuto fare altro che metterselo sulle spalle ed uscire dalla discoteca sotto lo sguardo di tutti. Quella passerella al neon aveva mandato in frantumi il suo desiderio di non dare nell’occhio. Ma era stato inevitabile, non poteva mica mollarlo là dentro in quelle condizioni. Non ne sarebbe uscito vivo.
“Allora, dove abiti?” domandò ancora Jin guardandosi a destra e a sinistra. Quella nebbia che li aveva accompagnati durante il percorso all’andata riprese ad avvolgerli, attutendo rumori e colori. Sembrava di essere precipitati in un luogo dove il tempo aveva deciso di prendersi una pausa.
“Non lo so...” commentò Tatsuya dondolando un po’ le gambe.
“Non ti muovere che finiamo a terra entrambi, idiota! E poi com’è possibile che non sai dove abiti? Un po’ di Martini non ti cancella mica la memoria. Avanti, destra o sinistra?”
Il ragazzo strofinò un po’ la guancia contro la schiena dell’altro, poi disse convinto:
“Sinistra.”
“Okay... ma sta fermo.”
Jin continuò a camminare per una decina di minuti seguendo le indicazioni dell’altro. Le nuvolette di respiro che gli uscivano dalla bocca divenivano mano a mano sempre più corpose. Se pensava alla situazione in cui si era cacciato gli veniva voglia di mollarlo lì con un bel calcio nelle coste come ringraziamento per quel bacio che gli aveva rubato e che, senza motivo, continuava a turbarlo in quella maniera.
Ma continuò lo stesso a camminare finché, a un certo punto, non si bloccò aggrottando le sopracciglia.
“Hey, tu, questa è la stazione, che significa?”
“Vengo a dormire da te, prendiamo l’ultimo treno.”
“Ma sei completamente rincoglionito?” domandò Jin smettendo di tenergli sorrette le gambe. Tatsuya, colto di sorpresa, fu costretto a scendere e, in meno di un secondo, perse l’equilibrio ritrovandosi con il sedere a terra.
“Ahi!” esclamò chiudendo gli occhi.
Jin sospirò e si grattò la testa. Poi lo aiutò a rialzarsi.
“Ti reggi da solo?”
Tatsuya annuì, poi iniziò a camminare deciso verso l’interno della stazione. Il treno era già arrivato, e riposava gli ingranaggi per qualche secondo.
“Dove vai?” gridò Jin raggiungendolo.
“Non ho voglia di tornare a casa, la mia ex-ragazza sarà sicuramente là fuori ad aspettarmi.”
“Ma non puoi venire da me!” esclamò Jin afferrandogli il braccio prima che potesse salire sul treno. La lucidità gli era tornata di colpo?
“Perché? Per me non ci sono problemi.”
“Per me sì!”
Il treno fischiò e il capostazione gridò che le porte stavano per chiudersi. Jin esitò un secondo, alla fine che problema c’era ad ospitare per una notte un amico che ne ha bisogno?
Tatsuya colse quel momento di esitazione e trascinò Jin sul treno con sé.
Safe!” gridò Tatsuya una volta che le porte si furono chiuse. L’unico passeggero seduto in fondo al vagone - una ragazza che probabilmente frequentava ancora le medie - li guardò incuriosita.
Jin continuò a scervellarsi ancora per qualche minuto, poi si arrese e si sedette accanto all’altro.
“D’accordo,” concordò evitando di guardarlo, “Ma tu dormirai sul divano.”
Roger!
 
In realtà, in casa, oltre alla piccola camera in cui dormiva Jin vi era anche un’altra camera, più grande. Ma quella era la stanza dei suoi genitori e lui l’aveva chiusa a chiave il giorno stesso in cui aveva deciso di rimanere ad abitare lì da solo. Se ne stava immobile in un angolo della casa, come se aspettasse il momento in cui qualcuno sarebbe andato a spolverare le sue superfici. Per Jin, invece, non rappresentava altro che il simbolo della propria colpa per aver causato la morte dei suoi genitori. Se lui non ci fosse stato, la questione del tradimento sarebbe andata diversamente e il padre non sarebbe dovuto tornare a casa ogni mese. Sua madre, quel giorno, non sarebbe dovuta andare a prenderlo all’aeroporto di Tōkyō.
Alla fine, dopo tutti quegli anni, quel sentimento autodistruttivo si era decisamente attenuato e Jin aveva capito che non aveva senso attribuirsi alcuna colpa. Ad ogni modo, la stanza era rimasta in quel punto, immobile, ed aveva preso il posto di quel santuario familiare che Jin si era rifiutato di allestire. Passava davanti quella porta tutte le sere prima di andare a letto, e chinava il suo capo.
 
Jin mostrò a Tatsuya il divano nel salotto e, senza troppe cerimonie fuggì nella propria camera. Chiuse la porta alle proprie spalle e si gettò sul letto.
“Dormi,” si ordinò senza troppi risultati. Prese il cuscino e se lo premette sul viso. Perché ora provava quel senso d’ansietà e non riusciva a rilassarsi?
Tatsuya era appena oltre quella porta e, senza alcun dubbio, stava già dormendo come un ghiro. Lui lo aveva detto che quel ragazzo non aveva pensieri. E allora perché era scoppiato a piangere in quel modo? Ebbe l’impressione che la rottura del fidanzamento non c’entrasse. Anzi.
Iniziò a rigirarsi alla ricerca di una posizione più comoda.
Devo calmarmi, era solo ubriaco. E lui non aveva mai avuto problemi ad andare con donne completamente brille. Il problema è che questa volta si tratta di un ragazzo.
“E’ un maschio, un maschio...” iniziò a ripetere come fosse una preghiera. Preghiera? Si alzò di scatto. Non aveva salutato i propri genitori quella sera. Ma non poteva rischiare di uscire e di trovare l’altro ancora sveglio, così tornò a poggiare la testa sul cuscino.
Però, chissà come deve essere fare sesso con un ragazzo.
“Cioè, finché sei tu l’attivo non dovrebbe cambiare molto,” mormorò. Dare voce a quel pensiero lo turbò. Chiuse gli occhi cercando di immaginarsi il corpo dell’altro.
Se faceva boxe doveva essere ben allenato. Con tartaruga e tutto il resto. Ovviamente niente seno, compensato da qualcos’altro. Arricciò i lati della bocca, non vale nemmeno la pena perlustrare un corpo tale e quale al mio. Non ci sarebbe divertimento.
“Però anche quello delle donne lo conosco a menadito,” sarò andato con mille ragazze ormai.
Restò qualche secondo immobile. Nella testa iniziarono a vorticare pensieri sconnessi, privi di logica, e Jin non si sforzò troppo di mettere ordine. Era stanco.
Fece scivolare una mano lungo il proprio petto, lentamente, fino a raggiungere il bottone dei pantaloni. Lo slacciò. Un rumore metallico e anche la zip venne calata. Sospirò.
Quella fu la prima volta che si masturbò pensando ad un ragazzo.



[1] L’izakaya (居酒屋) è il tipico bar giapponese.
[2] Professore in giapponese.
[3] L’hiragana è uno dei tre alfabeti giapponesi e, a dispetto dei kanji, la sua lettura è univoca.
   
 
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