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Autore: Camelia Jay    30/12/2011    3 recensioni
Mariah è una ragazza buona, intelligente ma davvero molto timida e riservata, che da più di due anni ormai è innamorata di Aiden Jenney, il quale, per uno scherzo del destino, dall'inizio dell'anno è il suo compagno di banco.
Vanessa invece è una ragazza allegra e socievole, ma purtroppo è goffa e impacciata e non di rado le capitano dei brutti incidenti (si legga: battere costantemente il sedere per terra). Dopo una grande umiliazione pubblica subita dal ragazzo per cui si era presa una cotta, sta appena cominciando a rialzarsi (in senso metaforico, nonostante tutte le cadute che fa) quando la vicinanza di un ragazzo che cerca di tirarla su di morale le confonde di nuovo le idee.
Questo ragazzo è... Aiden.
Due protagoniste per una sola storia d'amore possibile: scorrerà buon sangue tra Mariah e Vanessa?
Chi delle due avrà il cuore di Aiden, in un amore che si consuma sotto le fredde giornate nevose di metà gennaio?
Nota: di capitolo in capitolo si alterneranno i POV di Mariah e di Vanessa.
Dal futuro capitolo cinque: "Le lacrime scgorgarono a fiotti dai miei occhi, bagnandole il maglioncino di lana color lavanda, mentre lei mi stringeva. Non avevo mai pianto per lui prima. Anche se, sinceramente, pensavo che la prima volta che l'avessi fatto sarebbe stato a causa di una nobile sofferenza, e non per una stupida, insignificante gioia senza valore".
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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V
anessa keeps her dignity



Da quel giorno in avanti incrociare James mi fece un effetto del tutto diverso, ma neanche io saprei spiegarlo con esattezza.
Spesso era in compagnia di alcuni amici, come per esempio Aiden Jenney, che aveva avuto un po’ di buon cuore nel venirmi a cercare dopo l’episodio della lettera. Ero stata una stupida: potevo innamorarmi di un tipo come lui, carino e cavaliere; perché avevo scelto proprio James? Adesso, tutte le volte che incrociavo lo sguardo che tanto aveva attirato la mia attenzione, avvertivo un formicolio nello stomaco simile a quello che provavo quando mi piaceva, ma insieme vi era mischiata una strana sensazione di fastidio e irritazione. Improvvisamente mi accorsi del suo naso troppo lungo, degli occhi troppo stretti e della sua altezza esagerata. Cose che, fino a poco tempo prima, nemmeno avevo notato.
Poteva essere un buon inizio per dimenticarlo, no?
Comunque sia, confesso che ebbi paura, per i primi giorni.
In verità, devo essere sincera, non era più di James che avevo timore: era di tutta la gente che aveva assistito quasi come se fosse a teatro alla mia umiliazione pubblica, il che mi faceva pensare ce difficilmente un episodio del genere sarebbe stato dimenticato.
Tuttavia non fu così, bastarono un paio di giorni e mi resi conto di riuscire ancora a guardare in faccia le persone quando entravo a scuola. Dovevo essere forte. E poi erano cose che succedevano. Avevo considerato la faccenda in maniera troppo drastica, e questo mi rassicurò.
Ciononostante, però, sembrava che ancora non fosse finita qui.
La fermata dell’autobus era a pochi passi di distanza dalla scuola. Stavo camminando, impaziente di raggiungere casa dopo un’affannosa giornata di studi. In quel momento nemmeno ci pensavo a James. L’avevo già catalogato nella lista delle pagine chiuse della mia vita. “L’anno prossimo”, pensai con un sorrisetto, “nemmeno mi ricorderò chi è, con ogni probabilità”. Era così che mi consolavo del mio tentativo fallito di attirare l’attenzione di un ragazzo e della mia lettera, la prima lettera d’amore, respinta. Forse avevo sbagliato, forse le lettere erano già qualcosa di troppo arcaico, ma non m’importava. Che l’avessi scritto sui muri, che avessi messo un annuncio su Internet o quant’altro, James mi avrebbe comunque respinta.
Ero stata così cieca.
«Scusa?» Una voce appena dietro di me spiccò in mezzo a tutte le altre. Spiccò perché la riconobbi all’istante.
Mi voltai, e nonostante tutte le cose che avevo pensato in precedenza, davanti a James riuscii comunque a sbiancare di nuovo.
«Ehm…» esordì poi, grattandosi il capo e sforzandosi di ricordare il mio nome. «Sally Vanderson?»
Pessima risposta, pessima, pessima.
«No, Vanessa Sullivan.» Sbaglio o il mio tono era risultato un po’ acido?
Scrutai con attenzione ogni dettaglio di lui, la sua figura alta, troppo alta, i suoi lineamenti che a me piacevano tanto. Ora avevo l’ansia, ma non per lui, piuttosto per la figuraccia che mi aveva fatto fare – mi rodeva ancora. Ma che fossi agitata perché provavo ancora qualche sentimento no, era una bugia.
«Ehm, okay, Vanessa.» Lo disse come se si volesse sforzare di imprimersi il mio nome nella zucca. «Ascolta, riguardo all’altro giorno, sai, quella cosa della lettera» parlava lui con un tono totalmente indifferente «be’ forse non avrei dovuto fare così davanti a tutti. Quindi mi dispiace. Okay? Tutto a posto?»
Il mio viso si contrasse in una smorfia.
Le peggiori scuse che avessi mai udito in tutta la mia vita. «Io delle tue scuse insincere non me ne faccio niente» telegrafai, arcigna. «Chi ti ha consigliato di venire qui da me a chiedermi scusa?» domandai poi, presa da un’improvvisa curiosità.
Lui assunse un’espressione che stava palesemente a significare: oh cacchio, mi ha scoperto. «E a te che cosa importa? Sono venuto a chiederti scusa, no? Non è già abbastanza?»
Sbuffai. No, non sarebbe mai cambiato, nemmeno tra un milione di anni. Avanzai di un passo, e gli fui praticamente addosso. Avrei voluto mollargli uno schiaffo talmente forte da poter vedere affiorare sulla sua pelle il segno rosso delle mie dita, ma non mi sentivo di farlo. «Comunque ringrazia Aiden per il pensiero carino che ha avuto. Digli anche che però con uno come te ogni tentativo è sprecato.»
Attenendomi al detto che dice che la calma è la virtù dei forti, girai i tacchi e me ne andai, sapendo di non essere più seguita, mantenendo appieno la mia dignità.
Chi poteva essere stato, se non Aiden Jenney, a consigliargli di venire da me per chiedermi scusa? Gli avevo espressamente detto di non fare nulla, ma non era servito. Be’, gli avevo detto di non mettere una buona parola per me, in realtà. Ma nulla gli aveva vietato di andare da James e dirgli «Senti, meglio se chiedi scusa a quella ragazza.»
Mi sentivo soddisfatta. Decisi comunque che se avessi incontrato Aiden in quei giorni, ne avrei approfittato per ringraziarlo di ciò che avevo fatto – avevo i miei difetti ma di certo non ero un’ingrata.
Poco dopo stavo già salendo sull’autobus semivuoto; mi sedetti a uno dei posti in fondo – mi faceva sentire più appartata – e mi acciambellai come facevo sempre, tenendomi strette le ginocchia tra le braccia. Era un modo per combattere il freddo.
Il rumore del motore si fece sentire di nuovo e ripartimmo, in un crescendo di velocità. Ovunque io guardassi, non vedevo altro che coppiette mano nella mano, cartelloni pubblicitari con un uomo e una donna abbracciati, locandine del cinema con fotografie che ritraevano scene romantiche, cuori, cuoricini e tanto tanto amore. Cose che a me mancavano.
Non potevo sognare, non potevo fantasticare. Il mio passatempo preferito ormai era diventato lui, mi aveva preso così tanto che non facevo che pensarlo.
E adesso non potevo più farlo.
Una lacrima mi scivolò in un rivolo giù per la guancia, si aggrappò al mio mento e infine cadde sul tessuto sbiadito dei miei jeans.
Poi mi ripresi.
No, piangere non era una maniera dignitosa chiudere un capitolo della propria vita. “Forza Vanessa, fatti coraggio”.
Ma piangevo perché lui era uno stronzo o perché ero stata brutalmente disillusa? Forse le due cose erano collegate, o forse il motivo era un altro. Forse volevo innamorarmi di qualcuno, come ogni adolescente desidera. Mi domandai quando sarebbe stata, la volta successiva, e se avrebbe fatto ancora più male.
«Non ti abbattere, Vanessa» mi aveva esclamato Catherine non appena ero tornata a casa, il giorno della figuraccia. «Bacerai tanti rospi, soffrirai ancora, ma il tuo principe azzurro un giorno o l’altro lo troverai.»
Era facile dirlo per lei, stava da sette anni con lo stesso ragazzo e non c’era stata una volta in cui l’avessi vista tornare a casa in lacrime, dicendo «Ho litigato con il mio fidanzato.» Non una volta. Dunque, sentirmi consolare da lei, certe volte mi aiutava ben poco. Tuttavia avevo apprezzato il gesto.
Abbassai le palpebre e mi feci cullare dal ronzio del motore per tutto il viaggio di ritorno, la mente assopita e il freddo di gennaio che m’impigriva i sensi. Mi coprii con la sciarpa di lana di un tenue color beige fino alla punta del naso, mi calai il berretto più in giù possibile, fino a coprirmi tutta la fronte, e finalmente non piansi più per James, e non lo pensai più.
 
 
Benché di parole ne bastassero veramente poche per esprimere il concetto che volevo comunicare e benché io non sia mai stata una ragazza riservata, sentii che la cosa giusta da fare era far scivolare un altro bigliettino all’interno di un armadietto, ma non era né il mio né quello di James.
Il mattino dopo un foglietto di quelli che si usano comunemente per i post-it, di colore rosa acceso, aveva svolazzato all’interno dell’armadietto di Aiden e si era posato sulla prima superficie che aveva incontrato.
Vi avevo scritto sopra con un pennarello nero dalla punta fine, gli avevo scritto “Grazie di quello che hai fatto, sei stato molto carino”. Ero sicura di non sbagliare ritenendo lui l’artefice di tutto ciò che era accaduto il giorno precedente. E, per sdrammatizzare un po’, vi avevo disegnato un simpatico smiley affianco – sebbene io sia sempre stata negata per il disegno. Dopotutto, però, una faccina sorridente la sapevo disegnare anche io!
Era il mio modo per ringraziarlo, semplice, veloce e senza tante scene drammatiche o da telefilm. “Così è sufficiente, direi”, avevo pensato nello stesso momento in cui avevo lasciato la presa del foglietto.
Per qualche motivo che andava al di là della mia comprensione, quando vi ripensai, fui scossa da un brivido che mi percorse la schiena.

   
 
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