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Autore: Kyoya Ootori    10/01/2012    4 recensioni
AGGIUNTI DUE CAPITOLI, IL III E IL IV.
Tamaki chiuse la porta dietro di sé, incrociando le braccia ed appoggiandosi quindi ad essa, mentre percorreva con gli occhi tersi come il cielo la stanza non troppo grande, arredata semplicemente, al centro della quale si trovava una scrivania in mogano e di fronte a questa una sedia barocca di legno, sopra la quale era seduto un uomo di circa ventisette anni, dai lineamenti affilati e dalla carnagione chiara, che nemmeno considerò Tamaki, preso com’era dai conti che svolgeva quotidianamente. Tamaki, in silenzio, aspettò che finisse invano: l’uomo alla scrivania non avrebbe mai sollevato lo sguardo su di lui, benché fosse più che conscio della sua presenza in quella stanza, a meno che la situazione non l’avesse esplicitamente richiesto. E non importa cosa intendesse l’uomo alla scrivania con esplicitamente, fatto sta che Tamaki raggiunse il tavolo a grandi falcate e chiuse di scatto il portatile dell’uomo, sporgendosi verso di lui finché i loro sguardi, entrambi duri, non furono allo stesso livello. Non una parola, non un sorriso, solo un pesantissimo silenzio.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kyoya Ohtori, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Lo chiamavano "Il mani di forbice"
Questo primo capitolo, ad Emil' e a Martì.

Ero bambina, eppure ricordo perfettamente sia l’interno che l’esterno del locale in cui lui compiva le sue magie, spezzava cuori e si beccava improperi da parte delle clienti che restavano comunque affezionate. Il locale in cui sopportava, con classe e raffinatezza, ogni visita sgradita da parte del padre, che coglieva ogni occasione per ricordargli quello che avrebbe potuto essere e che invece non era. Ricordo l’insegna elegante, costituita dal suo cognome scritto in corsivo, che prometteva un servizio professionale e di classe, e ricordo l’interno luminoso e grande, con tantissimi specchi che riflettevano le sue opere d’arte. Lo definivano il più bravo di tutta Bunkyo, ai miei occhi di bambina appariva come il più capace di tutta Tokyo, se non di tutto il Giappone. Era solo un parrucchiere,  ma lo chiamavano “Il mani di forbice”.

 

Un uomo alto e slanciato, dal portamento elegante e dai soffici capelli biondi, attraversò la strada tenendo per mano una bambina dal viso paffuto, molto più bassa di lui, che nonostante i suoi modesti cinque anni, si dimostrava, nella pratica, essere più grande. L’uomo, prima di entrare in quella che nelle sue fiabe aveva descritto alla figlia come “la magica bottega”, si concesse un attimo per guardarla negli occhi e regalarle un sorriso malinconico mentre ammirava gli occhi scuri e profondi, testimoni di un dolore che egli stesso tentava di non mostrare, di comprimere nel suo cuore e di chiudere in un cassetto per poi buttare via la chiave. L’uomo si accosciò, attirando lo sguardo di qualche cliente curiosa che lo osservava da dentro il negozio, sfruttando la porta di vetro, e prese il viso paffuto della bambina fra le mani, poggiando sulla sua fronte un bacio amaro.

<< Lo sai che il tuo papà ti vuole tanto bene, Haruhi? >> chiese con voce tremante, quasi commosso dall’affetto che lo legava alla bambina. << Certo otoo-san, e io ne voglio a te >> rispose lei, sorridendogli sinceramente e prendendolo per la mano. L’uomo passò una mano fra i capelli della figlia, di un marrone scuro, si rimise quindi in posizione eretta e volse lo sguardo all’interno del negozio, sapendo che nella porticina che conduceva al retrobottega si nascondeva, anzi, l’aspettava, lui: Il mani di forbice.

<< Tamaaaaaa-chaaaaaaaaaaaan! Haru-chaaaaaaaaaaaaaaaan! >> ad accogliere il duo ci pensò la voce squillante di un ometto non troppo alto che dalla sedia di fronte alla cassa, fece un salto fino ai piedi dell’amico e sollevò in aria Haruhi, facendola girare in tondo. Si chiamava Mitsukuni, era un asso in matematica e distribuiva dolci sorrisi, che non erano mai finti, a tutte le persone che incontrassero il suo sguardo color nocciola; Mitsukuni, altrimenti noto come Honey, lavorava per Il mani di forbice, si diceva che fossero amici dai tempi del liceo e che oltre a quell’impiego, che lui considerava più come un hobby, gestisse anche il dojo della sua famiglia, la famiglia Haninozuka. Dopo aver poggiato delicatamente la bambina per terra, Honey estrasse dalla tasca un lecca-lecca e glielo offrì, facendole un sorriso a trentadue denti. << Oh grazie mille Honey-chan,  la fragola è il mio gusto preferito! >> << Ma lo mangerai dopo cena, altrimenti ti passa l’appetito >> le raccomandò il padre, scompigliandole i capelli << Hai, hai >>.

Più avanti, un secondo dipendente del mani di forbice stava svolgendo il suo lavoro, sfruttando il suo “tocco speciale”: Takashi Morinozuka, cugino di Mitsukuni, stava massaggiando il capo di una donna che sembrava quasi in preda ad un orgasmo, per il piacere fisico che esprimevano le sue espressioni facciali. Takashi sollevò lo sguardo non appena sentì il campanello del negozio suonare, già, come in una vecchia bottega, e rivolse a Tamaki un silenzioso segno d’intesa, ritornando al proprio lavoro. Takashi non usava mai, come invece Mitsukuni poteva permettersi, allontanarsi dalla sua postazione durante le ore di lavoro, considerando che se l’avesse fatto si sarebbe sentito il flebile gemito della cliente che stava trattando che gli chiedeva, implorante, perché si fosse interrotto. Così il Morinozuka rimase, in silenzio, a lavare i corti capelli rossi della cliente. La sua postazione era quella più nascosta e quella più vicina alla porta del retrobottega, che aveva l’occasione di aprire dopo pochi passi e che pure non apriva mai, poiché non ne aveva bisogno. Il mani di forbice era stato chiaro fin dall’inizio: mai disturbarlo a meno che non fosse strettamente necessario, in quel caso Takashi dava un colpo secco con la nocca per avvertirlo e lui si faceva subito vedere, per poi ritornare nel suo studio.

Nella parte più luminosa del negozio, invece, lavoravano gli ultimi due assistenti, due gemelli dai capelli fulvi e dagli occhi d’ambra che si occupavano delle pieghe, pubblicizzavano prodotti per capelli e intrattenevano le clienti con battute spiritose. Hikaru e Kaoru Hitachiin sfruttavano il lavoro part-time che Il mani di forbice aveva loro offerto per mantenersi e per pagarsi gli studi, oltre che per corteggiare le belle ragazze che frequentavano il locale abitualmente. << Hikaru, vedi anche tu quello che vedo io? >>
<< Non saprei Kaoru, si tratta per caso di una bellissima principessa oppure del suo
 vecchio padre? >> << Vecchio a chi discoli?! Come vi permett…!>>  << Otoo-san, siamo in un luogo pubblico, contieniti! >> proclamò la figlia, incrociando le braccia e inchiodandolo con lo sguardo. A quel punto, Tamaki dovette arrendersi e accontentarsi di fulminare i due perfidi gemelli con un’occhiataccia, prima di dirigersi a passo svelto, dopo aver affidato Haruhi a Mitsukuni, verso la porta del retrobottega e battere lì un colpo secco sul legno, entrando senza nemmeno chiedere il permesso.

<< Non lo vedevo così dal quindici-diciotto >> mormorò Takashi più a se stesso che agli altri, mentre massaggiava il capo della cliente, conscio del fatto che almeno uno, in quella sala, l’aveva sentito.

Tamaki chiuse la porta dietro di sé, incrociando le braccia ed appoggiandosi quindi ad essa, mentre percorreva con gli occhi tersi come il cielo la stanza non troppo grande, arredata semplicemente, al centro della quale si trovava una scrivania in mogano e di fronte a questa una sedia barocca di legno, sopra la quale era seduto un uomo di circa ventisette anni, dai lineamenti affilati e dalla carnagione chiara, che nemmeno considerò Tamaki, preso com’era dai conti che svolgeva quotidianamente. Tamaki, in silenzio, aspettò che finisse invano: l’uomo alla scrivania non avrebbe mai sollevato lo sguardo su di lui, benché fosse più che conscio della sua presenza in quella stanza, a meno che la situazione non l’avesse esplicitamente richiesto. E non importa cosa intendesse l’uomo alla scrivania con esplicitamente, fatto sta che Tamaki raggiunse il tavolo a grandi falcate e chiuse di scatto il portatile dell’uomo, sporgendosi verso di lui finché i loro sguardi, entrambi duri, non furono allo stesso livello. Non una parola, non un sorriso, solo un pesantissimo silenzio.

L’uomo alla scrivania, constatò Tamaki, non era cambiato di una virgola dall’ultima volta che l’aveva visto: sempre apparentemente freddo, cinico, affascinante e fiero come solo lui sapeva essere. Gli occhiali, dalla montatura leggera, gli si poggiavano leggermente sul naso, dandogli un’aria da intellettuale, i capelli, neri come piume di corvo, erano lisci e corti, ordinati. Gli occhi infine, erano plumbei. L’uomo alla scrivania poggiò i gomiti sul ripiano di legno, facendo coincidere i polpastrelli delle mani, e si esibì in un sorriso da Stregatto, che fece tremare le ossa di Tamaki, prima di accingersi a parlare.

<< Desideri, Tamaki? >>

Kyoya Ootori: Il mani di forbice.


Non fornirò spiegazioni di alcun tipo, non ora, non adesso. Se sarete così gentili da commentare per farmi sapere ciò che ne pensate, mi fareste un grande piacere. 
Buona notte
Kyoya Ootori

   
 
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