Film > The Phantom of the Opera
Segui la storia  |       
Autore: Alkimia    14/01/2012    4 recensioni
"C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la stagione della pazzia."

Anno 1871: non è più Parigi, non è più l'Opera Populaire, niente più angeli o muse, eppure l'uomo che si cela dietro la maschera sa che deve andare avanti, anche se non sa più il perché. Anno 1892: un giovane straniero arriva in Francia, con un vecchio diario da leggere e una storia di cui scoprire i misteri.
E sulle loro vite aleggiano i medesimi fantasmi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
COME DI MANDORLE AMARE

Overture


~ Parigi, 7 febbraio 1871~

La facciata del teatro dell'Opera si stagliava maestosa contro un cielo privo di stelle.
Erano più di due anni che il duca Mariano Giusso mancava dalla Francia. Vi era tornato per un viaggio di piacere e gli era parsa mutata.
La Nazione che aveva riscritto il destino dell'Europa stava tentando di mandare via il sapore amaro della sconfitta militare contro la Prussia e la voce del cambiamento soffiava nell'aria come il fumo dalle ciminiere delle fabbriche. Il duca lo sapeva, poteva quasi sentirlo, dopotutto egli stesso proveniva da un Paese che in quegli anni ancora tentava a fatica di tenere insieme i pezzi di una bandiera che a volte, a qualcuno, sembrava essere costata più di quanto valesse.
I rintocchi delle campane di Notre Dame batterono le otto di sera e il duca ricacciò indietro quei pensieri. Luisa, sua figlia, si strinse un po' più forte al suo braccio e gli indicò un manifesto che la pioggia aveva cominciato a scolorire.
«Oh, c'è un nuovo spettacolo stasera all'Opera, il Don Juan Trionfante. Non ricordo di averne mai sentito parlare» commentò il duca, lanciò una lunga occhiata alla fila che si era accalcata davanti all'ingresso del teatro e scrollò le spalle.
Sua figlia lo strattonò leggermente per la manica del cappotto e additò l'Opera Populaire. Luisa aveva dodici anni, non parlava, era muta dalla nascita, ma sapeva come farsi intendere.
«Vuoi andarci?» chiese suo padre. «Ma, cara, non troveremo posto, ormai».
Luisa sorrise con fare incoraggiante.
«Tentar non nuoce, hai ragione» convenne l'uomo. «Ma questa volta, per amor del cielo, stammi vicino».
La giovinetta annuì con un energico cenno del capo. Il duca la scrutò di sottecchi mentre attraversavano la piazza e lei tentava di affrettare il passo.
«Non so se avremo il piacere di imbatterci di nuovo nel nostro strambo amico» aggiunse l'uomo. Luisa finse di non aver sentito.

Come il duca aveva previsto, non c'era più posto. La biglietteria aveva chiuso, esibendo un cartello che avvisava del tutto esaurito i numerosi spettatori ancora accalcati davanti all'ingresso.
La folla cominciò lentamente a disperdersi.
«Sarà per la prossima volta, magari» disse il duca.
Luisa sospirò e si diresse comunque verso l'ingresso del teatro.
In quel momento una fila di gendarmi armati di baionetta salì le scale ed entrò con discrezione da un'entrata secondaria. Il duca aggrottò la fronte perplesso, non pensava che l'agitazione cittadina fosse giunta fino a quel segno. Ammesso che fosse quello il motivo della presenza dei gendarmi ad uno rappresentazione teatrale.
Luisa trascinò suo padre fin dentro al foyer, pieno di persone che attendevano di poter prendere posto.
Il duca posò una mano su quella della bambina, rinnovando tacitamente la raccomandazione di stargli vicino. Non gli piaceva quella confusione e non era certo che sua figlia avesse imparato la lezione riguardo al non andare in giro da sola in luoghi affollati e sconosciuti.
«Credo che potremmo anche andarcene» disse lui, con una punta di apprensione nella voce. Luisa gli rivolse uno sguardo quasi implorante. Ah, se fosse stato un po' meno incapace di resistere a certi sguardi di sua figlia! Non aveva ben capito cosa lei si aspettasse da quella visita, ma all'improvviso scorse una figura in nero che si muoveva tra la calca, scivolando senza fatica tra i crocchi di signore imbellettate e le file di gentiluomini in doppiopetto. Dopo qualche minuto la figura imboccò la porta e uscì all'aperto.
Non ci fu bisogno di attendere che Luisa lo trascinasse. L'uomo e la bambina si fecero strada a fatica per uscire. Fuori il freddo sembrava essersi fatto un po' più pungente.
La figura in nero era appoggiata a una delle colonne di marmo, sembrava quasi che sperasse di confondersi con le ombre del porticato e sparire nel nulla in mezzo al buio della sera. Respirava con un certo affanno e il respiro le si condensava in fugaci boccate di fumo.
«Madame Giry» chiamò il duca.
La donna sobbalzò con così tanta veemenza che l'uomo quasi temette di ricevere uno schiaffo in viso.
«Monsieur Giussò?» disse la donna con un filo di voce, portandosi una mano al petto.
«Perdonate, non volevo spaventarvi. Io e mia figlia vi abbiamo vista...».
Lei spostò nervosamente lo sguardo tra l'uomo e la ragazzina,
«Voi e vostra figlia assisterete alla rappresentazione?» domandò dopo qualche istante di silenzio.
Al duca parve curiosamente allarmata. Era anche un po' più vecchia di come la ricordava, i due anni trascorsi dall'ultima volta che l'aveva vista sembravano aver lasciato un segno eccessivamente pesante sul bel viso della direttrice del balletto dell'Opera Populaire, come se il tempo fosse stato scandito da preoccupazioni e problemi.
«Oh no, madame. Non abbiamo trovato posto» le rispose in un ottimo francese. Dal rapido cenno di assenso che madame Giry gli rivolse, gli parve quasi che ne fosse sollevata. E comunque, cosa stava facendo lì fuori al freddo?
«Vi sentite bene?» aggiunse il duca.
Madame Giry restò a guardarlo per lunghi secondi, come se lui le avesse rivolto una domanda troppo complicata.
Era il freddo che le aveva inumidito gli occhi, o la donna stava per piangere?
«Oh, monsieur... sta per accadere qualcosa di terribile!» dichiarò infine madame Giry, agitando le mani in un gesto colmo di disperazione.
Luisa ebbe un fremito e mosse le labbra come a voler pronunciare un nome che sembrava esserle rimasto incastrato in gola.
«Sì... si tratta di...» farfugliò la donna.
«Di Erik» terminò il duca per lei in tono grave.

*******

~ Parigi, 24 maggio1869 ~

Luisa si era chiesta più volte se Dio potesse ascoltare lo stesso le sue preghiere, anche se lei non poteva formularle ad alta voce. In quel momento quel dubbio l'assalì più forte che mai, poi si ricordò della sua governante che le aveva spiegato che Dio ascolta i cuori e non le bocche, e si sentì un po' più sicura: per come gli martellava nel petto, il suo cuore stava certamente urlando e qualche angelo di passaggio avrebbe sicuramente potuto udire le sue preghiere anche se era lontanissima dal cielo. Più lontana di quanto fosse mai stata.
Il buio sembrava essere solido come cemento, tanto da toglierle il respiro. Era molto improbabile che qualche angelo potesse passare di lì, ma la bambina preferì non pensarci.
Se anche l'avesse sentita, forse Dio non l'avrebbe aiutata perché era stata cattiva. Non avrebbe dovuto allontanarsi da suo padre, non avrebbe dovuto mettersi a gironzolare da sola per i corridoi del collegio del teatro dell'Opera. È solo che aveva visto quelle giovani ballerine andare da qualche parte ed era curiosa di avvicinarsi a loro, per vedere se magari quelle scarpine di raso avessero le ali da permettere a chi le indossava di fare salti e piroette così leggiadre e portentose.
E alla fine si era persa.
Aveva sentito dei rumori e aveva pensato di seguire i suoni per ritrovare la strada. Di certo, se c'erano dei rumori, c'erano anche delle persone e queste persone avrebbero potuto riportarla da suo padre. Ma i suoni si allontanavano e lei non aveva voce per chiamare, doveva per forza raggiungere la fonte del rumore, perché da qualche parte doveva pur essere... in fondo a quel corridoio polveroso, di certo... e allora come mai il corridoio finiva in un vicolo cieco e non c'era nessuno? Era sicura che era da lì che provenivano i rumori, non potevano mica venire da dentro le pareti!
Forse si era sbagliata, non c'era proprio nessuno lì. Anzi, a giudicare da ciò che aveva visto, non c'era stato nessuno da molto, moltissimo tempo.
Quella zona del collegio era rimasta abbandonata durante i lavori di restauro. Aveva sentito il signore in livrea parlare a suo padre del restauro del palazzo dell'Opera e delle leggende sui cunicoli e sui passaggi segreti che erano stati usati durante la Rivoluzione Francese.
Aveva gironzolato per un po' in quelle stanze abbandonate, nella speranza di trovare la strada per tornare indietro. Poi era caduta.
Non sapeva come, quasi non si era accorta del pavimento che semplicemente le era sfuggito da sotto i piedi, come se ci fosse stata una botola. Ma le botole non si aprono da sole...
Se Dio non l'avesse ascoltata, allora non lo avrebbe fatto nessuno.
In mezzo a quell'oscurità pesante e appiccicosa come una coperta bagnata, Luisa aveva sentito voci allarmate che chiamavano il suo nome e aveva realizzato con sgomento non solo che non era in grado di rispondere, ma anche che quelle voci erano lontanissime, molti metri sopra la sua testa.
Forse era già morta ed era finita giù all'inferno, perché aveva disobbedito a suo padre che le aveva raccomandato più volte di non allontanarsi da sola.
La bambina si fermò e stese le braccia, cercando a tentoni un appiglio al quale reggersi per provare a camminare. C'erano delle pareti sia a destra che a sinistra, come in un corridoio.
Picchiò i pugni e prese a calci quei muri fatti di pietra gelida nella speranza di produrre abbastanza rumore da farsi sentire. Si graffiò le mani ma, a parte questo, non successe nient'altro.
Poi la luce apparve come all'improvviso, una luce gialla che danzava sulle pareti disegnando in chiaroscuro le irregolarità della pietra grezza di cui era fatto quel posto.
Era una luce calda, come un fuoco e sembrò asciugarle le lacrime sulle guance. Era la luce di una fiaccola che si avvicinava.
Ora restava da capire se era un angelo o un demonio quello che reggeva la fiaccola.
Quando l'ombra si proiettò sul pavimento impolverato, Luisa pensò che forse si trattava di un gigante e si rese conto di non sapere se i giganti stavano in paradiso o all'inferno.
Alla fine la bambina pensò che doveva trattarsi quasi sicuramente di un uomo. Adesso bisognava scoprire se era buono o cattivo.
Cattivo. Cattivissimo... fu il primo pensiero che attraversò la mente della piccola appena lo sconosciuto le si parò davanti. Aveva una maschera, una mezza maschera di cuoio bianco e solo i cattivi si nascondo dietro le maschere. E poi era vestito tutto di nero e dal modo in cui la guardava non sembrava affatto contento di averla trovata lì.
Però i suoi occhi avevano lo stesso colore del paradiso.
«Chi sei?» chiese l'uomo in tono asciutto e imperioso. Aveva parlato in italiano, con un forte accento straniero.
Lei deglutì poi si indicò la bocca e scosse piano la testa come in un cenno negativo.
«Sei muta?» domandò ancora lo sconosciuto con un'aria quasi sgomenta, come se trovasse la cosa veramente orribile.
Nessuno usava mai quell'aggettivo con lei, quel signore non doveva essere una persona molto delicata, proprio no!
Luisa arricciò il naso indispettita e scrollò le spalle.
«Sei la bambina che stanno cercando» continuò l'uomo mascherato. Lo sapeva già, allora, e sapeva anche che era italiana, la figlia del duca venuto a visitare il teatro. Comunque non le sembrava troppo a suo agio – e dire che era lei quella nei guai.
La bambina gli puntò un dito contro il petto, come a chiedergli: e tu chi sei?
Lui sorrise, di un sorriso strano e privo di allegria.
Oltre a essere indelicato era anche maleducato! Avrebbe dovuto rispondere a quella domanda. Luisa si sentì invadere dallo sconforto e cominciò a piangere.
I singhiozzi erano suoni bassi e sibilanti in fondo alla sua gola immobile. L'uomo non sembrò particolarmente dispiaciuto, solo seccato.
«Smettila di piangere, ti riporterò indietro» sbottò. Poi aggiunse qualcosa a bassa voce, tra sé e sé. A Luisa sembrò che avesse detto: «prima che comincino a raccontare che il Fantasma mangia i bambini».
L'uomo le fece cenno di seguirla, ma lei non si mosse. Non si fidava nemmeno un po' di lui e comunque era troppo scossa per muoversi.
Lo sconosciuto sbuffò, poi assunse un'espressione grave e solenne.
«Un consiglio: non provare a togliermi questa» le disse indicando la mezza maschera bianca. «O potrei decidere di lasciarti qui per il resto dei tuoi giorni».  Poi, con un gesto repentino, si chinò su di lei e la sollevò tra le braccia.
Luisa si dibatté e cominciò a scalciare e a mulinare i pugni.
«Ssh, calmati» fece l'uomo. La voce gli si era addolcita di colpo, come se all'improvviso si fosse ricordato che aveva a che fare con una bambina e che doveva trattarla un po' meglio di come aveva fatto fino a qualche secondo prima.
Lei lo guardò perplessa.
«Scusami, non mi capita spesso di avere visite» dichiarò l'uomo. Non si sforzò di sorridere, ma ora aveva un'aria un po' meno antipatica.
Luisa sbatté le palpebre e cercò di guardare meglio quel viso mascherato. Era un bel viso, di un uomo adulto ma ancora abbastanza giovane. Non aveva nessuna espressione particolare in quel momento, ma sembrava triste, impregnato di malinconia come se vi fosse stato immerso dentro. Ed era strano.
La bambina ricominciò a piangere, senza sapere nemmeno bene il perché.
Ora aveva paura che lui tornasse cattivo, invece l'uomo fece una cosa piuttosto inaspettata: si mise a cantare. Era una canzone di cui Luisa non riusciva a capire le parole, ma le parole non le sembrarono importanti... la voce che le stava spingendo nell'aria era così bella da farle sembrare poco importante anche il fatto di essere sotto terra chissà dove, con suo padre che sicuramente la stava cercando preoccupatissimo.
Non si accorse nemmeno che l'uomo aveva cominciato a camminare, tenendola sollevata tra le braccia, contro il suo petto. I suoi vestiti odoravano di profumo costoso e inchiostro.

L'aveva riportata in superficie, in una piccola stanza con un grande specchio appeso al muro, probabilmente uno dei camerini del teatro.
A Luisa era parso impossibile, ma era sicura che fossero passati attraverso le pareti, cioè che la parete si fosse aperta, girando su cardini di ferro, come una porta.
Lui era fermo a fissarla, come a chiedersi che fare perché la ritrovassero, quando lei urtò uno sgabello che cadde rumorosamente sul pavimento. Dopo qualche secondo la porta della stanza si aprì di schianto e suo padre entrò trafelato nel camerino.
Il lampo che balenò negli occhi dell'uomo mascherato lo fece sembrare di nuovo cattivo.
Suo padre aprì la bocca come per urlare, ma l'uomo gli fu addosso egli premette una mano sul viso. Ora Luisa aveva di nuovo paura.
«Vi ho riportato vostra figlia, signore» disse lo sconosciuto, sempre con quel suo italiano dall'accento strano, snocciolando la parola signore come se i suoni inciampassero sulla sua lingua. «Il minimo che possiate fare per ricambiare il favore è fingere di non avermi mai visto».
La bambina guardò suo padre annuendo, come a voler dare ragione all'uomo. Il duca non era tipo da lasciarsi turbare dalle stranezze, e come poteva visto che egli stesso veniva considerato un po' strambo da chi lo conosceva?
L'uomo scostò cautamente la mano dalla bocca del duca. Lui lo stava ancora fissando attonito, troppo sconvolto per avere una qualche reazione. Poi lo sconosciuto si voltò, si fermò davanti a Luisa e accennò una specie di inchino, si avviò verso il muro, fece scattare i cardini del passaggio segreto e sparì.

Luisa e suo padre erano andati a Parigi per un viaggio diplomatico. La famiglia Giusso era molto in vista nel panorama politico di quell'Italia ancora in fasce e a loro capitava spesso di viaggiare.
Quando erano a casa, a Napoli, il duca era solito frequentare artisti e Luisa aveva incontrato molti personaggi insoliti, ma mai nessuno insolito come quell'uomo.
Gli altri erano strani forse, ma lei, con l'intuito e la ferrea capacità di ragionamento tipica dei bambini, riusciva sempre a trovare il capo della matassa della loro vera o presunta follia. Lo sconosciuto con lo maschera invece era ben al di là della sua capacità di comprensione, e questo lo rendeva estremamente affascinante ai suoi occhi.

*******

~ Parigi, 7 febbraio 1871~

A quanto pareva non era cambiato quasi niente, era ancora solo in mezzo al buio.  
Da qualche parte, un rintocco di campane segnò la mezzanotte.
L'uomo poteva ancora scorgere in lontananza il riverbero rosso dell'immenso incendio che stava consumando l'Opera Populaire. Il vento freddo soffiava impietoso sul viso e sul petto lasciato scoperto dalla camicia di batista ormai sporca.
Il suo teatro bruciava, e anche lui. Malgrado l'aria pungente, sentiva il sudore colargli lungo la schiena e il calore malsano della febbre avvolgerlo come un abito troppo stretto.
Non sentiva altro rumore se non lo sciabordio dell'acqua della Senna che scorreva sotto al ponte sul quale si era fermato. Poggiò i palmi delle mani sul parapetto di marmo, stordito.
La sua era una mente abituata a pensare, elaborare, calcolare, e anche in quel momento, dentro la sua testa i pensieri si mettevano in fila, facendo scorrere uno dopo l'altro  i ricordi e le immagini.  
C'era stato il tempo del dubbio, poi era venuto il tempo della speranza, poi era stata la volta della delusione, della rabbia, e infine della follia.
Erik si chiese cosa rimaneva di un uomo, una volta trascorsa anche la stagione della pazzia. Forse il dolore, il rimpianto? No, ogni cosa era evaporata quando aveva guardato la fanciulla e le aveva detto di andare via. Mentre Christine si allontanava, lasciandosi alle spalle quella strana favola che aveva gocciolato lacrime e sangue sui velluti e sui marmi dell'Opera Populaire, l'uomo che era stato il Fantasma dell'Opera aveva sentito la sua stessa anima evaporare.
Non gli restava niente.
«Adesso voi verrete con me». La voce gli trafisse i pensieri come una lama, un dolore pulsante gli attraversò le tempie.
Non poteva trattarsi di un gendarme, rilevò Erik, aveva un accento straniero.
Si voltò lentamente. Non aveva più la sua maschera, ma non importava. Quella sera ogni maschera era caduta una volta per tutte.
Scrutò nella penombra la persona che aveva parlato. Non aveva la forza d'animo di stupirsi nel riconoscere l'uomo che aveva davanti.
«Venire con voi?» disse con voce flebile e roca. «E perché mai?».

Il duca Mariano Giusso era sempre stato un tipo singolare. Talmente tanto singolare da incaponirsi e andare a cercarlo, quella primavera di due anni prima. Erik, ricordava, si era fatto trovare, perché se quello stolto avesse continuato ancora a lungo a cercare botole e passaggi sarebbe finito con il collo spezzato in una delle sue trappole, o forse addirittura avrebbe finito per farlo scoprire. E tutto perché sua figlia, la piccina muta, era convinta che lui fosse una specie di... bah, un angelo con le ali spezzate o qualcosa di simile. A quanto pare quella di farsi passare per un angelo era diventata un'abilità innata.
In quelle settimane che il duca e sua figlia avevano trascorso a Parigi, il Fantasma dell'Opera aveva quasi dovuto fare i conti con la circostanza di ricevere visite. Non che avesse mai avuto l'ardire di portare il duca e la bambina fino alla Dimora sul Lago, ma riusciva a trovare il modo di incontrarsi con Luisa e bearsi per qualche manciata di ore del sorriso della bambina mentre lo ascoltava cantare.
Erik non era avvezzo a sentimenti come l'affetto e la gratitudine, per questo non capiva il comportamento della bambina né quello di suo padre. Eppure, anche se si era trattata solo di una fugace parentesi nella sua esistenza da esiliato, gli era piaciuta.  
Ma questo era stato prima. Quando era... sì, quando era fragile davanti alla notte che lo circondava. Prima che decidesse di prendere quella notte, plasmarla, farne musica e offrirla alla sua piccola, dolce musa. Era stato prima di convincersi una volta e per tutte che non c'era posto per lui. Era stato prima del sangue e prima del fuoco. Era stato anche prima dell'amore.

«Venire con voi? E perché mai?».
Il duca prese qualcosa dalla tasca interna del cappotto.
Erik sentì la vista che gli si appannava, ma riconobbe lo stesso la sagoma bianca della sua maschera,
«Quella appartiene a un assassino, duca, e di certo a un uomo ormai perduto» commentò in tono inespressivo, con la voce ovattata dalla febbre.
«Ho un debito di riconoscenza con voi, Erik» replicò il duca. «Tempo fa aiutaste me e mia figlia, e non mi riferisco solo al fatto che l'avete condotta fuori dai sotterranei. Avete compiuto atti che non posso approvare, ma c'è qualcosa che devo fare per saldare il mio debito e credo consista nel non credervi perduto, a prescindere da cosa pensiate di voi stesso».
«Non credo di avere la capacità di replicare. Non credo di avere la capacità per fare nulla, in effetti...».
«Venite con me, vi prego»
«Non mi dovete niente, duca, non c'è alcun debito da saldare... Lasciatemi in pace». Le parole gli erano uscite in una fila di suoni strozzati. Il nero del cielo ora aveva invaso anche la sua testa e ora cominciava ad assediare anche i suoi occhi.
Un attimo dopo il buio vinse tutto e l'ultima cosa che Erik sentì fu la superficie ruvida del ciottolato contro il quale cadde.  
 
_____________________________________________________

Here, I have a note...

Andando per logica, la sera della rappresentazione del Don Juan dovrebbe essere, più o meno, una serata del febbraio 1871. Nel marzo di quell'anno sarebbe stata istituita la Comune di Parigi.

Tornare qui è un po' come essere a casa. Ritrovare Erik e riprendere a scrivere di lui è come rivedere un vecchio amico al quale non si è mai smesso di voler bene.
Spero che a chiunque passi tra queste pagine piaccia leggere questa storia anche solo la metà della metà di quanto sta piacendo a me scriverla.

I remain, gentlemen, your obidient servant.
  
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > The Phantom of the Opera / Vai alla pagina dell'autore: Alkimia