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Autore: _unaStella    17/01/2012    6 recensioni
Assassino. Assassino. Una vocina nella sua testa tentava di ricordarle che erano quegli occhi ad aver ucciso/ferito/torturato non solo gli amici più cari, ma una quantità indefinibile di persone e distrutto altrettanti pianeti. Allora perché non aveva paura?
Una storia forse un po' diversa che dà ampio spazio ai pensieri, su come un rapporto sia difficile quando entrambi gli elementi coinvolti hanno da fare i conti prima di tutto con sé stessi.

Avviso: per quanto riguarda l'IC dei personaggi, Vegeta in particolare, mi baserò molto anche sui giudizi ricevuti nelle recensioni, dato che è la prima volta che lo uso in una fic.
Detto questo, hope you'll enjoy!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bulma/Vegeta
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo I

 

Ho messo il cuore in un cassetto, per non soffrire.

 

 

E adesso che sei forte,

per struccarti useranno delle nuvole

cariche di piogge.

Adesso che sei forte, che se piangi

ti si arrugginiscono le guance.

 

M'abituerò a non trovarti.
Mi abituerò a voltarmi e non ci sarai
Mi abituerò a non pensarti quasi mai.

                                                                                              

Bulma prese tra le mani l’ennesima ciocca di capelli turchini nel vano tentativo di dar loro una forma compiuta. Quale balenamento malato del suo cervello le aveva sussurrato l’allettante idea di andare a dormire con i capelli bagnati così da recuperare sulle ore di sonno [erano effettivamente oltre le quattro e mezza del mattino quando era uscita dalla doccia, con sveglia preimpostata per le 7.01 del giorno stesso]? Non lo sapeva, come non sapeva con quale miracolo sarebbe riuscita a presentarsi in maniera almeno decorosa alla riunione della mattina. Odiava essere in disordine, l’ordine e la compostezza erano una delle poche cose su cui aveva puntato tutta la propria costanza [o testardaggine, che dir si voglia]  e in un modo o nell’altro era sempre riuscita a far rientrare tutto sotto il proprio controllo. Tranne quella mattina. Sospirò, e si arrese all’idea di doverli lavare di nuovo e al conseguente ritardo che questo avrebbe provocato. Afferrò la cornetta e schiacciato il primo tasto del palmare vide con leggera fierezza uno dei propri prodotti avviare immediatamente la chiamata al numero della segretaria del padre.

TUUU.. TUUU.. TUUU.. TUUU.. Pronto?

 –Salve Aiashi sono Bulma, potresti passarmi mio padre per favore?

La voce grigia, come tutto in quella donna del resto, della segretaria rispose dall’altro capo della telefonata.

 –Certo Signorina Brief, solo un momento che verifico la disponibilità della linea. Mentre la musichetta dell’attesa iniziava il suo breve –sperando che fosse tale- cicaleccio, le parve per un attimo di vedere quella signora bassa, perennemente imbronciata e priva di qualsiasi facoltà espressiva sia vocale che facciale alzarsi e battere due volte sulla porta dello studio del padre, il quale ovviamente doveva aver preso sonno, per poi mugugnare un “C’è sua figlia sulla due.” Tutto con il medesimo tono con cui aveva risposto a lei poco prima. Le era capitato di chiedere più volte al padre per quale motivo si ostinasse a circondarsi di una persona tanto statica, ma aveva ricevuto sempre una risposta che non dava adito ad ulteriori polemiche

–E’ l’unica persona su cui posso scommettere che non avrà un attacco di panico di fronte ai mille problemi della giornata e non c’è cosa che più apprezzi in una persona della volontà di mantenere l’etica professionale in ogni ambito.

Cosa che, detta da un uomo come suo padre, che vagava per la fabbrica perennemente in pantofole e tuta, solo occasionalmente coperti dal camice bianco da laboratorio risultava abbastanza fuori luogo. Mentre era aggrovigliata in questi pensieri, abbastanza inutili, arrivò alle sue orecchie il tono gracchiante per il sonnellino appena interrotto del padre.

–Dimmi tesoro, come mai mi chiami così di buon mattino? Un sorriso.

–Buongiorno papà. Purtroppo non riuscirò ad arrivare in tempo per la riunione, potresti introdurre tu l’argomento e poi io preciso quando arrivo e gestisco le domande?

Pausa.

 –Tesoro, guarda che la riunione è stata rimandata alla settimana prossima. Non sei stata avvertita? Eppure Aiashi ti ha lasciato più di un messaggio sulla tua posta personale..

Serie confusa di emozioni: panico, rabbia, furia omicida, rassegnazione, sonno.. sonno.. decisamente sonno, GIORNO LIBERO. Il tutto in un frangente estremamente breve, tanto da farle rispondere pacatamente a quella che in altri momenti poteva significare l’esplodere di un conflitto silenzioso all’interno delle mura domestiche, con grande pena di sua madre.

 –Ah, no non ho più la casella di posta attiva sul palmare papà. Ti avevo lasciato il nuovo recapito. Un attimo di silenzio dall’altra parte. –Eh.. si, ricordo.. devo essermi dimenticato di darlo ad.. Bulma lo interruppe prima di dar fondo a quel momentaneo atto caritatevole nei confronti della sbadataggine cronica del Signor Brief per le cose che implicassero memoria, dato anche dalla prospettiva di avere finalmente un giorno libero tutto per se. Mai avrebbe ammesso a se stessa che in parte era colpa sua, cosciente com’era di questo difetto del padre, il fatto di non essersi accertata personalmente che il nuovo recapito fosse giunto nelle mani di chi sapeva l’avrebbe usato in casi come questi.

–Non preoccuparti papà, torno a letto. Oggi mi prendo un giorno per me. Sorriso del padre, non visto ma chiaramente percepibile, in un misto di sollievo e conforto per la carneficina scampata e per la più paterna volontà di vedere la figlia finalmente riposarsi un attimo. Da quando lei e Yamcha si erano lasciati –all’incirca tre mesi prima- non l’aveva ancora vista fermarsi un attimo, buttata nel lavoro e sempre alzata sino a orari improponibili. Si stava sciupando. E lo si ravvisava in modo ormai impossibile da nascondere, quindi quelle parole erano accolte con un profondo respiro di sollievo, per quanto momentaneo.

–Va bene tesoro, riposati.

CLIK

La chiamata si interruppe e Bulma ciondolò sino all’ampio letto e vi si lasciò cadere sopra, pregando di riprendere sonno immediatamente e di non lasciar andare la mente a pensieri che ormai erano diventati la sua ombra, angosciosa, fedele e sempre presente come tutte le ombre. Quel giorno però il caso fu generoso: in pochi minuti il respiro era di nuovo regolare e pesante, e per un po’ si sarebbe potuta godere la piacevole incoscienza di un sonno senza sogni.

 

Quando aprì nuovamente gli occhi, il sole era alto nel cielo e dalla finestra entravano piacevoli soffi tiepidi, segno dell’arrivo ormai prossimo di una primavera inoltrata. Si stropicciò il viso, non era più abituata a sonni così lunghi e continui. Istintivamente, allungò il braccio destro nell’ampio letto, come in cerca di un qualcosa –o qualcuno- che avrebbe dovuto trovarsi in quella direzione; lo ritrasse dopo un attimo, sospirando forte. Erano mesi che quel gesto era sparito dalla sua mente, perché proprio in quel momento doveva tornare a farle visita? Non le era concesso un giorno di riposo? Sospirò di nuovo. Evidentemente no. Il dolore di una rottura non lascia spazio al riposo, rimane costante e presente all’interno del proprio ospitante e ne contamina ogni momento, attimo, gesto con il proprio alone di tristezza infinita. Sentì le lacrime pungerle gli occhi e per un attimo fu quasi tentata di lasciarle scivolare lungo le guance, ma quell’idea fu scacciata con la stessa rapidità con cui era affiorata. Si tirò su di scatto, fiondandosi dentro il bagno come aveva fatto ore prima a passo di carica, aprì il getto d’acqua del lavandino e vi fiondò il volto di scatto. Sobbalzò per il freddo, ma dopo qualche attimo di stordimento percepì la piacevole sensazione di una ritrovata razionalità. Fece dietro front, lanciandosi nuovamente nel letto sfatto con il preciso intento di rimanervi almeno per un’altra ora. Sarebbe passata. Bastava trovare qualcosa da fare per riempire la giornata ed evitare i momenti vuoti. Avrebbe letto tutti i manuali di meccatronica in casa pur di evitare al proprio cervello qualsiasi escursione nella zona ‘sentimento’. Erano mesi che l’aveva chiusa e sigillata a dovere, di certo non avrebbe buttato in quel modo tutti i suoi sforzi. Non senza una strenua resistenza.

 

Stanno urlando da ormai quasi un’ora, senza giungere ad alcuna conclusione degna di questo nome. Yamcha le è a pochi centimetri e ha un tono di voce dannatamente alto, come se stessero in stanze diverse. Su piani diversi. Questo è il prezzo da pagare quando ci si trascina dietro una relazione morta da tempo e si fa di tutto per auto convincersi che non sia vero. Può funzionare per i primi mesi, e per i precedenti otto pareva dare i suoi frutti, ma si sa, queste cose sono destinate ad arrivare al punto di collasso.

Soprattutto se ci sono questioni che permangono in sordina ad avvelenare il cuore di entrambi. problemi, incomprensioni, cose non dette. Tante, tantissime cose non dette. Troppe per poter semplicemente svanire nello scorrere dei giorni.

-IO NON TI HO MAI DETTO DI NON VOLERE UN FIGLIO NOSTRO!

Questo è il primo tasto dolente. Un bambino, lei ne vuole uno ormai da almeno un anno, ma nel momento in cui avevano provato a discuterne, lui si era tirato indietro dicendo di non sentirsi ancora pronto. Cosa che, dopo più di dieci anni assieme, le era parsa davvero assurda. Non l’ha mandata giù, anzi, ne soffre giornalmente quando sfila dalla scatoletta di cartone la lastra di latta e ne estrae la piccola capsula con stampato sopra i nomi dei giorni della settimana, cosa che evita che qualche imprevisto possa succedere, anche solo per sbaglio.

Quelle parole le fanno salire il sangue al cervello. Di lì la discussione, lo sa benissimo, prenderà la tremenda china della catastrofe. Ma non è contemplabile per lei l’idea di accantonare. Yamcha sa benissimo che quello è un tasto che tassativamente non va toccato o l’epilogo rasenterà i cori delle tragedie greche dopo gli omicidi più efferati, se l’ha fatto l’ha fatto di proposito. Quindi, ora ne pagherà le conseguenze. Se c’è qualcosa a cui la donna tiene di più della loro relazione in quel momento è il suo orgoglio, e per quanto si senta intimamente legata alla persona che ha di fronte, non ha nessuna intenzione di lasciarselo calpestare. Mai.

-TU MI HAI DETTO DI VOLERLO FORSE E UN GIORNO!

La voce si alza di parecchi toni sulle parole “forse” e “un giorno”. Le scandisce con cura. Le sillaba quasi. Vede chiaramente balenare negli occhi del ragazzo una nota ferita, segno tangibile di averlo punto sul vivo. O forse sarebbe più opportuno dire lì dove fa più male.

-E CREDO CHE ANDARE A LETTO UN GIORNO SI’ E UNO NO CON ALTRE NON SIA ESATTAMENTE UNA PROVA D’INTENTI!!

L’infedeltà. L’ha perdonata tante volte, alcune facendogliela scontare con purghe fatte di silenzi e ripicche, anche se mai abbastanza, altre –la maggior parte- ha lasciato che passassero sotto i suoi occhi chiusi per un amore che credeva ancora di poter difendere, barricandosi dietro alle parole ripetute quasi come un disco rotto “Un giorno cambierà.” Inutile dire che non è mai cambiato e che forse la cosa è andata anzi peggiorando. Ora lei non può nemmeno più far finta di non vedere.

Da lì in poi è tutto un rinfacciarsi cose vere e false, alcune inventate sul momento solo per ferire l’altro e per far sì che la sua voce si abbassi il tanto necessario per poterlo sopraffare con la propria. È una scena di una tristezza infinita. Tanto per loro, che anche se immersi nei reciproci bagni di bile nera riescono a percepirne chiaramente l’intrinseco significato, quanto per chi di volta in volta vi si è trovato presente.

Non è infatti la prima volta. Solo l’ultima di una lunga, interminabile, straziante serie.

Eppure si sono amati davvero tanto, in un passato non temporalmente troppo lontano, ma ora, tra le urla, è come se fossero passati secoli, ere geologiche.. o, forse, solo troppo tempo.

-E TU ALLORA?! TU HAI ACCOLTO IN CASA QUELL’ESSERE RIPUGNANTE!

Ecco il secondo tabù che viene incautamente scoperchiato. Ormai il fiume ha rotto gli argini e sta trascinando con se ogni cosa trovi sulla sua strada, siano essi ricordi, paure, rancori antichi, aspettative deluse. Nemmeno quel poco che ancora resta di positivo viene risparmiato. Sanno entrambi dove andranno a parare, a cosa li porterà quell’ennesima scenata, quindi ormai non ha più senso tenere dentro le cose. Tanto vale dirsele una volta per tutte.

 

 

Si stiracchiò indolenzita nelle lenzuola, lasciando che i muscoli rilasciassero parte della tensione accumulata in quei lunghi mesi di lavoro forzato a cui si era costretta, rimanendo in quella posizione per alcuni minuti. Percepiva chiaramente la gratitudine che ogni cellula del suo corpo stava rilasciando a quegli attimi di insperato relax, un toccasana che mancava nella quotidianità di Bulma da molto,troppo tempo. Un lieve mugolio di piacere si fece strada attraverso le labbra, quasi senza che se ne accorgesse, come se la sua parte inconscia volesse ringraziarla per quei preziosi attimi di stand by.  

Lasciò che il torpore delle coperte la avvolgesse ancora per un po’, concentrando la propria mente solo sulla frequenza regolare del respiro. Era il suo metodo per evitare di pensare troppo, e doveva ammettere che si rivelava sempre estremamente efficace. Il tutto stava solo nel rimanere abbastanza concentrata, e su quello ormai era diventata un’esperta.

Un lungo sbadiglio, poi obbligò il proprio corpo a sollevarsi dal materasso per una rapida seduta di fronte allo specchio posizionato accano alla finestra, con tanto di postazione trucco e puff ricamato su cui posare il suo ben curato fondoschiena. Non dovendo andare a lavorare, quel giorno poteva anche semplicemente raccogliere i capelli in una qualche crocchia evitando loro la consueta routine di tentativi di acconciatura sempre insoddisfacenti. Secondo i suoi canoni.

Afferrò un’ampia felpa grigia con disegnato sopra un grosso gufo e la infilò in malo modo, incurante di come potesse caderle addosso –cosa che di solito aveva il primo posto nella scelta del vestiario- poi fu il turno di un paio di leggins crema, calzettoni pesanti da casa, ciabatte. Si voltò a guardare la propria immagine riflessa e una smorfia a metà tra lo stupore e il disgusto le comparve sul volto pallido. Era la classica tenuta che il suo ex –chiamarlo con quell’epiteto era stato il suo metodo per allontanare ogni contatto della mente e del cuore con lui, privandolo del nome proprio e quindi teoricamente di un volto- avrebbe definito “tenuta antistupro”. Sbuffò, infastidita dall’aria sciatta che lo specchio le restituiva ma visto il programma della giornata –un nulla totale- poteva anche starsene comoda in quel travestimento che di lei non aveva nulla e gustarsi l’abbrutimento che la rottura di una storia importante aveva come periodo dovuto e che non si era ancora concessa. Tanto con i genitori fuori casa –suo padre era in ufficio, sua madre aveva preso la giornata per fare una gita alle terme- poteva regalarsi un aspetto orribile almeno per quel giorno di solitudine.

Più o meno.

In effetti non pensava al fatto che in quell’enorme casa ci fosse anche un altro inquilino non annoverabile tra i membri della sua famiglia. Un non calcolato quarto elemento che la ragazza lasciava apposta a lato dei propri pensieri, in un luogo ben lontano da quelli ove la sua mente viaggiava di solito.

Non sapeva perché gli aveva offerto la sua casa, mesi addietro, e nonostante quella domanda le fosse stata posta milioni di volte non c’era verso, tanto per gli altri quanto per se stessa, di cavar fuori qualcosa di più dei circostanziali “non aveva un posto dove stare” oppure “credo che meriti una seconda possibilità”. Se poi non era giornata, e quasi mai lo era per questo argomento, si limitava ad uno scocciato “E basta, fatevi una vita vostra. Della mia sono affari miei.”

Il fatto che le avesse risparmiato l’esistenza su Namecc, non sottoponendola ad una serie di torture atroci o semplicemente staccandole la testa dal corpo con un colpo secco, non poteva di certo essere portato come riprova di un ravvedimento o comunque di un qualsiasi segno di maturazione in direzione del bene da parte della scimmia. A dirla tutta aveva provato a farla passare un paio di volte come scusa, ben sapendo della sua intrinseca indifendibilità come argomentazione e pur stando sopra la media dei suoi amici come quoziente intellettivo aveva visto –prevedibile- crollare la sua già di partenza tremante argomentazione sotto i colpi della ragione. O così volevano farle credere/comprendere.

La cosa le aveva creato non pochi grattacapi, anche perché aveva preso quell’episodio come una chiara testimonianza di un errore di fondo nella formula basilare del suo esperimento “Vediamoquantocimettoaredimereunmostroassassinoinuncorpodiscimmia” e questo l’aveva inevitabilmente spinta ad un attento riesame di premessa, tesi, antitesi, conclusione. Era un scienziata non solo sulla carta. L’analisi però non aveva portato grandi miglioramenti sull’argomento, anzi l’aveva lanciata in un turbine di crisi, dubbi e domande che dopo un po’, più per disperazione che altro, aveva deciso molto autonomamente di abbandonare chiudendo l’argomento.

Certamente doveva esserci stato un motivo, anche decisamente valido per il quale aveva deciso di lasciarlo entrare nella sua casa.  Non era il tipo da fare le cose così solo per istinto, da brava mente geniale qual’era aveva dalla sua una straordinaria capacità di razionalizzare qualsiasi avvenimento e di giungere alle conclusioni mediante processi di assoluta logicità che portavano, ovviamente, ad un risultato esatto e non confutabile.

Eppure, in quel momento come in tutti quelli che l’avevano preceduto, non le veniva in mente qualcosa di abbastanza convincente. Un motivo che fosse talmente inattaccabile da svolgere da solo i ruoli di premessa, argomento a sostegno e conclusione, senza bisogno di ulteriori spiegazioni poiché completo e finito in sé. No, decisamente non c’era nulla al momento.

-Bah.

Scacciò quel garbuglio di pensieri con un gesto secco del capo, ordinando a se stessa di evitare altri argomenti spinosi per quel giorno e infilatosi in bocca lo spazzolino da denti iniziò la pulizia mattutina come se dovesse scrostare una teglia unta e lasciata all’incuria per settimane.

Un altro metodo per sfogare i propri nervi.

Risciacquò la bocca con un sorso preso dal getto d’acqua, dando poi una veloce pulita al piano in marmo e riponendo lo spazzolino nel bicchiere rosa accanto al pomello dell’acqua calda. Passò l’asciugamano sul viso e dopo averlo buttato in malo modo sul lungo ripiano in marmo diresse svogliatamente i passi giù per le scale.

 

Vegeta se ne stava seduto su uno degli sgabelli della cucina, i gomiti appoggiati sul ripiano in marmo accanto al frigorifero, in attesa che qualcuno giungesse a preparargli la colazione. Immobile come una statua di granito, era come sempre chiuso dietro una barriera nera di pensieri indecifrabili e non captabili per il resto del mondo, protetti dallo schermo di un orgoglio ben più duro di qualsiasi arma che avesse sino ad allora provato a scalfirlo. Era un orgoglio nero, come la pece, come il buio tetro, quello delle notti senza luna né stelle perché coperte da un fitto strato di nuvoloni, violento, che si nutriva di superbia –e di questa ne aveva a palate, come un carburante inesauribile- e del vedersi causa di infinite sofferenze al prossimo. Aveva una sorta di culto di se stesso, l’aveva minuziosamente costruito sin dalla più giovane età anche grazie alle parole eloquenti che il padre gli aveva ripetuto come un rosario sacro e inviolabile.

“Sii forte, non avere legami, sii spietato. Solo così potrai essere il migliore.”

E lui lo era, il migliore. O almeno aveva creduto di esserlo sino al momento in cui aveva visto quella terza categoria, quel sottoposto, raggiungere il livello del Super Saiyan prima di lui, davanti ai suoi occhi, senza che lui avesse potuto far niente per impedirlo.

O superarlo.

Lì era il problema, il grosso spinoso bolo di rancore, delusione, odio che faceva su e giù lungo la sua laringe da mesi, e che in un momento di totale annebbiamento delle proprie capacità raziocinanti lo aveva indotto ad accettare l’ospitalità di quella casa.

Strinse i pugni attorno al vuoto, facendo diventare bianche le nocche.

-Kakaroth.

Fu un sibilo, presto coperto dall’assordante rumore di passi strascicati chiaramente senza ombra di preoccupazione per il fastidio che quello ciabattare poteva causare a terzi, segno dell’arrivo imminente di Lei. Difatti l’unica in quella casa che sembrava totalmente dimentica delle regole della convivenza civile –a parte lui ovviamente- era quell’oca starnazzante dai capelli azzurri. Ancora non si capacitava come la sua pazienza, che mai prima di allora aveva avuto coscienza di possedere, riuscisse a dilatarsi a tal punto da sopportare quei continui affronti da parte sua, e il fatto che fossero spesso e volentieri più voluti che non lo mandava ancora più ai pazzi.

Ma non faceva nulla, pur promettendo a se stesso che sarebbe arrivato il giorno in cui gliele avrebbe fatte pagare tutte una per una. Magari tra le sofferenze più atroci. Di certo non le avrebbe riservato una morte lenta, quella saputella si meritava agonie lunghe e crudeli. Eppure, anche in quel momento, sembrava una prospettiva che continuava ad allontanarsi nel tempo.

Mentre era immerso in queste anguste riflessioni, il chiasso si fece sempre più intenso e dopo pochi istanti comparve Bulma, facendo capolino dalla porta che dava sulle scale per i piani superiori, gli occhi assenti e persi chissà dove. Non l’aveva notato.

La cosa gli diede abbastanza fastidio.

Non era abituato a passare inosservato, di solito la sua presenza scatenava il panico generale, con urla di terrore e tutti gli altri fronzoli al seguito –c’è da dire che il suo arrivo era sempre scandito da una serie di disastri/carneficine/stragi- a cui era abituato e di cui amava bearsi, ma in quel momento anche un grugnito gli sarebbe bastato per non sentirsi totalmente ignorato.

La terrestre invece, intenta a scandagliare i ripiani frigo in cerca di qualcosa che le sembrasse abbastanza mangiabile da provocarle i morsi dell’appetito, pareva proprio non degnarsi minimamente di lui.

Diede un pugno sul tavolo, reclamando così le attenzioni che, secondo lui, gli erano dovute da quell’essere petulante.

Bulma trasalì, come uscendo momentaneamente dal coma.

-Ah?

Ora finalmente lo stava guardando.

-Preparami la colazione, donna.

Lo fissò bieca.

-Come prego?

Vegeta ghignò interiormente. Aveva ristabilito l’equilibrio.

-Ti ho detto di farmi la colazione. Ho fame, devo allenarmi.

Un ringhio uscì fuori dalle labbra serrate della ragazza, che aggrottò le sopracciglia riducendo gli occhi a due fessure azzurre. Dal canto suo il Saiyan si godeva la scena immerso in un brodo di autocelebrazione.

-Dì un po’, Bulma cadenzò volutamente ogni parola. Mi hai preso forse per la tua serva? La voce era stridula, segno tangibile che la tattica aveva colto nel segno. Quasi gli pareva di sentire gli applausi di sottofondo per la propria interpretazione. Avrebbe volentieri fatto un inchino, godendosi il tripudio del pubblico.

-Tu mi hai invitato qui e Tu devi provvedere al mio nutrimento, quindi datti da fare.

Fece per ribattere, la bocca semiaperta pronta a scattare al primo segnale della mente, impegnata nella ricerca di un insulto abbastanza tagliente, poi però di nuovo volò estremamente lontana, dopo aver inquadrato l’angolo di spazio effettivamente occupato dallo scimmione.

Fu un brutto tiro quello che la memoria le giocò in quell’istante.

Non era uno sgabello a caso, non per lei almeno. Fu come essere di nuovo inghiottiti da una nebbia fitta, capace di chiudere al di fuori della propria cortina il resto del mondo e lasciare il malcapitato all’interno di una non ben percepibile realtà ovattata, dai confini labili e sfaldati, fatti di ricordi dolorosi che non colpiscono con la spada, lacerando e dilaniando, ma si mostrano come echi che sfiorano appena le orecchie, solleticandole con qualcosa che non è più ma che continua ad esistere in un tempo passato che però rimane immanente.  E vicino, dannatamente vicino.

Ogni insulto, parolaccia, offesa venne offuscata dalla nebbiolina, così abbassò lo sguardo e si limitò a blaterare un semplice “Scimmione da strapazzo” mentre estraeva dal frigo il necessario per sfamare quel rozzo.

Vegeta grugnì. Veniva di nuovo ignorato. Ma almeno vedeva in arrivo la colazione.

Non che si fidasse molto delle capacità culinarie della terrestre –era una pessima cuoca, come sua madre gli aveva più volte confidato ridacchiando, confidenza non richiesta ma comunque accuratamente registrata e immagazzinata per un secondo momento- ma mettere qualcosa sotto i denti era condizione senza la quale non poteva iniziare alcun genere di allenamento.

La vide accendere due fuochi, buttarvi abbondante olio e lasciarvi colare in una 6 uova e nell’altra una porzione più che generosa di bacon. Incrociò le braccia al petto soddisfatto. Aveva ottenuto –quasi- tutto quello che voleva.

Bulma spense i fornelli e riempì un grosso piatto da portata porgendolo a Sua Maestà, per poi mettere sul fornello più piccolo la moka appena riempita ed adagiarsi contro il frigorifero nell’attesa che il caffè fosse pronto.

Distanza di sicurezza era la parola d’ordine con lo scimmione, non perché ne avesse paura ma piuttosto perché la loro vicinanza tendeva a far scoppiare guerre di logoramento dove entrambi si barricavano in trincee di insulti, sberleffi, grida. Molte grida. Almeno da parte di lei. Lui urlava solo di conseguenza, non sopportando che qualcuno gli parlasse sopra.

Era per questo motivo che Bulma alzava ulteriormente la voce, arrivando a toccare livelli mai raggiunti –e irraggiungibili- dai parametri di una normale voce umana. Questa era la parte femminile dei loro deliri di onnipotenza, mattutini serali o notturni che fossero, i quali allietavano e ravvivavano l’enorme casa dei coniugi Brief, che per un motivo o per l’altro avevano iniziato a prendere in simpatia l’ospite ex aspirante distruttore del pianeta Terra e fautore dell’azzeramento violento di tutta la sua popolazione. Non Bulma. Bulma lo odiava. E la cosa lo gonfiava come elio.

Ovviamente tralasciando il fatto che pur di salvarlo dall’esplosione della Gravity Room si era lanciata tra le macerie. Erano piccolezze. Lei era una piccolezza. Ovviamente.

Quella mattina però, era come se la ragazza di fronte a lui si fosse costruita una barriera oltre la quale a lui non era permesso andare. Cosa estremamente fastidiosa. Irritante. Irritantissima.

Il caffè fece capolino dal beccuccio, andando in parte a rovesciarsi sul piano di cottura: non si era accorta del fischio della macchinetta e Vegeta prese la palla al balzo. Iniziava il secondo round, non le avrebbe permesso di ignorarlo a quel modo.

-Sei proprio un’incapace, donna.

L’enfasi su quell’epiteto dimostrava quanto godesse nel rimarcare un qualcosa che sapeva benissimo irritare la controparte oltremisura. “Si dà il caso che io abbia un nome, scimmia pulciosa!” si era sentito rispondere più di una volta, quindi credeva di andare abbastanza sul sicuro con quella frecciatina. Aspettò baldanzoso il risultato del proprio attacco, ma non arrivò niente.

-Vegeta, fa’ un favore, vai ad allenarti. Te l’ho riparata per un motivo quella stramaledetta camera gravitazionale.

Non c’era nessun accenno di emozioni nel tono. Stizzito, il Principe lasciò lì quel poco che restava della colazione e si diresse verso la Gravity Room.

“Maledetta donna. Se spera che io le lasci passare questo affronto si sbaglia di grosso.” Iniziò a delinearsi tra i suoi pensieri una vendetta estremamente piacevole. Ghignò malignamente nella sua testa, mentre congratulandosi per la seconda volta nel giro di pochi minuti con se stesso si diresse a grandi falcate sino alla GR pronto per una nuova giornata di sforzi. Avrebbe scovato il motivo di tanta sfuggevolezza e l’avrebbe volto a proprio favore utilizzandolo come arma. Tagliente e affilata. Spiarla. Il piano era quello. Sarebbe divenuto la sua ombra –ovviamente nel più totale silenzio- per qualche giorno, e una volta raccolte informazioni sufficienti, le avrebbe sfruttate tutte come mezzi indispensabili per il proprio scopo.

Prima però gli allenamenti lo attendevano, di certo una rivalsa per il proprio orgoglio ferito non lo avrebbe mai distolto dal suo proposito più incombente. Rise di nuovo, sempre più fiero di quei meccanismi diabolici che la propria mente era in grado di far girare con tanta naturalezza.

Schiacciò il pulsante d’accesso alla GR, aprendo il grosso portellone e lasciandosi inghiottire dalla sala di addestramento.

 

 

Salve a tutti, dopo questo chilometrico capitolo –saranno tutti più o meno così, sono una persona totalmente priva del dono della sintesi- lascio spazio per qualche commento da parte mia: intanto avverto subito, sono una maniaca dei sentimenti e del loro evolversi attraverso il tempo ed è su questo che verterà principalmente la storia. Amo il romanticume ma lo doserò col contagocce qui, anche perché visto uno dei due protagonisti [ Vegeta: etciù! ] lo ritengo abbastanza fuori luogo, se non in modica parte e in circostanze ben determinate. Ultimo palloso avvertimento, non abbiatemene sarò più affabile col progredire dei capitoli lo prometto :D , l’ho già messo nell’introduzione ma trovo giusto ribadirlo qui: non ho mai scritto nulla con Vegeta come protagonista e vista la complessità estrema del personaggio può essere che nel corso della vicenda sfori nell’OOC, pur sforzandomi al massimo. Per questo e per mille altri motivi apprezzerò molto le recensioni anche critiche, in quanto mi daranno una mano a migliorare la mia capacità di giostrare una coppia tanto complessa.

 

Xoxo

Stella*

 

  
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