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Autore: Reveur de merveilluex    17/01/2012    0 recensioni
La vera storia di Charlotte Petrova.
"Ho deciso di raccogliere tutti i miei pensieri e ricordi in un libricino dalla copertina ambrata..Per non dimenticare."
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Molte persone ricordano solo i momenti più belli, della propria vita. Questo tipo di persone, amano raccontare solo quelli, dando al mondo una visione di loro stessi, a cui neanche loro credono davvero. In effetti è buffo, come gira il mondo. Ogni tanto, mi sono chiesta se fossi l'unica a continuare a ricordare a me stessa, anche i fatti più orribili e sconvolgenti della mia vita -o meglio, esistenza.
E' solo che, senza quei momenti, non sarei chi sono ora. Ma forse non è il mondo che è sbagliato e strano, forse c'è qualcosa di sbagliato in me. Forse è il destino a decidere la nostra vita. Forse non sono stata altro che una disgraziata.

Sono solo una ragazza -o meglio, ero. Sì, perchè ora sono un abominio della natura. Un mostro.-
Una ragazza disgraziata..

Pioveva. Pioveva tanto quel giorno. Ricordo l'odore di umidità e pioggia che c'era nell'aria, che insistente si insinuava ovunque.
Ricordo il letto bagnato dal mio sudore, le coperte bianche su di me, il dolore.
Mh, probabilmente il dolore è la cosa che ricordo più precisamente. Un dolore come quello non si scorda facilmente. Quella notte mi fu inflitto un dolore fisico ed emotivo, un dolore che mai dimenticherò. Fu orribile..

Ero sdraiata sul letto, dolorante, sudata, spaventata. Ero più di tutto spaventata.
Come avrei potuto non esserlo? Era terrorizzante, il pensiero di ciò che poteva accadere.
Tremavo, il mio corpo sussultava ad ogni minuto, ormai. Le fitte erano spaventosamente forti, dolorose, troppo.
Tutto era così confuso. Un attimo prima era come se tutto si muovesse troppo velocemente perchè io lo potessi vedere. Un attimo dopo tutto era rallentato, sbiadito.

Avevo davvero tanta voglia di fermarmi, appoggiare la testa al cuscino, e restare lì a riposarmi.
Ma non dovevo, non potevo, non volevo. Dovevo continuare. Continuare a sforzarmi, spingere, lottare.
Dovevo farlo per lui. Quel piccolo esserino che era cresciuto dentro di me, per ben nove mesi.
Quel fagotto che avevo amato, nutrito, ospitato.

Ogni sera, mi accarezzavo la pancia, e gli sussurravo qualche cantilena, che mi era stata cantata da piccola. Mi piaceva immaginarlo come il mio piccolo angioletto, quello che avrei cresciuto e fatto diventare una persona per bene.

Faceva così male, era troppo doloroso. Stringevo il lenzuolo con le unghie. Non ne ero sicura, ma probabilmente lo avevo bucato.
Mi reggevo col le braccia, i cuscini sotto la mia schiena non erano sufficienti.
Mia madre mi urlava di spingere, con tutta la forza che avevo. Mi urlava di lottare, e resistere.

La stessa madre, che nove mesi prima, alla notizia della sua unica figlia incinta era rimasta allibita. Rimanere incinta prima di un matrimonio ufficiale, era un'eresia. Lo stesso pensava mio padre.
Eppure anche lui era lì, era fuori dalla casa. A prendere dell'acqua per il mio esserino, presumevo.

Spinsi forte. Inarcai la schiena e diedi una spinta, con potenza. C'ero quasi, potevo riuscirci. Dovevo farlo per il mio bambino -o bambina.
Spinsi ancora, non riuscendo a trattenere un urlo di dolore acuto, proveniente dal mio ventre.

Ero così stanca.. Tutto si fece più confuso di quanto non lo fosse già. Sentivo il mio bambino che piangeva, che urlava. Vedevo solo un'immagine vaga di mia madre, che lo portava fuori dalla stanza.
Era tutto troppo sfocato e confuso, per capire qualcosa di concreto.
Il dolore si affievoliva pian piano, lasciando spazio al grande vuoto che percepivo nel mio ventre.
Mi sembrò di sentire delle urla, e gli zoccoli dei cavalli che si allontanavano da casa mia, sotto la pioggia.

Girai la testa, a destra e a sinistra, sul cuscino su cui la avevo finalmente potuta poggiare.

Due secondi dopo, entrò mia madre, nella stanza. Si avvicinò al letto. La guardai con interesse, sorpresa. Dov'era il mio bambino? Lei non lo aveva in braccio. Mi tirai nuovamente su, reggendomi con le braccia, allarmata. Ma lei, di rimando, mi fece risdraiare , e si sedette sullo sgabello accanto al letto. Incrociò le mani in grembo. Notai che non mi guardava, che evitava il mio sguardo.

<< ..Madre? >>
Avevo la voce spezzata, quasi senza suono. La gola era più che secca, sia dallo sforzo, che dalla preoccupazione. Che diamine era successo?
Solo allora, mia madre mi guardò.
I miei occhi, si riempirono di lacrime, pronte a scendere al 'primo segnale'. Ingoiai la saliva.
Il suo sguardo era vacuo, spento, addolorato, dispiaciuto.

Capii ancora prima che parlasse. Ancora prima che mi spiegasse che mia figlia era morta -era una bambina.- Ancora prima che mi dicesse che non respirava, quando l'aveva fatta nascere. Ancora prima che mi spiegasse che non voleva farmela vedere, non voleva che soffrissi di più. Capii tutto ancora prima che scoppiasse in lacrime, vedendomi in quello stato.
Avevo solo una vaga idea, di come dovessi apparire.. Ero completamente stravolta. Ero spezzata. Il termine più adatto era proprio quello. Ero spezzata.
Non solo il mio cuore, io mi sentivo tutta spezzata. Era peggio di qualunque altro dolore mai provato, forse anche peggio di una spada nel cuore.
Le lacrime scendevano incontrollate su tutto il mio viso, contornandomi le guance, il naso, il mento.
Era terribile, la sensazione di vuoto che provavo. Un vuoto incolmabile, così ampio.

Eppure io l' avevo sentita, lo avevo sentita piangere. O me lo ero immaginato? C'era stato il pianto di una bambina davvero?
Quando aprii la bocca, per dare voce ai miei dubbi, per protestare, ne uscii solo un lamento soffocato.
La mia vista era offuscata dalle lacrime, ma riuscii a vedere bene mia madre, che si alzava, e in preda al pianto, usciva dalla stanza.

Quando per qualche secondo, aprì la porta, sentii mio padre parlare, spiegare la situazione, con voce calma. Lo sentii dire che mia figlia era morta. Fu come se mi avessero spezzato due volte, con quella.
Guardai insistentemente la porta, come se mi aspettassi di vedere uscire la mia bambina, in braccio a mia madre, assopita dolcemente.

Ma non entrò lei, entrò lui. Era stravolto, quasi disperato. Quasi come me. Delle lacrime avevano rigato il suo viso, ma si erano fermate. La disperazione gli si leggeva in volto. Anche con gli occhi gonfi e pieni di quei goccioloni salati e caldi, riuscivo a scorgere i suoi lineamenti.
Forse vederlo, fu l'unica cosa che mi fece rinsavire anche solo per poco. L'unica cosa che mi diede ancora speranza, che mi convinse che valeva ancora la pena vivere. L'unica cosa che mi rimaneva, era lui.
Si avvicinò cautamente a me, e con la mano mi sfiorò una guancia bagnata, delineandola fino al mento. Poi si sedette al posto di mia madre, senza smettere di guardarmi. Provai a parlare, ancora, ma non ne uscii niente. Il mio viso era una totale smorfia di dolore, che non sopportavo. Strinsi le palpebre, per scacciare altre lacrime.
Sentii la sua testa vicino alla mia, il suo fiato sulla mia guancia, la sua presenza vicino a me. Sentii le sue mani, attorno al mio ventre. Mi fecero sentire più sicura, protetta, anche in quel momento orribile.
Fu allora che mi lasciai andare davvero. Il dolore mi stava paralizzando, e io lo feci invadere tutta me stessa. Presi a singhiozzare, in modo forte. Le sue braccia mi strinsero di più.
Fu così che passai il resto della notte, abbracciata a lui, stretta.
Lo passai con la sua dolce voce, che cercava di tranquillizzarmi.
Lo passai col suo respiro vicino al mio.
Lo passai con l'unico uomo che avessi mai amato davvero, il padre della mia bambina.
Lo passai con Niklaus.
  
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