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Autore: ellephedre    19/01/2012    13 recensioni
Il 19 gennaio 1991 Usagi Tsukino frequentava la prima media e aveva 12 anni. E tutti gli altri? Una raccolta di scene riguardanti i personaggi di Sailor Moon e Verso l'alba, storia di mia invenzione. Usagi, Ami, Rei, Makoto, Minako, Haruka, Michiru, Hotaru, Mamoru, Yuichiro, Alexander Foster, Shun Yamato, Gen Masashi e... Sorpresa :)
Una scena per tutti.
Genere: Commedia, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro Personaggio, Inner Senshi, Nuovo personaggio, Outer Senshi, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
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19 gennaio 1991 - Note iniziali importanti: Ora la storia è completa in un solo capitolo.

19 gennaio 1991
 
Autore: ellephedre
 
Disclaimer: i personaggi di Sailor Moon non mi appartengono. I relativi diritti sono di proprietà di Naoko Takeuchi e della Toei Animation.

Note: la data sta solo a significare il giorno di pubblicazione, quello in cui mi è venuta questa idea, con lo scopo di (provare a) pubblicare per millesima nella sezione Sailor Moon :D Se non ce l'ho fatta, va bene lo stesso.
E ora... che cosa succedeva ai nostri il 19 gennaio del 1991?
 



Usagi Tsukino, sesta elementare, 12 anni.

Ventidue in Matematica, sottolineato tre volte in rosso.
"Naru-chan, non voglio andare a casa!"
Si fece tirare per il braccio che quasi spariva nel cappotto brutto della scuola.
Se possibile Naru era anche più affranta di lei, ma non mollò la presa.
"Usagi-chan, non hai scelta! Dove vuoi andare, non puoi scappare via!"
Scappare lontano la faceva sentire come di notte, quando si svegliava da un incubo.
"La mamma mi butterà fuori! Le avevo promesso che all'ultimo anno mi sarei impegnata, invece..." Scoppiò a piangere.
Era arrivato gennaio e lei era peggiorata in matematica, sempre di più, come una poveretta buttata giù da una torre di montagne russe sempre in discesa. O erano tutte così le montagne russe? Chisseneimportava! "Mi picchierààà!"
"Non fare così, Usagi." Naru la strinse forte, nascondendola in un abbraccio profumato di shampoo. "Devi solo impegnarti di più la prossima volta, prometto che ti aiuto io!"
Anche la maestra o la mamma avrebbero dovuto aiutarla come Naru. "Sei un'amica." La migliore che avesse al mondo, come sarebbe sopravvissuta senza di lei?
Naru lasciò scivolare le mani dalle sue spalle, assicurandosi prima che lei potesse reggersi in piedi da sola. Affondò solo in quel momento.
"Potremmo chiedere aiuto a Gurio-san..."
Ahh, quello non era un suggerimento da amica!
"Con quegli occhialoni mi fa paura."
Gurio sbucava dagli angoli dei corridoi, piccolino e curvo, per guardarla da lontano. Forse voleva fare amicizia con lei?
"Dai, Gurio Umino è solo un bambino. Prende ottimi voti in matematica e credo che tu gli sia simpatica."
Lei stava simpatica a tutti, era l'unica cosa che le riusciva bene.
"Come vuoi tu..." Affondò la testa nella sciarpona rosa che le aveva comprato la mamma. Odorava di conforto.
"Andiamo, Usagi. Sai qual è il tuo problema? Tu ti arrendi troppo presto. Per questo parti piena di speranze e poi finisci male."
"Ancora non è finita!" protestò lei. "Mancano due mesi alla fine dell'anno, riuscirò a recuperare questo cattivissimo ventidue!" Costi quel che costi!
"Così si parla!" Naru spalancò la bocca e i suoi occhi presero a brillare come davanti ad una torta a sei strati. "Usagi" bisbigliò cospiratrice. "Guarda quel ragazzo quant'è carino!"
Furtiva, Usagi buttò gli occhi sulla preda. Il suo battito accelerò a mille.
"Wow, hai ragione!" Il ragazzo era straniero e carinissimo! Coi capelli quasi biondi, che erano troppo rari in Giappone! "E che bella divisa!" Con la cravatta a righe azzurra e blu e la giacca scura. Alcune scuole avevano divise meravigliose. Ecco, doveva pensare alla divisa per impegnarsi ai prossimi esami! Se fosse entrata alla Juuban avrebbe indossato anche lei quella carinissima marinaretta blu col fiocco rosso!
Naru aveva fermato di colpo la sua avanzata verso il piazzale in cui si trovava il ragazzo: stava guardando la targa posta fuori dalla scuola.
"Oh, questo è un istituto privato!" Si voltò con uno scatto. "Noi non possiamo nemmeno permetterci di guardare questi studenti! Usagi, andiamo a giocare ai videogiochi, sarà più divertente!"
Videogiochi! Sìì, al Crown! L'avevano appena aperto e c'era un commesso simpaticissimo che le trattava sempre bene. "Voglio giocare al nuovo gioco di Street Fighter II! Si può impersonare Chun-li!"
"Yay! Chun-li mi è sempre piaciuta, andiamo!"
Corsero via.


Alexander Foster, seconda media, 14 anni.

Nello spiazzo della scuola, Koizumi della seconda F lo stava squadrando pensierosa.
"Non hai freddo senza cappotto?"
"No" sospirò lui, stringendo le spalle nella giacca leggera della divisa. Fatta per me, aveva pensato la prima volta che l'aveva indossata.
"Non ho tempo da perdere, Yamato mi sta aspettando. Hai qualcosa da dirmi?"
"Sì" balbettò lei, abbassando gli occhi.
Alexander odiava le persone che non avevano il coraggio di guardarlo in faccia.
"Si tratta di una faccenda delicata..."
Ne dubitava: con lui non c'entrava alcuna faccenda delicata. Inoltre, per le ragazze della sua età 'delicato' era ricevere un'occhiata storta da uno che nemmeno le calcolava, magari un tizio di cattivo umore perché quel giorno sua madre lo aveva sgridato per non aver fatto i compiti.
Ragazzini, pensò disgustato. Perché diavolo aveva accettato di ascoltare quello che aveva da dirgli Koizumi?
Era troppo gentile, ecco la verità. Colpa di Nanny Shoko.
Koizumi aveva smesso di tormentarsi le mani.
"Volevo dirti che penso di aver capito il tuo problema e... puoi fidarti di me, me ne starò in silenzio."
"Di che parli?" Alexander incrociò le braccia e represse un brivido di freddo: in futuro non avrebbe più finto coraggio davanti alle intemperie.
"Sai" proseguì Koizumi, gli occhi fissi sui propri piedi. "Tutto il tempo che tu e Yamato passate insieme..."
... e quindi?
Shun Yamato era il suo unico amico in tutta quella scuola, con chi altro avrebbe dovuto passare il suo tempo? Con lei, per caso?
Damn, Koizumi non si rassegnava proprio: le aveva già detto che non voleva uscirci insieme. La stessa cosa valeva per tutte le altre ragazzine che gli sbavavano dietro. Stupide. Mancavano solo un altro annetto all'inizio del liceo, lui si sarebbe trovato una fidanzata solo lì. Una bella ragazza - si poteva permettere la migliore - magari più grande. A partire dai sedici anni le donne avevano tanta di quell'esperienza...
O forse avrebbe potuto cominciare a frequentarle prima? Come studente di terza media non lo avrebbero più considerato un ragazzino, no?
"Volevo dire..." Koizumi si raddrizzò. "So cosa stai nascondendo. Ne abbiamo parlato in classe con le altre, ma io ho cercato di nascondere il tuo segreto, ho detto che mi avevi baciata."
WHAT? "Che diavolo ti sei inventata?!"
"So che ti piacciono i ragazzi!" gridò lei.
Alexander sentì la mascella franare a terra, l'impatto col suolo una botta tremenda per quattordici anni di orgoglio maschile.
"Non ti devi vergognare. Yamato è così carino, ti capisco..."
"A me piacciono le ragazze!" Lui non era- non era-... Argh, non riusciva neanche a pensarlo! "Dicono in giro che io sono..." Fremette. "È una bugia!"
Koizumi si era rannicchiata. "È solo che tu non hai mai avuto una fidanzata..."
"Come la metà degli idioti di questa scuola!"
"Ma sei così bello..."
Adesso la uccideva. "Ho una bella faccia che tu non potrai mai sognarti di toccare, ma questo non ti dà il diritto di-"
"Uhei, esagera ancora un po' nel lodarti, mi raccomando."
Yamato, che rideva dietro di lui.
"Tu non hai idea di cosa è venuta a dirmi questa! Crede che io e te stiamo- stiamo..." Non riusciva a dirlo!
Koizumi non ebbe i suoi stessi problemi. "Veramente tu e Foster non state insieme?"
Yamato rimase paralizzato.
Oh! Finalmente si sarebbe arrabbiato anche lui e insieme sarebbero andati a dire a tutta la scuola che erano un branco di invidiosi e insulsi-
"HAHAHAHAHAHAHA!!!!!!!!!!!!"
Rimase di stucco: Yamato si era piegato in due dalle risate.
"Non ti fa arrabbiare?!"
Koizumi approfittò della confusione per scappare.
"HAHAHAHAHAHA!!!!!"
Alexander sentì che la rabbia iniziava a bollirgli il cervello. "Falla finita! Che cosa ci trovi da ridere?!"
"Cavolo!" Yamato continuava a tenersi la pancia. "E chi sarebbe stato l'uke? Tu, di sicuro!" Esplose in una nuova risata.
Per la testa gli era passata l'idea dell'assassinio di Koizumi, ma adesso stava per privarsi del suo migliore amico: morte per asfissia. "Cosa diavolo è un uke?"
"Davvero non lo sai?" Yamato aveva ripreso un contegno. Si batté il petto con le mani. "Già, tu non hai sorelle. Ad Asuka piacevano i manga yaoi, quelli dove... beh, almeno questo lo sai. In quelle storie tra uomini l'uke è... la donna."
Alexander chiuse gli occhi, deglutì e strinse i denti. "Ti ricordi quando ci siamo promessi che non ci saremmo mai più picchiati, che quella prima volta sarebbe stata l'ultima?" Ebbene, stava per violare la promessa.
Yamato si era ricomposto. "Non fare il bambino, Fox, è solo uno scherzo. Se vuoi dimostrare in giro di essere un uomo, smetti di rifiutare tutte le ragazze che vogliono uscire con te."
"Non ne ho voglia! Non mi interessa cosa pensano di me, basta solo che non vadano in giro a dire che sono gay!"
Yamato alzò gli occhi al cielo. "Farò il sacrificio per entrambi. Uscirò io con una ragazza."
Cosa?
"Sai Ritsu della terza A? Oggi ci ho parlato, non è male. Carina, con un bel paio di-" Yamato si riempì le mani di due forme d'aria. "Anzi, per dar prova di quanto sono diventato uomo e grande, questo pomeriggio ti mollo e vado a vedere cosa combino con lei."
Che idiozia. "Andrò a vedere il film di quel cannibale anche senza di te." Erano settimane che volevano andarci entrambi e adesso gli dava buca?
"Possiamo andarci domenica, sweetie, non prendertela."
Alexander gli mollò un calcio che Yamato schivò per pochi centimetri, ridendo.
Traditore.
Un amico che diventava stupido, una scuola di idioti e lui...
Sospirò. Voleva crescere. Le superiori non gli interessavano veramente, ma una volta che avesse avuto l'età per andare all'università sarebbe stato finalmente libero. Sarebbe andato all'estero, nemmeno sua madre avrebbe potuto impedirlo. E Yamato... beh, si sarebbero sentiti al telefono: i veri amici non si abbandonavano mai.
"Ridatemelo!"
L'urlo acuto quasi gli spaccò i timpani. Davanti al cancello stava passando un gruppo di ragazzine che correvano, bimbe delle elementari con la divisa di un altro istituto.
Una ragazzina dai capelli neri acchiappò un'altra per il collo del cappotto, buttandola a terra.
"Questa è roba mia, impara l'educazione!"
"Hino-san, non picchiarla!"
Stufo di guardare, Alexander se ne tornò in classe a recuperare il cappotto.


Rei Hino, sesta elementare, 12 anni.

"Se hai il coraggio di ripetere quello che mi hai detto davanti a tutti..." sibilò Rei, "fallo di nuovo! Qui, ora!"
Aveva una guancia graffiata e la gonna sporca di terra, ma si rifiutò di indietreggiare davanti a quelle tre sciocche. Avevano osato rubarle un talismano per gioco - erano oggetti sacri! - e si erano permesse di prenderla in giro per tutto il giorno, solo perché erano più grandi. Nessuno le metteva i piedi in testa!
"Siamo tue senpai, Hino-san!"
"Non mi importa! La prossima volta dovete lasciarmi in pace!"
"Va bene, va bene!" Saito tirò su la sua amichetta Kazuno, trascinandola fino a rimetterla in piedi.
Rei sfoderò il talismano che aveva recuperato, forza quieta che vibrava nelle sue dita. Se solo quelle ignoranti avessero saputo.
"Non oserete dire che vi ho picchiate fuori dalla scuola! Siete state voi a colpire prima me!" E solo perché le aveva insultate di rimando! "Sapete cosa c'è scritto su questo talismano?!"
Saito, Kazuno e la loro terza tirapiedi, atterrite tutte e tre, scossero rapidamente la testa.
Era un vantaggio saper leggere gli antichi kanji. "C'è scritto maledizione! Ne lancerò una su di voi se vi azzarderete di nuovo a-"
"Addio!" gridò Kazuno, scappando a gambe levate.
Le sue amiche la seguirono a ruota.
Rei rimase sola in mezzo al marciapiede, misera nella propria fierezza. Si abbassò a raccogliere la cartella gettata a terra e il bruciore alla guancia tornò a essere il suo primo pensiero. Ahia. Doveva trovare una fontana.
Avanzò senza meta.
E quelle sarebbero state le sue prossime compagne di scuola? Che delusione! Erano tutte così? Solo stupide ragazzine che tramavano alle spalle degli altri, giusto perché non avevano niente di meglio da fare?
Rei Hino, la strega.
Questo era venuta a dire Iori Kazuno nella sua classe all'ora di pranzo, spostandosi persino di istituto pur di mettere in atto la sua assurda strategia di potere: lottava per ottenere il titolo di 'regina della scuola media' e non le era andato giù che una matricola non ancora arrivata mettesse in discussione la sua popolarità. Rei aveva avuto l'unica colpa di essere bella, altera e troppo popolare suo malgrado; aveva fatto faville all'ultimo festival scolastico, divertendo persino le rigidissime insegnanti suore coi siparietti comici di cui aveva curato personalmente la regia. Kazuno aveva pensato bene premunirsi in tempo contro la sua prossima rivale, ma non le sarebbe servito a nulla.
Ti surclasserò, vedrai.
Rei Hino sarebbe diventata la regina dell'istituto femminile T, era un giuramento di sangue!
Non per niente, sospirò, le sue nocche erano macchiate di rosso.
Ahia.
Vide di sfuggita un trampolo di ragazza.
Magari anche lei sarebbe diventata presto più alta. Non aveva voglia di picchiare di nuovo qualcuno, ma un po' di stazza in quei casi risultava sempre utile.
Devi essere una signorina, le raccomandava sempre suo nonno.
Aveva ragione lui. Non doveva più abbassarsi a simili livelli.
Si diresse a casa.


Haruka Tenou, terza media, 14 anni.

Quel giorno - per la prima volta da quando ricordava di essere diventata grande - Haruka camminava per strada sentendo l'aria tra le gambe.
Indossava una gonna a quadri che si meritava due sputi: uno per essere orribile, un altro per ciò che rappresentava. Femminilità, obbedienza - sii mite, sii tranquilla, le ragazze non vanno in moto, non si mettono sempre i pantaloni e insomma stai dritta e ascolta in silenzio!
Haruka digrignò i denti e si impose dignità. Mancavano due chilometri all'appartamento che era costretta a chiamare casa. Solo altri duemila metri in cui sentirsi una ridicola caricatura di se stessa e poi sarebbe stata libera.
'Se lo faccio, sapete che mancano otto giorni al mio compleanno: il regalo che mi farete sarà buttarmi fuori di qui e farmi tornare in America.'
Oh, non le avevano creduto quando aveva lanciato quella sfida, ma lei era disposta a tutto. Odiava vestirsi da donna e loro lo sapevano bene; per questo aveva accettato di indossare la divisa femminile per un giorno solo: per dimostrare che li detestava più del suo essere nata femmina. 
Sfoderò un calcio ad un palo e non gliene importò nulla delle mutande in vista o del dolore al piede. Il tubo di cemento fu Kazeki, il compagno di classe che fino al giorno prima aveva tremato di fronte a lei, solo per azzardarsi a ridere quando l'aveva vista entrare in classe con la gonna quella stessa mattina.
Peccato che non si potessero picchiare le ragazze - che lei non avesse alcuna voglia di farlo - poiché erano state loro a ferirla più di tutti: appena avevano visto la gonna, dai loro occhi era sparita l'infatuazione che avevano coltivato nei suoi confronti per mesi, i rossori nel solo incrociare il suo sguardo, l'ammirazione per la sua forza. Che fosse una ragazza l'avevano sempre saputo, ma almeno loro l'avevano sempre considerata... un maschio. Come un maschio, non un essere inferiore destinato a farsi valere per il suo aspetto, per le sue buone maniere, per la sua capacità di essere schifosamente discreta.
Era sicura di non volere un dannato pene, voleva solo rispetto e poter entrare in un circuito sapendo che nessuno - non un'anima - si sarebbe azzardato a rifiutarle una moto perché, diavolo, le ragazze no.
Tremò senza riuscire a controllarsi.
Era sempre arrabbiata, dannazione, il Giappone le aveva portato solo amarezza e rabbia.
Per sopravvivere doveva tornare in America, là dove c'era una Haruka che portava i pantaloni senza rimproveri, senza frecciate, senza istituzioni scolastiche che chiamavano i suoi tutori per chiedere 'E questa studentessa, che problemi ha?'
America era casa, America era una se stessa libera che non giudicava le donne inferiori perché costretta ad essere come loro. Le donne non erano inferiori, erano... diverse. Lei era una donna diversa che non voleva più sentire nessuno che le diceva come comportarsi, cosa provare, cosa diventare.
Prese a correre.
Altri millecinquecento metri, calcolò. E poi avrebbe avuto in mano un biglietto di sola andata per la sua amata America.
E là vedrò tanto ragazzine bionde come quella, rise, e le troverò dolci, le troverò accettabili, perché io e loro non saremo mai uguali.


Minako Aino, sesta elementare, 12 anni.

"Tesoro..." Sua madre tolse la cintura di sicurezza e si voltò sul sedile. "Vuoi restare, vero? Puoi dirlo in qualunque momento, non devi avere paura."
Macché paura! Per tenerla in Giappone avrebbero dovuto legarla alla pista dell'aeroporto. E  se ci avessero provato lei avrebbe spezzato le catene, novella Wonder Woman bionda pronta a conquistare il mondo.
Cercò di sorridere, di sembrare carina e innocente. "Ti chiamerò, mamma."
"Guarda che sarà con me" commentò suo padre. "Non la sto portando in una capanna dell'Africa Nera."
"La stai portando via e basta! Che ti è saltato in mente di proporle di venire con te, non potevi restartene zitto e andare da solo?!"
Il suo papà si rannicchiò nel sedile, il volante tenuto a fatica tra le mani. Non lasciava mai guidare sua madre, diceva che era pericoloso.
"Ma abbiamo concordato insieme che per Minako sarà un'occasione unica per imparare l'inglese! È solo per qualche mese, dopo torniamo tutti e due!"
"Pochi mesi a questa età sono anni! Mi stai portando via la mia bambina, quando tornerà non si ricorderà nemmeno chi è sua madre! E nemmeno tu saresti dovuto andare! Ti pagheranno una miseria, ripetimi perché non ti sei licenziato?! Questo trasferimento è una catastrofe!"
"Questo lavoro mi piace! Anche se mi pagano poco dove lo trovo un altro posto in cui-"
Minako smise di ascoltare l'ennesima litigata. Un po' le dispiaceva lasciare sua mamma sola a casa, ma in fondo la colpa era dei suoi genitori: per quale motivo non avevano avuto un altro figlio? Lei era una sola e tra restare a casa in Giappone e andare a Londra con papà, dove c'erano i New Kids on The Block e il megaconcerto che avrebbero tenuto a marzo, beh... non c'era storia.
Ciao ciao, mamma. Londra, sto arrivando!
Aveva il papà migliore del mondo: non solo la portava a conoscere la città dei suoi sogni, ma le aveva anche regalato un walkman tutto suo. E ora lei poteva ascoltare tutte le canzoni che voleva.
Dopo aver riavvolto per intero il nastro della musicassetta, premette sul tasto play.
 
         Step by Step
         Oh baby
 
"Minako, togli quelle cuffie giganti dalle orecchie, ti rovinerai l'udito."
Lei mise in pausa solo per pietà. "Sì, mamma."
Tanto tra altre due ore avrebbe potuto fare come le pareva: con suo padre non c'era nemmeno battaglia, lui gliela dava sempre vita.
Sentì crescere uno sbadiglio gigante dentro il petto. Non era riuscita a chiudere occhio, aveva passato la notte a saltellare entusiasta per la sua stanza, contando i minuti che mancavano alla partenza.
Appoggiò la testa contro il sedile della macchina.
Chiuse gli occhi per un minuto.

"Minako... Minako!"
Sua madre la stava scuotendo per le spalle.
"Siamo arrivati all'aeroporto, in piedi!"
Oh, di già?
La percorse un fremito.
Erano arrivati!
Saltò fuori dalla macchina. "Yuhuu! Inghilterra, aspettami!"
"Minako, le valigie! Vieni a prenderle, ora che sarai da sola con tuo padre dovrai imparare a prenderti le tue responsabilità!"
Tante storie per tirare una valigia fuori dal bagagliaio? La andò a prendere lei stessa e se la caricò felice sulle spalle. Il peso e una giravolta la trasformarono in una trottola umana. Un giro, due giri... Adesso si fermava, vero? Nooo. "Aiutoo!!"
"Caro, fa' qualcosa!"
"Ci provo!"
"AIUTO!"
Abbatté i suoi genitori a colpi di Samsonite e crollò a terra, la valigia che volava per aria.
Le parve di sentire un urlo, poi vide solo una sagoma bianca che fuggiva dal punto di impatto. Una macchina frenò di colpo e il rumore di gomme che bruciavano l'asfalto le fece temere il peggio: l'avrebbero accusata di omicidio? Era troppo giovane!
La valigia rimbalzò davanti all'auto e rotolò di lato.
Wow.
Non si era nemmeno aperta! La pubblicità non aveva mentito, il materiale era davvero indistruttibile!
Sua madre sembrava uno spaventapasseri con la bocca spalancata: le si era sciolta la coda e aveva i capelli sparati per aria.
"Te la porti in Inghilterra in una bara!" Scattò in avanti.
"AHHH!"
 
Il suo piccolo cuore di gatto non era fatto per simili choc.
Nascosto sotto un auto, Artemis contemplò il pensiero della sua quasi morte e i piedi delle due pazze che correvano in giro per il parcheggio sotterraneo dell'aeroporto.
Osò sbucare con la testa da dietro una ruota.
Oh no.
Capelli biondi fluenti, occhi blu, agile come una gazzella. Le mancava solo il fiocco rosso sulla testa, ma quella era lei: la futura Sailor Venus, la ragazza che lui aveva il compito di proteggere.
La marmocchia arrivò a saltare coi piedi sopra il cofano di una macchina pur di scappare dalla madre. Lì, accennò ad un balletto beffardo.
Oh no.
Era condannato.

 
Michiru Kaiou, terza media, 14 anni.
 
"Cielo, siamo arrivati nel pianeta delle scimmie!" commentò Fumie.
Michiru la sentiva pronunciare banalità con frequenza imbarazzante, ma si ritrovò d'accordo con lei per una volta: non aveva mai visto una persona che camminava sopra una macchina. A dare spettacolo era una ragazzina, ben oltre l'età in cui il controllo poteva essere dimenticato.
"Che selvaggia." Fumie si compiacque del proprio disgusto.
Michiru osservò i capelli di sole della bambina bionda, fili di grano brillante che svolazzarono in aria quando la madre la tirò giù.
Bambina selvaggia, indomita.
In tale misura, erano qualità di cui vergognarsi?
A volte sarebbe piaciuto anche a lei tornare ad una primitiva condizione di istinto: travolta dalla potenza delle acque, si era comportata come tempesta e maree da bambina, il resto del mondo abitato da sudditi costretti a inchinarsi alla sua volontà, suo padre per primo.
Imparare a controllarsi le aveva permesso di farsi umana, padrona di se stessa. E serva di altri.
Ora che sapeva di poter vincere contro la propria rabbia, forse non avrebbe più dovuto controllarla. Cosa sarebbe accaduto se si fosse alzata in classe e si fosse messa ad urlare come una folle? Non l'avrebbero più considerata mite e altera, studentessa e fanciulla perfetta?
Non me ne può importar di meno.
Sbagliato, aveva scoperto di essere prigioniera, dopotutto. Non aveva alcun desiderio di rovinare la pace che si era costruita e proprio perciò non avrebbe fatto nulla per dimostrare che lei non era solo grazia di lago e bellezza di pioggia. Parole delicate inventate da Arumi, la sua compagna di stanza al collegio.
Già, al collegio qualcosa di buono c'era. L'arte.
Si diresse assieme alle altre verso l'autobus che le avrebbe portate all'auditorium di Tokyo.
Beethoven, ti renderò onore.
 
Il suo pubblico erano pochi professionisti, un centinaio di studenti di scuole medie e superiori che accompagnavano i membri dell'orchestra di talenti e, infine, quattrocento studenti delle scuole elementari, bambini a cui la musica poteva aprire pianeti inesplorati.
Inchinandosi davanti a loro sul palco, Michiru pensò solo alle piccole anime che sarebbero entrate in contatto con lei. Sistemò il violino sulla spalla e guardò fisso il direttore d'orchestra, piccolo uomo calvo dalla pancia prominente, un professore insoddisfatto.
Ti prego. Non pregava, non chiedeva mai per favore, ma la musica la trasformava in un'ammiratrice adorante e umile. Ti prego, inchinati alle note, lasciati travolgere.
Il direttore salì di fronte al leggio e incontrò il suo sguardo.
Si intesero. Anche le prove meritavano anima e cuore.
L'uomo picchiò l'aria e tirò indietro le braccia, tremando.
Michiru si abbandonò alla quinta sinfonia di Beethoven, primo movimento. Con lei, sul palco, cadde nell'incantesimo un'intera orchestra.

 
Hotaru Tomoe, seconda elementare, 8 anni.
 
Nuovi Talenti in Classica, pomeriggio di prove.
Aveva fatto tanta fatica a leggere il foglietto che le avevano dato le maestre, ma ora le veniva solo voglia di piangere.
Che musica bellissima, terribile.
Voleva scappare via da lì, andare lontano, lontanissimo.
Ho paura, signora maestra. Questa musica grida, batte i piedi, succede anche a me!
Era troppo difficile fermarsi quando era spaventata, sveniva! Poi non era colpa sua se... se...
"Maestra!"
No!
"Maestra, Hotaru-chan sta tremando di nuovo!"
No, no!
Accanto a lei Michie cercò di scappare saltando sopra Kurumi.
"Hojo, rimani seduta! Silenzio tutti, buoni!"
Il bisbiglio della maestra fu fortissimo. Hotaru la sentì sollevarsi dalla fila dietro di lei.
"Hotaru-chan!" sussurrò. "Cosa c'è?" Cominciò a massaggiarle le spalle.
Ho paura, ho paura! Ma non aveva il coraggio di dirlo!
"La musica ti spaventa?"
Sì! annuì.
"Hotaru-chan, la musica ti sta solamente parlando, non senti?"
No! Urla, mi chiama!
"Guarda, su, guarda. Vedi quella bella ragazza coi capelli ondulati? Guarda come suona il suo violino, vedi?"
Signorina dell'acqua, sicura di sé, lei sarebbe mai diventata tanto bella?
"Quel violino non è un'arma" sorrise la maestra.
Non capisci, pensò Hotaru.
"Il violino, la viola, la tromba, tutti gli strumenti... senti cosa creano insieme. Sai che questi ragazzi si sono allenati moltissimo per suonare questa sinfonia? Ognuno per conto proprio e ora sono qui che suonano per noi."
Continua a sussurrare. Voleva qualcuno vicino, far andare via le voci, il tremore, l'altra.
La colpì una nota. Due note, venti note.
Spalancò la bocca.
"Sì, questo è un bel pezzo, vero? Ce la fai ad ascoltare tranquilla?"
Hotaru non le rispose.
La signorina dell'acqua e tutti gli altri stavano suonando... una lotta.
Chi vinceva?
Io, vero, io?
Alzò le gambe sulla poltroncina - anche se non si poteva - e provò ad essere coraggiosa.
Rimase ad ascoltare.
 
Gen Masashi, prima superiore, 16 anni.
 
Stava andando troppo oltre?
La bocca di Mori agguantò la sua e spense per un momento la domanda; erano labbra che sapevano di rossetto alla fragola - troppo dolce - e semplicemente di ragazza; quell'ultimo era il sapore preferito di Gen.
Era forse colpa sua se lo avevano trascinato a vedere il concerto di Aoki, genio musicista incompreso della classe? No.
Era colpa sua se il professore li aveva piazzati tutti nell'ultima file dell'auditorium? No.
Era colpa sua se Mori lo aveva trascinato via, dietro un paio di tende, per un'anteprima del piatto prelibato che gli avrebbe offerto più tardi? No, quello piuttosto era un merito che si era guadagnato con una settimana di intenso corteggiamento.
In ogni caso, sarebbe stata di certo colpa sua se il professore li avesse beccati.
Con che faccia sarebbe tornato a casa, a guardare suo padre e sua madre? Gli avrebbero proibito di uscire la sera per un mese, c'era poco da scherzare.
"Ascolta..." Prese la faccia di Mori tra le mani, fermandola. "Se ci scoprono..."
"Oh, andiamo..."
Diavolo, quel tono di voce... Sussultò. No, a farlo morire davvero sarebbe stata la mano di lei, premuta là sotto, proprio .
"Non fare il bambino."
Eh no. "Sono un bambino a nascondermi qui dietro." Si sentiva anche indecente: la sala era piena di ragazzini.
"Noo, mi farai aspettare fino a stasera?"
Le tende spesse mantenevano il buio attorno a loro, ma Gen immaginò perfettamente l'espressione di Mori, il broncio da scolaretta infelice con cui sperava di ottenere qualunque cosa da lui. Quell'espressione non lo eccitava neanche un po', ma per dirlo a lei era meglio aspettare il giorno successivo.
"Andiamo in quell'hotel" le sorrise, portandosela contro. "Ho risparmiato, te l'ho detto. Lì dentro io e te faremo cose che..." Cominciò a descriverle.
Un sospiro spezzato lo paralizzò.
Le tende accanto a loro si agitarono da sole e sotto un filo di luce si intravide un'ombra che scappava. Una ragazzina.
Mori scoppiò a ridere e lui le tappò la bocca con la mano. "Shhh!" Premette forte sulla sua schiena e si inginocchiò assieme a lei, due stupidi che giocavano a nascondino. "Basta! Torniamo a posto, ci vediamo dopo!" La mollò lì, in mezzo al corridoio dietro l'ultima fila.
Mori sarebbe tornata pregando, non aveva dubbi: lei adorava ricevere ordini. Lui invece adorava le proprie serate di libertà: passino i sessanta in letteratura giapponese e i cinquanta rosicati in inglese, ma suo padre lo avrebbe distrutto se fosse stato mandato in presidenza. Non gli era mai capitato in tutta la sua vita di studente medio-decente e non avrebbe certo cominciato ora. Per il sesso non era l'ora giusta.
Mentre tornava al suo posto, accovacciato, guardò dietro di sé.
Forse aveva traumatizzato per sempre una povera ragazzina.
 

Makoto Kino, 13 anni, sesta elementare.
 
Che schifo!
Corse fuori dalla sala.
Era a questo che doveva aspirare diventando grande? Perversioni da adulti maniaci?!
Un tizio provò a fermarla, ma lei lo liquidò con un salto lungo e scappò fuori, in strada.
Sì, stava scappando dai professori e allora? Stava dicendo basta!
Perché doveva starsene chiusa lì dentro? A cosa serviva la musica? Oh, a crescere, a farsi una cultura, era importante e bla bla BLA! Idiozie! La verità era quella che nessuno aveva il coraggio di dire in faccia alla gente: "Continuate ad imparare, tanto serve solo fino a che campate!"
E poi moriranno i tuoi genitori, e poi tua nonna e tu te ne starai lì tutta sola, a ripetere l'anno come una fallita.
Si accasciò in mezzo alla strada, le gambe che non smettevano di crescere sempre più difficili da piegare.
E poi diventerai un gigante e non piacerai mai a nessun ragazzo.
Affondò la testa tra le ginocchia.
E poi sarai per sempre tutta sola.
Soffocò i singhiozzi nella gola e si alzò, scattò, corse.
Via da tutto.
Ecco cosa avrebbe fatto. Avrebbe corso sempre in avanti, sempre lì, dove stava il monte Fuji. Non si sarebbe mai fermata, sarebbe tornata a casa, sulle montagne verdi d'estate e bianche d'inverno, dove sua madre le avrebbe sistemato i pantaloni rotti e suo padre l'avrebbe presa in braccio.
Sono ancora piccola, vero?
È ancora tutto come prima, giusto?
Attraversò la strada col rosso - clacson, frenate - e sbucò in un parco. Lì corse ancora più forte e lo fece proprio apposta, sbatté di proposito con la gamba su un ferro giallo.
La botta la fece volare in avanti.
Il suo corpo traditore si piegò su se stesso e rotolò sulla schiena, come le avevano insegnato a karate.
"Che volo!"
La sommerse un gruppo di risate maschili.
Makoto non badò a loro, distesa al suolo guardò il cielo azzurro, senza nuvole.
Sotto di lei il terriccio era freddo. Il gelo si insinuava nello scollo della divisa, sotto la gonna. Scappare senza giacca non era stata... No, invece: era stata un'ottima idea. Poteva lasciarsi andare lì, che bella tomba. Sarebbe andata a stare con nonna, con mamma e papà.
Cominciò a piangere. Anche se tu non volevi, nonna, lo so!
"Senti questa ragazzina come frigna!"
La tirarono su due paia di braccia, due persone diverse. La posizione verticale fu uno choc.
"Non me ne frega niente delle tue lacrime, sai? Fuori la grana!"
Cosa?
"Per passare qui si paga pegno, capito? Fuori la grana, sei sorda?"
No. E non era neppure cieca.
Era circondata da quattro ragazzi delle superiori, i capelli sporchi, le giacche rovinate. La stavano minacciando.
Oh, sì. "Soldi, avete detto?"
"Mille yen e te ne vai con le ossa intere. E siamo buoni, ti abbiamo fatto lo sconto!"
Esplosero in una risata comune. Lei si unì estasiata al coro.
Calò il silenzio.
"Facciamo che i vostri soldi me li prendo io." Roteò il corpo e sfoderò un calcio allo stomaco del suo primo avversario.
Rissa.

 
Mamoru Chiba, 15 anni, prima superiore.
 
Di solito se ne stava zitto e buono, ma aveva imparato che doveva farsi sentire per essere un vero adulto. Voleva sapere come mai al parco c'erano un'ambulanza e un'auto della polizia, perciò... perché non chiedere?
Si schiarì la gola e si sporse in avanti. "Che cos'è successo?"
Un tizio con l'aria da impiegato - occhialini e cartella alla mano - si voltò a squadrarlo. Lo ritenne degno di una risposta. "Niente, una rissa tra disadattati. Ragazzini, è coinvolta persino una ragazza. Credo che l'abbiano aggredita, ma l'ambulanza è venuta a curare loro."
In mezzo al gruppetto c'era una ragazzina alta che andava sbraitando in giro. La sua coda si agitava come quella di un cavallo impazzito.
"Che bisogno c'è della polizia?!"
Un paramedico stava cercando di farla stare seduta.
In mezzo al pubblico che si era formato, Mamoru udì il ghigno di una signora.
"Ve lo dico io, è stata la ragazzina. Li ha suonati, ma non ha rotto loro niente, è stata furba. Vi dico che ha fatto bene, questi ragazzacci stavano diventando il terrore del quartiere."
Mamoru sorrise e si allontanò dal gruppo.
A volte si dimenticava che esistevano anche realtà come quella: ragazzi che non sapevano cosa fare della propria vita e si mettevano a rubare, a picchiare passanti, a terrorizzare il prossimo.
Lui era convinto di un semplice fatto: i guai bisognava andarseli a cercare.
Per esempio in prima persona non gli era mai capitato di litigare. Alle medie qualcuno aveva cercato di attaccar briga, studenti più grandi invidiosi del nuovo secchione che li faceva sembrare ignoranti, ma per Mamoru era stato semplice ignorarli: erano solo patetici bambini. E lui non era un secchione, bensì un futuro medico: le vite umane non erano uno scherzo, era doveroso impegnarsi nello studio. Come avrebbe fatto a studiare genetica in lingua inglese altrimenti? E senza la matematica, come avrebbe potuto leggere i risultati delle analisi di laboratorio?
Non aveva ancora scartato l'idea di dedicarsi alla ricerca, era incerto. Ma era determinato, questo era il suo punto di forza; in caparbietà non lo batteva nessuno e anche il prossimo obiettivo che si era prefissato sarebbe stato suo.
Voglio una casa mia.
Gli permettevano di andare in giro dopo la scuola, credendolo impegnato in un club. Lui invece passeggiava per Tokyo, alla ricerca della zona ideale in cui abitare. Minato-ku era interessante: aveva adocchiato il quartiere di Juuban, con i suoi piccoli ristoranti e take away - così da avere sempre pronto da mangiare - con i suoi cinema, i suoi negozi - posti in cui svagarsi - e poi... un po' di verde, qualche parco. Tanta pace, sostanzialmente.
Mamoru-san, pensi come un vecchio.
La signora Mamie della casa famiglia allargata glielo diceva spesso, invitandolo ad essere più allegro. Lui si scopriva sempre più spesso a volerle rispondere a modo.
Penso come mi pare, sono fatto così.
Ma vedeva abbastanza telefilm da sapere che era una risposta da figlio, da ragazzo che doveva ancora crescere e che sentiva il bisogno di affermare una propria identità con la maleducazione.
La signora Mamie non era sua madre. Non lo erano né Kazue-san né Hiroshi-san, perciò nessuna di loro era tenuta a sopportare il suo brutto carattere.
Lui era sereno soprattutto quando stava da solo. E quando stava coi bambini più piccoli, ovviamente. Loro gli sarebbero mancati.
Ma non sono la mia famiglia. Lo aveva imparato a sue spese, a colpi di realtà.
C'erano i bambini affidati, che restavano da loro per poche settimane. I bambini più grandi con genitori troppo poveri e violenti, che tornavano a casa dopo qualche mese, un anno.
Mamoru era contento quando andavano da nuove famiglie: immaginava per loro un futuro di grandi possibilità.
Lui era rimasto in quel posto per sua scelta, così grande da essere quasi un imbarazzo per l'istituto. Sapevano di doverlo mandare via, ma avevano parlato al giudice della sua situazione, di come quelle quattro mura e le persone che le abitavano fossero quasi una famiglia per lui - e ormai mancano solo due o tre anni, dopo potrà andare da solo nel mondo. Perché toglierlo dall'unico posto che considera suo?
Gli era capitato di sentire quella conversazione al telefono, per bocca di Mamie-san.
Lei gli voleva bene, ma solo di quell'amore che negli anni aveva offerto ad altri ottantadue bambini come lui; da quando era arrivato, Mamoru li aveva contati.
Lui non era speciale per Mamie-san, che aveva un cuore troppo grande per poter essere distrutto; se avesse considerato uno solo di loro come un vero figlio, non sarebbe mai riuscita a lasciare andare i bambini che aveva curato. Kazue-san aveva smesso di offrirgli carezze sulla testa, ma era una brava signora che teneva ai suoi studi, al suo futuro. Hiroshi-san... lei era la durezza della vita, una persona dall'animo inaridito che sorrideva raramente e svolgeva il proprio lavoro con dedizione e costanza, tre volte a settimana, da lunedì a mercoledì. Serviva i pasti, insegnava a fare di conto e puliva, limitandosi solo alle parole necessarie con tutti, adulti e bambini.
Ha perso due figli, gli aveva spiegato Mamie-san.
Mamoru a volte si sentiva più vicino a Hiroshi-san che a chiunque altro.
Anche lui aveva voglia di starsene solo in un angolo a rimuginare sull'infelicità della propria vita, ma a differenza di lei era uno stupido: anche se non aveva famiglia, la sua era una strada aperta.
Aveva solo alcuni passi da fare. Uscire dalla casa-famiglia - salutare tutti con un abbraccio, Mamie-san, Kazue-san, persino Hiroshi-san, almeno una volta - poi trovarsi un appartamento suo, avere dei vicini con cui parlare, una casa vera in cui invitare gli amici che si sarebbe fatto a scuola.
Doveva smetterla di starsene per conto proprio tutto il tempo.
In classe erano tanti a voler parlare con lui e, se sorrideva, le ragazze... beh, le ragazze non erano affatto male. Lui però non si sentiva ancora capace di controllare i propri ormoni ed erano gli stessi che producevano troppi spermatozoi attivi che avrebbero potuto fare di lui un papà precoce se non fosse stato attento. E come faceva a stare attento se non sapeva come si usava un preservativo?
Sospirò.
Le ragazze erano pericolose e complicate, meglio farne un capitolo a parte.
"Ehm, scusa?"
Sollevò lo sguardo. Un tizio gli stava mostrando una cartina.
"Scusa, sai dove ci troviamo?"
Era un turista, forse un universitario, anche se non sembrava tanto più grande di lui. Mamoru provò a togliergli di mano la cartina, ma l'altro glielo impedì cercando di piegarla.
"Aspetta, si fa così... e poi così..."
La risata improvvisa non lo fece ridere.
L'altro ragazzo notò il suo sguardo di rimprovero e deglutì. "Ecco, tieni."
Mamoru si prese la mappa, la distese e la piegò nel modo giusto al primo colpo, il riquadro con la zona in cui si trovavano in bella vista davanti a loro. "Siamo qui, al confine superiore di Juuban. Dove vuoi andare?"
"Da nessuna parte, stavo... girando un po' vuoto, facevo il giro di Tokyo." Il tizio gli offrì un piccolo inchino, un gesto che portò le loro teste alla stessa altezza.
Diventerò più alto di te, mi mancano solo un paio d'anni.
Il ragazzo lo fissò stranito. "C'è qualcosa che non va?"
"No."
"Beh, allora grazie del tuo aiuto."
"Di niente."
Si salutarono cortesemente e ognuno proseguì per la propria strada.

 
Yuichiro Kumada, 17 anni, seconda superiore.
 
Allora... doveva andare a Juuban, trovare la prima libreria disponibile e comprare una di quelle piccole guide della città di Tokyo che si era rifiutato di prendere circa due chilometri prima, finendo col perdersi nel reticolato urbano di vie sconosciute. Nemmeno Osaka era una città piccola, ma Tokyo era un labirinto al confronto.
Niente da fare, sospirò: le città non facevano per lui. La sua prossima gita avrebbe toccato la costa meridionale del Mar del Giappone: sole, mare e sano lavoro lo attendevano trepidanti.
Esatto, si ripeté. Gli mancava solo di dirlo alla sua famiglia.
Mancavano ancora due mesi alla fine dell'anno scolastico, ma si era ripromesso di introdurre il discorso con calma, provando a sondare il terreno.
Mamma, papà, Aiko, Meiko: ascoltatemi.
I loro occhi di fuoco lo avrebbero fatto sentire uno spiedino sulla brace.
Con un sorriso lui avrebbe provato a calmarli: Non ci penso nemmeno a fare un semestre di studio negli Stati Uniti, io me ne resto qui in Giappone, finisco le superiori e poi... e poi scapperò.
Okay, era andato troppo oltre.
Nessuno sapeva ancora che lui non aveva alcuna intenzione di andare all'università. Seguire le orme di suo padre e delle sue sorelle? Solo nei suoi incubi peggiori.
Tuttavia, se iniziava già ora a sfidarli, forse poi farsi valere con loro sarebbe stato più facile.
Mamma non mi sosterrà.
O meglio, sua madre lo avrebbe sostenuto standosene in silenzio. Aveva smesso di coccolarlo da diversi anni, troppo presto per i suoi gusti. Gli aveva detto chiaro e tondo più volte che se voleva opporsi a suo padre doveva farlo da solo.
L'opposizione che lui stava mettendo in atto quel giorno, riconobbe, era ridicola. Suo padre lo aveva trascinato di peso nell'aerea di Tokyo per fargli vedere come avevano allargato il nuovo stabilimento della Kazushi - di mattina, all'alba - e quindi gli aveva mostrato fiero l'aerea edificabile ancora vuota che avevano acquistato per i nuovi edifici amministrativi sempre della Kazushi. Avevano mangiato in un ristorante lì di fronte e per tutto il tempo Yuichiro aveva avuto in mente un'unica parola.
Aiuto.
Nel pomeriggio erano tornati in hotel, ma suo padre non lo aveva lasciato in pace.
Alle cinque vieni nella sala riunioni: farò un intervento per i direttori delle nostre società. Al termine, ti presenterò a tutti quanti.
Erano già le cinque e lui non aveva alcuna intenzione di tornare indietro.
Non si era mai messo contro suo padre tanto apertamente, in una maniera tutto sommato vigliacca, ma... giusta.
Non gli veniva mai chiesta un'opinione e quando provava a dire che lui non era d'accordo, che no, non era interessato, veniva preso per un idiota che non sapeva quello che stava dicendo, che doveva solo essere adeguatamente istruito sul proprio futuro, sui propri doveri.
Era ora di finirla.
Deglutì la rabbia e si guardò intorno.
Aveva camminato senza meta per almeno sei isolati.
Invece di tentare di nuovo una consultazione infruttuosa della mappa, chiese ad una ragazzina che aspettava l'autobus.
"Scusa, Juuban è da questa parte?"
Lei trasalì, tutta occhi blu e libri tra le mani.
"Ah... sì, da quella parte."
"Grazie."
"Di niente."
 
Ami Mizuno, 12 anni, sesta elementare.
 
Che sciocca che era. La mamma le aveva dato il permesso di andare al doposcuola da sola, non poteva avere paura di tutti gli estranei che le rivolgevano la parola.
Doveva solo prendere l'autobus che prendeva con la mamma, mettersi seduta in ultima fila e ripassare a mente le regole di geometria. Avrebbe consultato il libro di inglese, ma le veniva mal di testa quando leggeva dentro i bus.
Magari esisteva una medicina per curare quel malore?
Magari un giorno avrebbe potuto inventarla lei?
Ormai era una ragazzina grande, presto sarebbe entrata alle medie! La mamma le aveva detto che poteva tentare da subito il primo test nazionale, era aperto a tutti gli studenti sopra i tredici anni o frequentanti il primo anno delle scuole medie inferiori. Le dicevano in tanti che era molto intelligente, ma i complimenti non si misuravano in numeri: i test le avrebbero dato una reale misura del suo quoziente intellettivo, doveva impegnarsi.
Salì sull'autobus.
L'area di un triangolo è uguale alla base per la sua altezza diviso due, poiché un triangolo può sempre essere rappresentato come un quadrato a metà.
Soddisfatta, annuì.
 
L'area di un cerchio...
Il quadrato...
Seno e coseno...
Diede una sbirciata al suo nuovo libro delle medie. Le venne di mal di testa.
 
Passò a inglese, vocaboli.
 
Book, Math, Triangle, Circle...
Hand, Nails, Fingers, Skirt, Jumper, Jacket, Scarf, Hat, Wool, Wool hat, Nose, Eyes...
 
Si divertiva molto a guardarsi in giro e a cercare di ricordare i nomi di tutto ciò che vedeva.
Guardò anche fuori.
Street, School... School!
La sua fermata!
Si precipitò fuori dall'autobus. Riuscì a scendere un attimo prima che le porte si chiudessero sulla sua cartella.
Aveva quasi combinato un pasticcio!
Guardò l'orologio.
A ben vedere, era arrivata quasi con cinque minuti di anticipo. Pochi, certo, tuttavia... Sarebbe potuta entrare in classe, ma aveva un minuto di tempo per una cosa che non si permetteva di fare spesso con sua madre. Ora che lei non c'era... Attraversò la strada e si diresse al negozio di animali.
In vetrina c'erano sempre cuccioli carinissimi.
La mamma diceva che avevano una casa troppo piccola per prendere un gattino; anche se settantacinque metri quadrati ad Ami sembravano abbastanza per un esserino che occupava una superficie inferiore alla metà di un metro quadro anche da adulto, non protestava. Sapeva di essere ancora troppo giovane per prendersi la responsabilità di un animale tanto indifeso e bisognoso di cure, ma niente le impediva di bearsi della vista occasionale di qualche bel micino.
Quella sera, in vetrina, ne trovò quattro diversi.
C'erano un cucciolo arancione che giocava con una piuma, un gattino bianco raggomitolato su se stesso, un cucciolo grigio-tigrato che stava sbadigliando e... una cucciola col pelo blu, quasi nero.
Come i miei capelli.
La gattina la guardava fissa attraverso la finestra. Sulla fronte aveva una strana macchia priva di pelo, dalla forma di luna crescente.
"Che carina che sei."
Se fosse stata sua l'avrebbe chiamata... Moonie? Tsuki-chan?
"Mizuno-san!"
Ami si girò. Alle sue spalle stava l'unica amica che si era fatta al corso, Miku-san.
"Che fai qui, guarda che si fa tardi e non troviamo posto!"
Aveva ragione lei.
Ami rivolse un ultimo sguardo alla gattina. La trovò che si passava diligentemente la zampa sul muso, in un'attenta operazione di pulizia.
La salutò con un bacetto volante.
 
Luna, due mesi e venticinque giorni.
 
Sbadigliò.
Ragazza carina.
Si arrotolò su se stessa, cercando il calore dei fratelli gatti che non la capivano.
Però sono caldi.
Sbadigliò di nuovo.
Non era lei.
Si addormentò.
Sarà per una prossima volta.
 
FINE.



NdA: YAY!
Ce l'ho fatta a finire questa breve storia! Una volta che ho preso a scrivere la seconda parte i personaggi si sono praticamente incrociati da soli tutti quanti :D
Mi sono divertita immensamente a vederli interagire in tempi diversi. 
Spero di aver divertito anche voi, fatemi sapere!
 
ellephedre


 
P.S. - Vorrei fare un riepilogo delle età di tutti, con date di nascita, in modo che sia tutto chiaro.
 
Usagi, 30 giugno 1978
Ami, 10 settembre 1978
Rei, 17 aprile 1978
Makoto, 5 dicembre 1977 (come le faccio dire in questa storia, a causa della morte di sua nonna ha perso un anno scolastico; comunque era giovane per l'anno che frequentava in precedenza)
Minako, 22 ottobre 1978
 
Haruka, 27 gennaio 1976 (è abbastanza precoce per essere una che frequenta già la terza media, ma questo spiega poi il suo poter andare all'estero - dove prende la patente di guida di cui si vanta nella terza serie dell'anime)
Michiru, 6 marzo 1976 (la ritengo una di quelle studentesse che in collegio è riuscita a saltare un anno; anche lei è molto più matura della sua età)
Hotaru, 6 gennaio 1983
 
Mamoru Chiba, 3 agosto 1975 (alle elementari è andato avanti di un anno, come gli facevo dire nella fanfic 'Dentro di noi')
Alexander Foster, 20 maggio 1976
Yuichiro Kumad, 23 dicembre 1973
Gen Masashi, 4 gennaio 1975
Shun Yamato, 8 febbraio 1976 (come Alexander, è in seconda media in questa fanfic; avrebbe potuto frequentare l'anno scolastico successivo, lo stesso di Haruka, ma ha perso un anno scolastico in Francia da bambino e quindi ha iniziato le scuole più tardi in Giappone; lo devo scrivere nero su bianco da qualche parte altrimenti me lo dimentico :D)
   
 
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