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Autore: Elos    21/01/2012    9 recensioni
La guerra è finita. Mentre il Mondo Magico cerca di rimettersi in piedi dopo cinque anni di battaglie e morti, i sopravvissuti sono lasciati a convivere con il peso di tutte le cose che sono andate irrimediabilmente perdute.
Da Londra ad Hogwarts, ha inizio un viaggio attraverso lo spazio e la memoria per rimettere insieme i pezzi di una storia d'amore mai iniziata.
Prima classificata all'[Auror Contest]Rabbits on the run indetto da patronustrip.
Genere: Drammatico, Guerra, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Harry Potter, Hermione Granger, Luna Lovegood, Ron Weasley, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Da VI libro alternativo
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- Questa storia fa parte della serie 'Undici giorni verso Hogwarts' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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1. lavender sky
24.06
07:08:22 A.M.


Era uscito dal San Mungo, aveva trovato ad aspettarlo davanti al portone una macchina nera del Ministero – perché malgrado tutto il Ministero esisteva ancora, era ancora in piedi, aveva ancora macchine nere e macchine verdi e macchine blu, autisti per guidarle e persone dalle quali mandarle – e la prima cosa che aveva detto era stata:
“No.”
Niente macchina nera. Poteva prendere la metropolitana, come tutti. Andare a piedi. La metropolitana funzionava ancora? La metropolitana, allora.
La McGranitt e Charlie, che aveva lasciato la Tana per venire ad accompagnarlo, avevano cercato di dissuaderlo. Gli avevano detto che era ancora debole, che i Guaritori non l'avrebbero dimesso se avessero saputo che aveva intenzione di strapazzarsi così. Quando avevano visto che quegli argomenti non funzionavano, avevano cambiato tono e gli avevano detto che era troppo pericoloso girare per Londra: il fatto che Voldemort fosse morto non significava che tutti i Mangiamorte fossero scomparsi. C'erano i Dissennatori a piede libero. Avevano trovato un Lethifold davanti alla porta del Ministero...
Ad Harry Potter non importava.
Il mattino era stato luminoso e terso. Il cielo non aveva l'azzurro cupo del cielo di Scozia, tutto tinte vivide e stralci di nuvole sfrangiate, ma l'azzurro più pallido e diafano del cielo londinese. Erano riusciti a trovare posto nella metropolitana: Harry si era lasciato cadere su un sedile, pesantemente, grato di non dover restare in piedi. Le costole gli spedivano a tratti fitte nebulose di dolore. La gamba sembrava cigolare sotto il suo stesso peso.
Per una volta tutta l'attenzione della metropolitana – decine di occhi che, a coppie, si erano puntati su di loro – gli era giunta come attraverso una radio malamente regolata: erano lì, li vedeva, gli sguardi di tutti fissi sulle vesti bizzarre della McGranitt, sul viso pallido di lui e sulle mani segnate di Charlie, ma non gli importava.
Avevano cambiato metropolitana due volte prima d'arrivare a destinazione. I cancelli del cimitero di Kensal Green erano stati già aperti malgrado l'ora. Qualcuno aveva lasciato un mazzo di gigli bianchi accanto ad una delle colonne, senza nastro, senza carta, solo i fiori e uno spago per legarli assieme. Harry si era dovuto fermare e inghiottire a vuoto, a quella vista, e non era bastato: cinque minuti dopo si era trovato appoggiato ad un albero, curvo a svuotarsi lo stomaco su una delle radici, mentre Charlie gli teneva una mano sulla fronte e una sul collo.
“Non sono vestito di nero.” aveva detto Harry con voce impastata di vomito e nausea quando il mostro rigonfio nel suo intestino aveva smesso di contorcersi.
Gli occhi di Charlie erano stati pieni di pietà.
“Non importa.”
La McGranitt si era guardata intorno, per un attimo, controllando in lungo e in largo il sentiero deserto: poi aveva preso Harry per un braccio, l'aveva accompagnato dietro ad un albero e aveva cominciato a Trasfigurare i vestiti che aveva addosso.
“Sono della taglia sbagliata.” aveva commentato in tono di disapprovazione.
Harry aveva scrollato le spalle. Si sentiva la testa leggera e confusa, e pensava di non avere le energie che sarebbero state necessarie necessarie ad aprire bocca per parlare e per dirle che erano della taglia giusta. Giusta per Dudley, com'era stato cinque anni prima. Diverse taglie più in su di quanto non sarebbe stato ragionevole per Harry anche adesso... ma a chi importava? Qualcuno aveva lasciato dei fiori davanti al cancello e solo ai morti si lasciavano dei fiori, per cui a chi importava?
Era arrivato al funerale indossando vestiti più neri e più piccoli, così. Non che fosse veramente servito a qualcosa: si era fermato sotto all'ultima linea di alberi e non si era neanche avvicinato alla folla. Le preghiere della McGranitt e di Charlie non erano servite a niente: ad Harry era sembrato di avere piedi pesanti come piombo, gambe come macigni. Gli era bastato pensare di attraversare il prato e accostarsi alla bara, agli altri, e aveva ripreso a sudare freddo, lo stomaco gli si era contorto, il mostro che si annidava là sotto aveva ripreso ad agitarsi. No. Non c'era modo in cui nessuno – nessuno – avrebbe potuto convincerlo. I Mangiamorte avrebbero potuto presentarsi in massa nel cimitero in quel preciso momento, prendendo a lanciare Avada Kedavra a destra e a manca, ed Harry non si sarebbe mosso da dove si trovava ora. Qualunque posto più vicino di così era troppo vicino.
C'era stata metà del Ministero, lì, comunque. Tre quarti di Hogwarts. Tutti quelli che Harry conosceva... e ne aveva conosciuti tanti, negli ultimi cinque anni, perché la guerra aveva fatto questo, li aveva spinti tutti insieme, tutti vicini, i fidati e gli improbabili, Maghi e Babbani, vigliacchi e martiri ed eroi, tutti, e una di loro finiva sottoterra, oggi.
Si era chiesto se anche gli altri sarebbero stati sepolti lì – ma poi si era detto che dovevano essere stati i genitori di lei a decidere dove e come seppellirla. C'erano stati tanti cadaveri, nelle strade di Diagon Alley. Tanti cadaveri nel mezzo delle macerie, tutta una fioritura di opportunità sprecate. Maghi e Babbani. Vigliacchi e martiri ed eroi. Tutte possibilità mancate.
Non aveva sentito una sola parola del sermone pronunciato sulla tomba aperta. Aveva visto Remus curvo e grigio, gli Weasley stringersi l'uno accanto all'altro, fare muro compatto, fortezza. Le teste di Fred e George piegate l'una contro l'altra sopra quella di Ginny, Charlie che le accarezzava un braccio. Molly con le mani sulle spalle di Ron – e il mostro nella pancia di Harry aveva emesso un gemito di pianto, sottile e straziante come quello di un bambino. Non c'era nessuno con le mani sulle sue spalle.
Quando la cassa era stata calata, Harry aveva sentito l'impulso fortissimo e feroce di correre lì, fermarli, impedirglielo. La cassa doveva essere vuota. Le casse erano per i morti. I fiori erano per i morti. Com'era accaduto davanti ai gigli, la consapevolezza lo colpì come una mazzata allo stomaco e gli mozzò il fiato; avrebbe vomitato, anche, se avesse avuto ancora qualcosa da poter vomitare. La donna Babbana dai capelli arruffati che erano precisamente come quelli della figlia si era sporta per gettare la prima manciata di terra sulla cassa, piangendo sulla fossa aperta, ed Harry aveva avuto l'impressione che tutta quella terra fosse caduta su di lui, sulla sua testa, sulla sua bocca. Lo stava soffocando.
Il professor Vitious – che portava un orribile completo da Babbano di un improbabile color prugna, tirato fuori perché erano in un cimitero Babbano e la guerra aveva cambiato molte cose, sicuro, ma per poter tornare alla vita normale bisognava ricominciare a comportarsi come se tutto lo fosse, normale – aveva parlato di come fosse stata intelligente e coraggiosa, in vita, e leale e... e tutte cose bellissime, ma ad Harry che le ascoltava era sembrato che le parole si ingarbugliassero e perdessero di senso.
Ad avvicinarsi alla fossa, poi, era stata Luna: aveva ondeggiato per un attimo sul bordo della buca – Neville, che le era accanto, aveva allungato una mano per trattenerla – ma si era ripresa prima di cadere. Aveva guardato la cassa come se potesse vederci attraverso e alla fine aveva detto:
“Grazie per averci salvati.” E poi: “Vivremo sotto cieli color di lavanda.”
Ad Harry le parole del sermone erano arrivate confuse, quelle di Vitious annacquate: quelle di Luna erano sembrate tagliare attraverso il cimitero e arrivargli nitide e nette. Luna aveva alzato gli occhi e lo aveva guardato, aveva guardato lui, proprio lui, ed Harry si era ritratto ancor più dietro al tronco nel terrore che il resto della folla si accorgesse della sua presenza.

Avevano gettato terra sulla tomba aperta di Hermione Jane Granger fino a quando non era stata colma fino all'orlo: e non c'era stato bisogno di pagare qualcuno che usasse una vanga, perché tutti avevano voluto avvicinarsi e tirare fiori e terra, perché tutti l'avevano amata, Hermione, che era stata come un punteruolo di compassione lucida nel mezzo dei massacri e degli orrori, cinque anni di schifezze e lei era rimasta limpidissima e chiara.
Harry aveva aspettato che la folla cominciasse a smuoversi – e la McGranitt a cercarlo con gli occhi – prima di Smaterializzarsi lontano da lì.



La morte di Voldemort gli aveva lasciato dentro un calderone di potere che non era più tutto suo: era venuto via con la morte del mostro, e gli si era sedimentato dentro insieme all'ultima sillaba di quell'Avada Kedavra che aveva posto fine alla guerra. Hermione aveva già smesso di respirare da centoventitré secondi, in quel momento: Harry lo sapeva perché li aveva contati, tutti e centoventitré, ogni secondo una pulsazione, il sangue che veniva spinto contro i suoi timpani e lo assordava, che gli andava alla testa e gli impediva di pensare e... e avrebbe dovuto esserci una luce verde e Voldemort sarebbe dovuto cadere, e invece la luce era stata rossa, abbacinante, e Voldemort era esploso. Puff. Niente più Voldemort, dopo, neanche un cadavere da lasciare ai porci. Harry si era girato, la testa come svuotata, leggerissima e confusa, e aveva visto Ron, pochi passi più in là nel mezzo di Diagon Alley, infierire a pugni e calci su quel che restava del corpo di Peter Minus: aveva uno schizzo di sangue sulla faccia ed era tanto pallido che le lentiggini spiccavano come nei, macchioline minute d'inchiostro. Quella era stata l'ultima volta che aveva visto Ron così da vicino.
Tutto quel potere non serviva a riportare indietro Hermione – nulla poteva riportarla indietro, così come niente aveva potuto riportare indietro Sirius, Cedric, Silente, i suoi genitori... erano tutti semplicemente troppo lontani, anche per lui – ma rendeva la Smaterializzazione sulle lunghe distanze un problema da niente. Spostarsi da una parte all'altra di Londra era come muovere un passo: Harry si era ritrovato senza quasi accorgersi del passaggio nella catapecchia schifosa dalle parti di St Paul's Cray che aveva cercato di raggiungere. Piton gli era venuto incontro dall'altra stanza con la bacchetta levata, le labbra già piegate attorno alla S di Stupeficium: ma si era fermato, vedendolo, ed aveva abbassato la bacchetta.
Harry aveva serrato i pugni e l'aveva fissato rancoroso, preparandosi agli insulti, al sarcasmo, alle minute e feroci crudeltà alle quali non avrebbe risposto, si era detto, perché Piton era Piton ed era uno stronzo, ma Piton era Piton ed aveva perso tutto quello che rendeva la sua vita tollerabile per permettere all'Ordine di vincere la guerra. Non avrebbe probabilmente mai più preparato una pozione, Piton, perché le mani gli tremavano troppo per permetterglielo. Aveva passato giorni interi al San Mungo nel letto accanto a quello di Harry, mentre i Guaritori cercavano di salvare il salvabile e di rimettergli insieme il sistema nervoso e la spina dorsale in pezzi – l'ultimo, piccolo regalo di Bellatrix Lestrange.
Litigare avrebbe fatto bene ad Harry. Gli avrebbe permesso di sfogarsi. Litigare mentre era in quelle condizioni avrebbe probabilmente anche causato in lui piccole esplosioni molto concentrate di potere, e all'interno di un appartamento Babbano questa non era per niente una buona idea. Le case dei Babbani non erano pensate per cose del genere: poteva non uscirne fuori danneggiata solo la mobilia, ma anche le tubature del gas, quelle dell'acqua, l'impianto elettrico... Aveva visto cos'era successo a Diagon Alley. Non voleva che lo stesso capitasse lì.
Piton l'aveva fissato ed Harry aveva serrato i pugni: e poi Piton aveva fatto un giro su sé stesso e si era Smaterializzato senza una parola.
Harry era rimasto in piedi nella stanza, con i muscoli della schiena tanto tesi da fargli male. Aveva atteso per un po', rigido e scioccato, quasi aspettandosi che Piton ricomparisse per fargli scherzetto!, o qualcosa del genere. Ma Piton non era più tornato.

La catapecchia a St. Paul's Cray era stata usata dall'Ordine per nasconderci per brevi periodi di tempo Mezzosangue e Nati Babbani durante gli anni più schifosi della guerra, quelli nei quali era sembrato che avrebbero perso, che sarebbero tutti morti e che Voldemort avrebbe governato l'Inghilterra finché non fosse deceduto di morte naturale: e, se si consideravano anche gli Horcrux nell'equazione, questo avrebbe potuto significare un governo estremamente durevole.
La catapecchia di St.Paul's Cray era un posto infame nel mezzo di un isolato deprimente. La poltrona di cuoio che la Vector aveva Trasfigurato per sé era tornata ad essere, dopo la sua morte, uno sgabello privo di una gamba. C'erano chiazze di umidità sul soffitto che nessuno era mai riuscito a far sparire per più di pochi giorni alla volta. Ogni tanto qualcuno cercava di dare una ripulita, ma sembrava che quel posto attirasse polvere come un magnete. La mobilia era in condizioni alternativamente pessime e orrende.
Non c'era da stupirsi, si era detto Harry, che Piton avesse cercato di nascondersi lì per non essere costretto a partecipare a nessuna stupida cerimonia pubblica. Se l'era detto confusamente: prima che calasse il sole si era Smaterializzato in un discount dalle parti di Privet Drive – l'unico posto dove avesse mai fatto la spesa – per comprare qualcosa da mangiare; e, non sapeva bene come, aveva deciso già che era lì di prendere anche una bottiglia di whisky. Prima di allora non aveva mai bevuto niente che non fosse Burrobirra: il primo sorso d'alcool gli aveva dato subito alla testa, lasciandolo in uno stato in cui tutte le percezioni erano lente ed ovattate. Aveva compreso immediatamente la ragione per la quale la gente depressa decideva di ubriacarsi, perché lui sentiva di essere molto, molto depresso, e lo stordimento era la cosa migliore che gli fosse capitata negli ultimi giorni. Se avesse potuto, avrebbe scelto di continuare a sentirsi stordito per tutta la vita. La voragine che gli aveva mangiato il cuore e che sembrava intenzionata a divorare anche tutto il resto era parsa nel mezzo dell'ebbrezza più lontana, meno importante. L'immagine dei gigli legati alla colonna aveva perso di limpidezza, quella della tomba aperta si era fatta strana ed aliena. Era impossibile che ci fosse Hermione, là dentro. Doveva essere tutto uno scherzo.
Seduto sul pavimento della catapecchia, la schiena contro al muro e la giacca nera del funerale gettata un metro più in là, si era predisposto metodicamente a svuotare la bottiglia: e ogni sorso che mandava giù sembrava riportare qualcosa a galla, non necessariamente qualcosa di... di grosso, o di significativo, solo... qualcosa. Com'era sembrato strano vedere diritta la schiena di Hermione la sera del Ballo del Ceppo, il suo collo bianco ed elegante senza i segni arrossati della cinghia della borsa sulla pelle. Una tazza da tè sbeccata nell'ufficio del Preside, e Silente che si sporgeva verso di lui e che gli parlava di Tom Orvoloson Riddle, di com'era stato quand'era bambino – perché anche Voldemort era stato bambino, anche Voldemort aveva avuto undici anni, i brufoli e i denti da latte. Nascondersi in un buco schifoso nel terreno, Hermione che gli premeva la testa contro la spalla per soffocare il suono del suo respiro affannoso e pieno di terrore: c'erano i Mangiamorte, sopra le loro teste, ed erano in tanti, tanti, troppi. Piton. Piton nel mezzo della battaglia. Parlare con Piton, venire a sapere dell'ultimo degli Horcrux e comprendere che c'era una sola cosa che si poteva fare per distruggerlo, e quella cosa passava per...
Le mani bianche di Hermione sul terreno. Piton di nuovo, nella catapecchia in St. Paul's Cray, e adesso che aveva avuto il tempo di pensarci su Harry aveva avuto l'orribile impressione che l'espressione dell'uomo non fosse stata colma di scherno o di disprezzo, ma di pietà. Piton aveva avuto compassione di lui, e se questo non era aver toccato il fondo... “Grazie per averci salvati.” aveva detto Luna “Vivremo sotto cieli color di lavanda.”
In quella fase ebbra e nebulosa tra la veglia e il sonno gli era sembrato di vedere Hermione china su di lui: nessun altro tra i morti se non lei, nessun altro per il quale Harry si sentisse responsabile, solo Hermione. Non era responsabile per nessuno come lo era stato per Hermione. Nessuno era com'era stata Hermione. Nessuno poteva più essere Hermione, non ci sarebbe più stata nessuna Hermione a camminare su questa terra, respirando, con lui. Nessuna Hermione alla quale raccontare ogni desiderio, per capire ogni suo terrore, nessuna Hermione che condividesse tutti i ricordi che avessero una qualche importanza di quei suoi ultimi dodici anni di vita. Hermione e Ron non si sarebbero mai sposati. Non avrebbe mai tenuto tra le braccia i bimbi di Hermione.
Nella penombra della catapecchia aveva visto la sua testa arruffatissima china su di lui, la sciarpa rossa e oro che aveva smesso di portare secoli prima, la borsa a tracolla. Hermione non aveva più portato una borsa così dai tempi di Hogwarts – e anche il suo viso, nei sogni di Harry, era stato quello di Hogwarts. Un viso più giovane, senza cicatrici. Con un sorriso dai denti grandi.
Harry aveva cercato di toccarla, ma le sue dita erano passate in mezzo al niente. L'aveva chiamata, cercando di persuaderla ad avvicinarsi, di convincerla a permettergli di posarle una mano sulla guancia e di stringere per essere certo che fosse lì, che fosse con lui, che fosse vera. Ma poi si era ricordato, aveva ricordato. Aveva ricordato.
“Vivremo sotto cieli color di lavanda.” aveva detto Luna, ma Hermione era morta. Niente che vivesse, mai più.
Gli era sembrata la cosa più stupida del mondo.

Si svegliò un numero imprecisato di ore più tardi con la testa vuota, nauseato e spossato e come febbricitante. L'aria stantia della catapecchia sapeva di alcool: doveva aver rovesciato la bottiglia del whisky, quando aveva perso conoscenza, perché sul tappeto consunto adesso c'era una chiazza scura e appiccicosa, e la bottiglia era vuota.
Usò il bagno per vomitare e per lavarsi la faccia. Sembrava che un qualche piccolo animale fosse andato a morirgli sotto la lingua e lì fosse rimasto a decomporsi, perché il sapore che aveva in bocca era precisamente quello, marciume, schifo, rancido. In guerra aveva mangiato cose schifose e innominabili e la muffa sul pane era stato il minore dei suoi problemi dai Dursley, perciò sapeva precisamente di cosa stava parlando.
Avere la testa vuota era ancora meglio dello stordimento, perché in mezzo a tutto quel niente c'era spazio per lasciar passare i pensieri. In mezzo a tutto quel niente gli sembrava quasi di poter riuscire a mettere in piedi qualcosa di simile ad un piano. Pianificò con la testa appoggiata al bordo freddo della vasca, cercando di ricacciare indietro i conati di vomito e la nausea.
Quando si sentì finalmente in grado di tenersi dritto senza barcollare, nella sua testa era finalmente germogliata un'idea: non proprio un'idea vera, di quelle che avevano un come e un perché, ma nondimeno un'idea, un frammento di piano, di progetto razionale. Era la cosa più vicina ad uno scopo che Harry avesse sentito di avere dal momento in cui Voldemort era esploso a meno di dieci passi di distanza dal cadavere di Hermione.
E fu aggrappandosi a quell'idea che si Smaterializzò a Grimmauld Place.





Note della storia: Questa storia ha partecipato al concorso [Auror Contest] Rabbits on the Run indetto da patronustrip, classificandosi prima. Quando mi sarò ripresa dallo choc andrò a rileggermi i giudizi, ma per ora vi dico che potete trovarli qui, e che mi hanno fatta arrossire.
Perno del concorso era l'album Rabbits on the Run della cantautrice e pianista Vanessa Carlton. Il titolo dell'album ha giocato una parte non indifferente, per me, nello stabilire quale sarebbe stato il finale della storia... ma magari ne parliamo nell'ultimo capitolo, sì? x°D


Il banner meraviglioso preparato da patronustrip ispirandosi alla copertina dell'album non è finito in cima al capitolo - in cima a TUTTI i capitoli - solo perché avevo già in mente di mettere lì un'immagine di tutti i luoghi che Harry attraverserà. Dopotutto, io sono fermamente d'accordo con chi sostiene che il lettore è, prima di ogni altra cosa, un viaggiatore.


Aggiornerò questa pagina con i links alle altre storie che hanno partecipato al concorso mano a mano che queste saranno pubblicate. Nel frattempo, ne approfitto per fare i miei complimenti a tutte le loro autrici e per ringraziare ancora una volta la giudiciA.
Non è una bellissima giornata? di roxy_xyz
Carrousel di jaybree88
A Thousand Miles di Viki_chan

Note del capitolo: Ad ogni capitolo sono associate: una canzone dell'album, una fotografia, una forma. La canzone di questo capitolo è I Don't Want To Be a Bride. La fotografia è tratta da qui e ritrae il cimitero di Highgate, non quello di Kensal Green... per il quale non ho trovato una foto adatta. La forma di questo capitolo è l'analessi in itinere: la narrazione è ambientata, idealmente, prima che la vera storia inizi, e il tempo usato è il trapassato remoto. Sarebbe carino leggere la storia ascoltando la canzone corrispondente. Io ho scritto così.
Per finire, suppongo si possa capire tranquillamente leggendo la storia: ma i numeri sotto al titolo sono una data (Es.: 24.06) ed un orario (Es.: 07:08:22 A.M.), riportati secondo l'uso inglese.
  
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