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Autore: Mizar19    23/01/2012    5 recensioni
Il numero 72 di via De Meis a Torino è uno dei tanti opachi palazzi della zona; costruito negli anni '60, assomiglia molto ai tanto deplorati casermoni di città, con gli infissi marroni un po' scrostati, possenti pilastri a sorreggerne l'androne e uno sprazzo di verde nel cortile comune. La scala D è abitata da famiglie, anziani e, soprattutto, universitari. Saranno proprio gli universitari della scala D a raccontare tra le difficoltà quotidiane il loro rapporto con l'università, gli amici e il futuro.
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hysteria'
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Questo progetto abbastanza assurdo (non solo per la tempistica, ma anche per l'ambizione) nasce da uno spunto casuale datomi da Wrath. Così in questa raccolta troviamo a confronto diverse persone che altrimenti, per motivi di distanza, non potrebbero esserlo.
Cosa c'è di meglio che vivere in un quartiere universitario e intrattenere un'intensa vita sociale con i proprio condomini? Così, oltre alla sopracitata, sono diventati personaggi anche angel_87, Calypso, Maeve, Lely1441, The DogAndWolf, Kabubi, riotwithdance, Everett, Cissnei e il mio migliore amico.

Avvertenze: alcune informazioni circa queste persone non sono esatte, dunque non prestatevi interamente fede! Inoltre, ciò che viene detto dai personaggi non è necessariamente il mio pensiero e non è detto che lo condivida. Le restanti coincidenze con persone, luoghi, fatti esistenti sono puramente casuali.


[Chi riesce a riconoscere tutti gli altri?]

Buona lettura e buon divertimento!


*

VIA DE MEIS 72/D



Prologo

 
 Filippo era solito ripulire la sua postazione da nerd infaticabile il venerdì pomeriggio; si armava di panno in microfibra e olio di gomito. Le prime a soccombere erano le briciole di innumerevoli pangoccioli ingurgitati per placare la fame chimica durante le sessioni di Minecraft seguite da un esercito di acari e avanzi di cibo nei quali erano riconoscibili diversi stadi di decomposizione. Il venerdì pomeriggio l’angolo computer profumava di detergente al limone, almeno fino a lunedì. Stava per spolverare le mensole affaticate da voluminosi tomi fantasy e l’intera bibliografia di Calvino, quando una voce di donna ignota - lui aveva una memoria davvero prodigiosa per un certo genere di cose - attirò la sua attenzione. Proveniva senz’altro dal pianerottolo, i muri erano così sottili che poteva distinguere ogni parola. «E’ storto, ma non lo vedi? Guarda che lo stai di nuovo mettendo male...».
La tentazione era davvero troppo forte per resisterle. Si avvicinò in punta di piedi alla porta d’ingresso, per poi scostare con la punta dell’indice il disco di metallo che copriva lo spioncino. Esemplari di sesso femminile. Ben due!
Lasciò cadere il panno per la polvere, che svolazzò fino al pavimento mentre lui restava a guardarle come un voyeur professionista. Stavano facendo qualcosa davanti al campanello: una era chinata e poteva ammirarne solo il fondoschiena, l’altra la osservava con le braccia incrociate. «Niente panico, niente panico...», ripeté mentalmente un paio di volte, tanto per essere sicuro di recepire il concetto.
Un bravo vicino sarebbe andato da loro per un benvenuto nel condominio. Senz’altro l’avrebbe fatto. Annuì per farsi coraggio, si asciugò le palme della mani sul retro di jeans sbiaditi e consunti poi - tolta la catenella - abbassò la maniglia. «Buongiorno».
Le due ragazze si voltarono entrambe verso di lui, un po’ stupite per l’intrusione improvvisa. «Ehm... ciao», risposero in coro. Quella acquattata recuperò la posizione eretta, puntellandosi la parte bassa della schiena con entrambe le mani.
«Volevo... Ecco, vi ho sentite parlare e ho pensato di dover dare il benvenuto alle mie nuove dirimpettaie. Io sono Filippo», si presentò tendendo la mano destra.
La ragazza che prima era china sul campanello rispose alla stretta per prima. «Tallia».
«E io sono Irene».
«Siete studentesse?»
Le due si scambiarono un’occhiata, poi fu Irene a parlare con voce estremamente pacata nella quale Filippo distinse un accento toscaneggiante. «Sì, ci siamo trasferite ieri sera. Io vengo da Perugia, e questa qua è sarda. Tu sei dell’Unito[1]
«Unito?! Puah, non dirlo nemmeno per scherzo. Ho venduto l’anima Politecnico, ingegneria del cinema. Voi?»
«Io volevo andare ad Hogwarts, anche fuori corso, ma siccome i gufi mi odiano ho dovuto ripiegare su biotecnologie», fece spallucce Irene spalancando ancora di più i tondi occhi verdi.
«Lingue». Tallia era decisamente di poche parole.
«Anche tu vivi in affitto facendo il parassita alle spalle dei genitori?», domandò Irene ridacchiando.
Filippo sogghignò ripensando alle vicissitudini che avevano portato all’acquisto della casa. «In realtà no, è dei miei genitori da qualche anno, acquistata proprio in previsione del mio periodo universitario».
«Ah, beato te! La vecchia che ci ha affittato questo buco ci sta con il fiato sul collo: bagnate i bonsai, gli assorbenti non vanno buttati nella tazza che intasano, il marmo va trattato con prodotti appositi... manco venissimo dalla foresta pluviale».
«Ti consiglio di abbassare la voce: il condominio è pieno di vecchie acide», sussurrò Filippo, mettendole in guardia dalla ruvida curiosità delle over sessanta. «Sono perennemente appostate dietro la loro porta, l’orecchio teso a captare ogni parola proveniente dalle scale!»
Irene rise, mentre Tallia strabuzzò gli occhi scuri. «Sul serio?»
«Forse mi sono scordata di dirtelo: lei è il mio carabiniere». Irene e Filippo scoppiarono a ridere, mentre Tallia li fissava interdetta.
 
«Due fottutissimi giorni», sibilò Zoe, soffocando un gemito esasperato nel cuscino. Si raggomitolò sotto al lenzuolo, tentando di ignorare il lussurioso ensemble di vibrazioni provenienti dal piano superiore.
Si era definitivamente trasferita nell’appartamento della nonna paterna avantieri, in modo da potersi ambientare comodamente. Aveva innaffiato l’immenso ficus che occupava i tre quarti della sua stanza da letto, piegato con cura i vestiti nell’armadio antico, allineato in uno scaffale della libreria tutte le boccette di china (nonché gli inchiostri, i pennelli, gli acquerelli e l’immensa collezione di pastelli colorati) e collegato l’alimentatore del computer alla presa della cucina. Infine, aveva sperimentato per la seconda notte di fila quanto potesse essere intensa la vita sessuale altrui. Nella fattispecie, quella della ragazza al piano superiore.
Le era impossibile restare nel suo tiepido bozzolo di coperte, dunque le scalciò via con un grugnito. Infilò i piedi nudi in paio di vaporose pantofole verdi a forma di mostriciattoli e si diresse a passo strascicato verso la credenza in cucina. Affondò senza ritegno la mano nel pacchetto delle gocciole. Nemmeno il loro sapore poteva scacciare l’insistente rumore del piano di sopra. Mentre tornava nella sua stanza lanciò uno sguardo alla pendola nell’ingresso: segnava le dieci e mezza. Sospirando decise che non era necessario indossare abiti decenti e si trascinò nuovamente in cucina, dove si sedette davanti al computer. Era intenzionata a connettersi su Skype per sfogare la sua frustrazione sulla migliore amica, che probabilmente non sarebbe risultata in linea perché troppo impegnata ad avere una vita sociale, quando il campanello trillò.
Immediatamente Zoe nemmeno reagì: non poteva essere il suo campanello, chi mai avrebbe desiderato avere a che fare con lei? Invece quello suonò di nuovo.
«Arrivo!», esclamò con voce rauca ciabattando fino alla porta. La spalancò senza nemmeno controllare dallo spioncino chi la attendesse sul pianerottolo.
«Ciao, spero di non disturbare...».
Socchiuse gli occhi come per essere certa di non trovarsi di fronte un’allucinazione in jeans e maglietta. Invece era proprio una ragazza con un enorme sorriso e il buonumore disegnato sul volto. Esattamente il contrario della torbida sonnolenza in cui ancora versava Zoe.
«Io... no, mi sono appena svegliata, quindi...», accennò al pigiama liso che stava indossando mentre nella sua mente si schiaffeggiava senza ritegno.
«Hai del timo?»
«Non ho avuto tempo... Eh?!»
«Timo. Erba, sai?»
«Io... so cos’è il timo!», protestò Zoe.
«Allora ne hai un po’ da prestarmi?»
«Non so nemmeno perché dovrei averlo in casa. Se vuoi ho una crema balsamica al timo...». La ragazza scoppiò a ridere, facendo segno di no con l’indice.
«Sai, per cucinare... Ma non importa. Io sono Sara», si presentò.
«Zoe. Quindi tu abiti di fronte a me?», domandò curiosa allungando lo sguardo oltre la porta aperta dell’altro appartamento.
«Sì, ho concluso ieri pomeriggio lo spostamento. Sono qui per l’università...»
«Lo supponevo, ci sono molti studenti nel palazzo a quanto pare», confermò Zoe.
«Vuoi venire a prendere un caffè?», domandò Sara indicando il suo appartamento con il pollice.
Zoe stava per rispondere che avrebbe accettato volentieri, ma un gemito particolarmente squillante la fece rabbrividire.
«È... è sempre così?», domandò preoccupata Sara alzando lo sguardo: lei e il sesso non erano mai andati molto d’accordo.
«E’ la terza mattina che sono qua dentro e... sì, sempre: tra le nove e le undici, poi tra le due e le cinque e infine da mezzanotte a oltranza».
«Sarà mica una casa chiusa?», la nuova vicina appariva preoccupata, ma Zoe scoppiò a ridere.
«No, è una ragazza che si intrattiene con varie persone: una sola non potrebbe reggere il ritmo! L’ho incrociata ieri per le scale: è bassina, capelli ricci castani, bel fisico... Non diresti che produce tutta questa cacofonia!»
Sara tornò a posare gli occhi sulla ragazza che aveva di fronte, sistemandosi la frangia con l’indice. «Allora, quel caffè?»
«Magari mi cambio e ti raggiungo», propose Zoe vagamente imbarazzata.
«Mi sembra legittimo. Allora ti aspetto tra qualche minuto!». Fece un cenno con la mano e si richiuse la porta alle spalle.
 
Versò un’abbondante dose di semi di girasole nella vaschetta di plastica rossa per poi introdurla delicatamente nella gabbia dove ospitava Ezio e Alduin, due teneri criceti, uno grigio e uno ocra, che sospettava avere una relazione omosessuale. Le due piccole palle di pelo si avvicinarono fameliche alla loro colazione.  Richiuse lo sportello della loro gabbia per passare a quella successiva, doveva viveva in isolamento l’aggressivo John: era il suo naturale temperamento, eccessivamente dominante per una convivenza con qualsiasi altro animaletto. Antonia era solita vezzeggiarlo con l’appellativo di cricetino mannaro, mentre lui tentava di trasformare il suo dito nello spuntino pomeridiano. Nutrito anche l’esagitato roditore, aprì lo sportello della gabbia delle due frivole donzelle che rispondevano al nome di Zelda e Alyx, la prima candida come la neve e la seconda di un delicato color crema. Entrambe scesero dalle ruote per accogliere l’arrivo della padroncina con una carezza del naso umido. Infine si occupò di Gordon e Orihime, che inizialmente avevano mostrato un certo affetto l’uno nei confronti dell’altra e quindi aveva tentato di spingerli ad accoppiarsi facendoli convivere in una graziosa gabbia dal design essenziale: troppe distrazioni gli avrebbero impedito di copulare a dovere. Il suo tentativo fin’ora non aveva portato a nulla, ma lei non perdeva le speranze.
Terminato il rituale dei semi di girasole, si sistemò davanti al computer e fece ripartire Oblivion da dove l’aveva interrotto: stava andando a chiudere un cancello di Oblivion, mica bubbole.
La sua coinquilina se n’era andata a settembre, perché aveva trovato un appartamento più vicino a Palazzo Nuovo, malconcia sede delle facoltà umanistiche dell’università, e lei ancora non aveva trovato una degna sostituta. Per ora i criceti bastavano a colmare il suo bisogno d’affetto, loro e la Confraternita Oscura. Aveva appeso diversi annunci nella bacheca del Politecnico, annunciando che aveva bisogno di una ragazza con cui dividere le spese: camere separate, un bagno, cucina spaziosa e ampio balcone con veranda. Si era presentata per prima una ragazza giapponese che non parlava nemmeno mezza parola di italiano e pretendeva di pagare una percentuale minore sulle spese rispetto a quella concordata; dopo di lei aveva risposto all’annuncio una ragazza all’apparenza normale e a modo, l’affare stava per andare in porto quando aveva scoperto che la sedicente coinquilina modello era una cultrice del vampirismo (voleva portarle in casa diversi oggetti dall’aria decisamente inquietante nonché una specie di bara), nonché appassionata di sadomasochismo. Non che Antonia avesse pregiudizi, ma preferiva che le arti oscure restassero fuori da casa sua.
Lunedì avrebbe iniziato il secondo anno e si preparava a soffrire sui libri, anche se l’aveva già messo in conto quando si era iscritta a matematica per l’ingegneria. Non avrebbe mai dimenticato la stretta ai muscoli rettali che aveva provato sfogliando con vivace curiosità il piano di studi. Si era convinta che erano solo grossi nomi, dietro cui si nascondevano i soliti calcoli. Lei era brava di matematica, forse un genio, non aveva nulla da temere.
Mise nuovamente il gioco in pausa per andare a lavarsi i denti. Saltellò fino al bagno, dove afferrò lo spazzolino elettrico. Mm, non sarebbe stato così spiacevole farsi una doccia calda, pensò passandosi una mano tra i corti capelli biondi: aveva un’ora abbondante di dolce ozio che l’attendeva, almeno fino all’inizio delle lezioni. Ripensò alla geometria differenziale e rabbrividì. Un suono indistinto raggiunse le sue orecchie al di sopra del motorino dello spazzolino, che spense immediatamente tendendo l’orecchio. Il suono indistinto assunse i contorni di una voce femminile, poi iniziarono a distinguersi dei fonemi, finché Antonia si rese conto che qualcuno stava salendo le scale a passo di mammut recitando un rosario di bestemmie intervallate da altri intercalari piuttosto curiosi e intellettuali nella loro volgarità. Distinse con molta chiarezza un possente “lupanare il Primo Mobile”.
 
Quando Anne si era resa conto che il suo utero stava lasciando scivolare impietosamente un flusso sgradevole di sangue era sul pullman per casa. Si era alzata presto per poter andare in facoltà a farsi trasferire l’abbonamento del pullman sulla tessera universitaria, in modo da ottimizzare lo spazio nel suo portafoglio. Poi, seduta sul rigido seggiolino blu, aveva iniziato ad avvertire un fastidioso torpore in zona lombare, seguito da una fitta acuta al basso ventre. Era stato in quel momento che aveva realizzato ciò che stava accadendo. Agli occhi di un osservatore esterno, non era accaduto assolutamente nulla, ma dentro Anne si agitava un profondo impulso di morte, possibilmente altrui. Sentiva gli ormoni aggredirla ogni secondo che passava e pensava con stizza e ansia alla pozzanghera rossa che avrebbe trovato sotto al suo sedere quando fosse scesa alla sua fermata. Non osava muovere un muscolo, le labbra contratte e lo sguardo feroce. Quando il pullman raggiunse la sua fermata, fu costretta ad alzarsi. Gettò un rapido sguardo al sedile che aveva occupato fino a poco prima e constatò con sollievo essere lindo. Balzò giù dal mezzo di trasporto prima che l’autista le chiudesse le porte sul naso e si diresse a passo di marcia verso il proprio condominio. La sensazione di precipitazioni nelle sue mutande non era affatto migliorata, anzi peggiorava ad ogni passo che la avvicinava alla meta. Quando aveva spalancato il cancelletto del cortile aveva tirato un profondo sospiro di sollievo: ormai era arrivata, doveva solo aprire il portone della scala D, prendere l’ascensore e fiondarsi in bagno. «E cosa ci vuole?», pensò armeggiando con il mazzo di chiavi.
Arrivata di fronte all’ascensore, però, l’aveva trovato occupato: si era premurata di riservare un parola di comprensione e supporto per tutte quelle povere persone anziane che non potevano fare le scale. Attese per un’eternità, ma l’ascensore ancora risultava occupato. «Ci stanno trombando dentro?», soffiò a denti stretti, iniziando a imbufalirsi.
Attese ancora, e ancora, finché il display del cellulare la informò che era rimasta davanti all’ascensore per otto minuti. Non si trattenne oltre. Emise un ruggito rauco per farsi coraggio: cos’erano mai sette piani di scale? Posò con violenza il piede sinistro sul primo scalino e improvvisamente le sembrò di dover scalare l’Everest, circondata dal freddo e dal ghiaccio, assieme ad un fidato sherpa e al suo yak. Raggiunto il primo pianerottolo già aveva il fiatone e a pochi gradini dalla terza rampa di scale prese una storta: la prima bestemmia. Non era certamente una persona religiosa, a differenza della sua famiglia, quindi si sentiva pienamente autorizzata ad offendere coloro che, in base alle distorte credenze dei suoi genitori, avrebbero dovuto prendersi cura di lei. Continuò così, senza premurarsi di moderare il tono di voce o la pesantezza dei passi, aggrappata al corrimano con tutte le sue forze, il volto accaldato e la parte bassa della schiena che esplodeva di dolore. Arrivata al quarto piano si fermò ancora per riprendere fiato, accasciata contro la parete del pianerottolo. Udì distintamente due risate femminili sovrapporsi.
«Stronze baldracche», pensò acidamente invidiando la loro gaia condizione, mentre lei sudava e sanguinava come uno scarto umano, piegata in due dal dolore con il fiato mozzo. Riprese la scalata a denti stretti.
Al sesto piano temette un infarto. Si lasciò cadere supina sul pianerottolo, sperando che nessuno avesse la decenza di apparire in quel momento e la compatisse. Il marmo fresco la rinvigorì quel tanto che le bastava per rimettersi in piedi. Si rialzò con un sonoro sbuffo: il pensiero che al prossimo piano avrebbe guadagnato la base le faceva decisamente gola e la spronava a marciare come un toro incazzato.
Quando la porta del suo appartamento si materializzò finalmente davanti ai suoi occhi quasi scoppiò in lacrime per la soddisfazione, quasi dimentica della mancanza d’ossigeno, dei pantaloni lordi di sangue e del sudore che le aveva devastato la capigliatura e scolato il trucco attorno agli occhi. Sembrava uscita da un rave party.
Inserì la chiave nella serratura trattenendo a stento un gemito di soddisfazione, già pregustando una doccia e un antidolorifico, seguiti da un morbido letto e un caro libro. Spalancò la porta e svenne lunga tirata nell’ingresso.
 
«È il settimo piano, fidati».
«A me pare il quarto... Sei proprio certa di non ricordarti il cognome?»
«Non sarei qua a fare congetture, che ne pensi?»
«Mm», borbottò Nora chiudendo a chiave la porte del loro appartamento. Lucia reggeva tra le mani un vassoio su cui aveva allineato deliziose meringhe preparate quella mattina stessa; aveva la deliziosa abitudine di preparare un dolce per ogni nuova persona, o famiglia, che si trasferiva nel condominio. Lei e Nora vivevano all’ultimo piano da tre anni e avevano visto andare e venire molte persone, soprattutto studenti.
Le due ragazze scesero le scale, Nora per prima di modo da controllare che Lucia non inciampasse dietro al vassoio. L’ottavo piano era silenzioso e non vi era nulla di significativo da notare, tranne il fatto che per l’ennesima volta la porta dell’ascensore si era inceppata a metà chiusura, impendendone l’utilizzo. Nora ebbe la cortesia di richiudere la porta. Avrebbe dovuto farlo nuovamente notare ad Anita, una delle due occupanti del pianerottolo dell’ottavo piano, nonché cara amica di Lucia.
«Cosa...», domandò Nora preoccupata, notando la porta dell’appartamento di Anne aperta e un paio di calzature sbucare dallo stipite.
«Anne!», strillò Lucia e manco un soffio che l’intera produzione di meringhe rotolasse per le scale. Mentre Nora si fiondava dalla ragazza svenuta, Lucia premette il gomito contro il bottone del campanello. Dall’appartamento uscì trafelata una ragazza che si guardò attorno abbastanza preoccupata: aveva i capelli bagnati, le infradito di gomma e un asciugamano blu stretto attorno al corpo. Sbatté le palpebre un paio di volte, rabbrividendo.
«Perdona l’intrusione... volevamo chiedere una mano, ma...», Lucia accennò alle gocce d’acqua che andavano moltiplicandosi ai piedi della ragazza, che era evidentemente sgusciata fuori dalla doccia, attirata dall’urlo e dal suono insistente che richiedeva la sua presenza.
«Mi vesto rapidamente», disse semplicemente, sbattendo la porta. Lucia corse dentro casa di Anne, dove depositò il vassoio sulla prima superficie orizzontale che riuscì ad individuare. Nora stava schiaffeggiando la poveretta, che iniziava a gemere contraendo i muscoli facciali.
«Anne! Anne! Anne!», nome, ceffone, nome, ceffone...
«Ma... che... AHIA!», strillò quando ricevette l’ennesima sberla.
«Stai bene?!»
«Non gridare», sibilò portandosi le palme delle mani alla fronte.
«Sei svenuta...»
«Penso di averlo realizzato, dimmi qualcosa che non so», replicò acida e ricordò solo in quel momento del problema mestruazioni.
«Bagno, ho bisogno di un bagno». Terminò di dirlo che la ragazza che prima si era presentata gocciolando come un pulcino bagnato entrò nel loro campo visivo, i capelli bagnati raccolti, vestita con jeans e canottiera. «Trascinatemi in bagno, vi prego», insistette. Non conosceva quella ragazza, doveva essere la nuova: l’aveva sentita trafficare in casa tutto il giorno precedente ma non era riuscita a carpire alcun dettaglio su di lei, nemmeno che fosse effettivamente una lei.
«Ora ti metto seduta, dimmi se ce la fai», Nora la afferrò da dietro, sotto le spalle, spingendole il busto verso l’alto. Un’ondata di vertigine le fece rischiare un secondo svenimento.
«Tu chi sei?», domandò alla sconosciuta con la vista completamente appannata.
«Non svenire di nuovo!», strillò Nora mentre Lucia, rapida come una saetta, le rifilava un possente manrovescio.
«Sei proprio una terrona!», esclamò non appena ebbe riacquistato l’uso della vista. Si divincolò dalla presa di Nora per cercare di rimettersi in piedi autonomamente, impresa più ardua del previsto.
«Sono Alda», la ragazza pareva paralizzata e incapace di reagire.
«Chiudi la porta, per favore», le chiese con cortesia Lucia, mentre Nora sorreggeva una tremante Anne.
Alda rimase un po’ in disparte, incerta sul da farsi. «Tenetemi», esalò Anne prima di svenire nuovamente.
«Anne!», Nora provvide a schiaffeggiarla e lei si riprese prima di afflosciarsi al suolo come un sacco.
Quando il campanello suonò, Alda corse ad aprire la porta. «Io ho… Ehm, salve! Non è… il settimo piano?», domandò spaesata la ragazza sul pianerottolo sporgendosi all’indietro per controllare il nome sul campanello. Quaglia, recitava la targhetta: non aveva sbagliato, eppure non aveva mai visto quella ragazza.
Alda colse lo straniamento della nuova arrivata, dunque la graziò con una spiegazione sommaria su quanto fosse successo. «Non so nemmeno chi siano queste persone, mi sono trasferita ieri pomeriggio, però ho visto che erano in difficoltà…»
«Con Anne, non si è mai sicuri», ridacchiò l’altra, per poi informarsi se fosse possibile per lei entrare in casa.
«Suppongo di sì…», si fece da parte per lasciarla passare. «Comunque piacere, io sono Alda».
«Anita». Si strinsero la mano, poi Alda richiuse la porta d’ingresso.
«Ragazze, ciao!», Lucia e Nora strinsero in un abbraccio la perplessa ragazza. «Anne?»
«Sono qui, idiota!», sbraitò la diretta interessata che si era barricata in bagno dopo aver convinto Nora di essersi stabilizzata. Aveva solamente bisogno di una doccia, avrebbe ucciso per dell’acqua.
«Sei sempre così amorevole».
«Dovrò bruciare i pantaloni, è più che sufficiente».
«Ehi, io avevo delle meringhe! Tu, sei tu la nuova, vero?!», s’accertò Lucia puntando l’indice contro Alda.
La ragazza annuì. «A quanto ne so, mi sono trasferita ieri sera…»
«È Sara Pitton quella del quarto piano! Siamo andate ieri da lei», ricordò improvvisamente Nora, portandosi una mano alla fronte.
«Vuoi?», domandò mielosa Lucia sollevando il vassoio sopra il naso, i suoi occhi sbucavano sorridenti tra esso e la frangia nera.
«Solo… solo una», mormorò Alda imbarazzata, allungando una mano.
«Tra l’altro, Anita, l’ascensore era di nuovo bloccato al tuo pianerottolo», la informò Nora.
«L’ascensore era… cosa?!», strillò Anne dalla doccia.
«Quante volte abbiamo contattato l’amministratore?», la domanda di Lucia era palesemente retorica.
«Anita, sei stata tu a non chiudere la porta?!», l’ira di Anne attraversò con forza la porta del bagno.
«Ehm… non credo sia stato intenzionale, ero scesa a buttare la spazzatura…», si giustificò la laureanda in lettere antiche e futura disoccupata. Arretrò di qualche passo nell’ingresso, in direzione della porta.
«’Sta notte dormi con un occhio aperto, anzi, aprili entrambi!», ringhiò la ragazza.
«Io direi che è ora di andare a lavorare alla tesi, che ne pensate? Addio», in un secondo Anita era fuggita nel suo appartamento, dove probabilmente si sarebbe rintanata per tutta la settimana a seguire.



[1] Unito è la comune abbreviazione per l’Università degli studi di Torino, uno dei due atenei di Torino assieme al Politecnico, abbreviato invece in Polito. 


 
   
 
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