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Autore: Aya Lawliet ___backupFGI    24/01/2012    17 recensioni
«La mia mamma non ci crede, che vieni fuori dall’armadio.»
Sulley si era interrotto e l’aveva guardata, incuriosito suo malgrado.
«Non ci crede. Dice che i mostri stanno solo alla tele e che niente può venire fuori dalla tele. Dice che devo dirlo al dottore, la prossima volta che vieni fuori.»

{Sulley/teen!Boo ♥ post-film}
Genere: Angst | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Boo, James P. Sullivan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Mostriciattolo ~

prompt: #081, sake

 

 

 

Tutti i bambini crescono.

{ Peter Pan, James Matthew Barrie }

 

 

 

James P. Sullivan, al secolo miglior spaventatore della Monsters & Co., oggi dirigente della nuova gestione, si era detto mille volte che riaprire quella porta era stato un errore gigantesco e mostruoso.

Non era servito a niente.

 

La prima volta, Boo aveva sette anni ed era una bambina agile e deliziosa, i capelli neri che sfuggivano continuamente ai codini e le mani sempre pasticciate di pennarelli. Parlava un umano appena un po’ sgrammaticato e non si curava mai di farsi capire o meno, troppo concentrata ad arrampicarglisi addosso o a farsi rincorrere da lui fin negli angoli più impensati o ad arruffargli il pelo ridendo la sua risatina che non era mai cambiata. Lo chiamava ancora Gatto.

Una sera si era accoccolata sul letto tra le sue zampe, chiedendogli di leggerle una storia che da qualche tempo il papà non le raccontava più – Piterpàn, la chiamava lei – e per la durata di qualche pagina l’aveva ascoltato in un silenzio assorto, accarezzandogli le grosse dita artigliate. A un tratto si era abbandonata contro il suo ventre e gli aveva sorriso di sotto in su, mostrandogli i vuoti di due dentini caduti.

«La mia mamma non ci crede, che vieni fuori dall’armadio.»

Sulley si era interrotto e l’aveva guardata, incuriosito suo malgrado.

«Non ci crede. Dice che i mostri stanno solo alla tele e che niente può venire fuori dalla tele. Dice che devo dirlo al dottore, la prossima volta che vieni fuori.»

Sulley aveva abbassato il libro, ma non aveva saputo cosa dire. Boo aveva guardato di nuovo la sua zampa destra e aveva sfiorato un artiglio con la punta di un ditino macchiato di colore.

«Non m’importa cosa dice lei. Non m’importa cosa dice il dottore. Sono contenta, quando vieni fuori dall’armadio.»

C’era stato un lungo, lunghissimo silenzio, e alla fine dall’armadio di Boo si era aperto uno spiraglio che era segno di un’ora volata via. Sulley aveva abbassato lo sguardo e si era accorto che Boo dormiva, il visetto affondato nella sua pelliccia. Aveva chiuso il libro, l’aveva sollevata con la stessa facilità con cui avrebbe sollevato Mike e l’aveva distesa sopra le lenzuola stropicciate. Gat-to, si leggeva sulle sue labbra silenziose e sorridenti.

Sulley era tornato oltre la porta e se l’era chiusa alle spalle con l’intenzione di non riaprirla mai più.

 

Non avrebbe saputo dire neppure a se stesso perché. Perché si fosse lasciato coinvolgere tanto, perché non avesse dato ascolto a Mike finché era in tempo, perché avesse lasciato entrare quella bimba nella sua anima come nel suo mondo. Non avrebbe saputo dire se un’anima ce l’avesse anche prima, o se fosse stato il suo ‘Boo!’ a fargliela trovare, in mezzo a tutto quel pelo e alle zanne e alle urla che raccoglieva giorno dopo giorno nelle bombole. Non avrebbe saputo dire, soprattutto, perché le volesse così bene. Era successo e basta. L’aveva mandato in pezzi, e basta.

 

La seconda volta, Boo aveva undici anni ed era una ragazzina vivace e curiosa; i pennarelli erano stati sostituiti dai colori a tempera, ma i codini erano sempre lì, agitati e un poco più lunghi. Si esprimeva perfettamente e la sua risata si era fatta più dolce, crescendo con lei, risuonando ancora nella cameretta ogni volta che giocavano a farsi il solletico o quando gli mostrava i suoi disegni, che diventavano sempre più nitidi e dettagliati. Lo chiamava sempre Gatto.

Una sera però l’aveva accolto col viso triste. In tutti quegli anni in cui non aveva trovato la forza di dirle addio, Sulley l’aveva vista allegra, a volte anche imbronciata, ma triste quasi mai. L’aveva raggiunta sul letto e aveva aspettato in silenzio che si sciogliesse, che sollevasse quello sguardo buio dalle braccia che stringevano le ginocchia, ma lei non si muoveva e non parlava. Anche questo non era mai successo.

«Stai bene, Boo?» le aveva domandato, gentile.

Lei si era scossa come per scacciare una mosca fastidiosa. «Non dovresti chiamarmi così, sai. Non è Boo, il mio nome.»

Sulley ci aveva pensato su per un attimo. «Tu continui a chiamarmi Gatto» le aveva fatto notare.

Lei era crollata; le spalle magre erano scivolate ancora più in basso nella maglietta in tinta fantasia, e un sospiro profondo l’aveva scossa tutta. Sulley aveva sollevato una zampa incerta e le aveva accarezzato dolcemente una guancia. Boo si era lasciata andare contro di lui, l’aveva abbracciato ed era scoppiata in lacrime; ma qui non erano a Mostropoli, qui l’energia non subiva i cambiamenti del suo umore. Qui solo il cuore di Sulley poteva spezzarsi al suono di quei singhiozzi.

«A scuola dicono che sono strana. E lo psicologo continua a dire che non esisti. Ma tu esisti. E adesso vogliono costringermi a smettere di parlare di te.»

Sulley aveva ricambiato la stretta solo per riflesso, perché quelle parole avevano annientato ogni sua volontà.

Quando si era aperto il solito spiraglio, si era detto che, no, stavolta quella porta non l’avrebbe riaperta mai più.

 

C’erano state tante altre piccole, quasi insignificanti occasioni: quella volta che una compagna di classe l’aveva presa in giro per i continui scarabocchi sul banco di un coso col muso verde e le corna – «Mostriciattolo, mostriciattolo! Sei un mostriciattolo!»; quella volta che un’insegnante, parlando ai suoi genitori, l’aveva definita come ‘dotata di un’immaginazione inconsueta e stravagante, che le impedisce talvolta di destreggiarsi tra realtà e fantasia’; quella volta che lo psicologo aveva insistito perché per un’intera settimana facesse a meno dei pastelli verde e viola – piccole grandi cose, che Sulley ricordava una per una, custodendole come quelle numerose ragioni per cui non avrebbe mai più dovuto aprire la porta. Ma era come se la luce di quella stanza fosse troppo forte, troppo invitante di fronte alle sue meschine certezze. Le ricordava una per una, eppure...

 

L’ultima volta, Boo aveva quindici anni. Era un’adolescente silenziosa, tranquilla, così diversa dalla bimba che un tempo gli si era aggrappata alla coda. La curiosità dei suoi occhi era velata da una nebbiolina di distacco da tutto e da tutti. Aveva capelli lunghi e sciolti e passava ore e ore a leggere, così che l’ampiezza del suo vocabolario a volte lo stupiva. Rideva poco, limitandosi perlopiù a sorridere a labbra chiuse. Grandi dipinti dai toni scuri e brillanti la circondavano da ogni muro, in quella camera che le stava sempre più stretta. Non lo chiamava più Gatto: semplicemente non lo chiamava più.

Quella notte, Sulley la trovò in piedi con le spalle rivolte all’armadio. La luce della luna filtrava dalle tende e illuminava il suo profilo, svelandogli una guancia bianca e luccicante di lacrime.

Si fermò a guardarla, con un’improvvisa e dolorosa consapevolezza che la voce bassa di Boo rese crudelmente tangibile.

«Questa è l’ultima volta che ci vediamo, James Sullivan

Forse, se avesse detto qualcosa di diverso, si sarebbe sorpreso del sentirsi chiamare così – e forse, se non avesse fatto tanto male, avrebbe sorriso.

La ragazza si voltò. Piangeva e sorrideva insieme. Non era più Boo, non poteva esserlo; il mondo degli uomini, così orrendo, così spietato, voleva trasformarla in qualcosa di diverso.

«Mi faranno cambiare stanza. Ormai sono cresciuta, ho bisogno di un letto più grande e... di un armadio più grande.» Strinse gli occhi, e le lacrime scorsero più forti sul suo sorriso di arrendevolezza. «Ti ricordi la Wendy di Peter Pan? I suoi genitori volevano che crescesse, così le tolsero la sua cameretta. Lei scappò via nell’Isola Che Non C’è, per restare bambina per sempre.»

Aveva aperto gli occhi, ma il buio si faceva più fitto – perché, perché era così buio là dentro? – e lui non poté vederli finché lei non si avvicinò abbastanza da mostrargli che non erano cambiati, che erano gli stessi.

Sulley avrebbe voluto piangere con lei, ma il dolore della comprensione andava persino al di là del pianto.

«Non ti chiederò di portarmi con te a Mostropoli» continuò la sua voce bassa, «so che non lo farai.»

No. Non l’avrebbe fatto. L’aveva sempre saputo, che l’unico modo per non farla soffrire, l’unica cosa da fare per il suo bene, era di chiudere la porta e non riaprirla mai più.

Solo, si odiò per essere arrivato fino a questo punto prima di accettarlo.

Boo si sollevò in punta di piedi. Lo abbracciò con una dolcezza nuova, respirando il suo pelo come per imprimerselo nella pelle e nella memoria, e prima ancora che lui la ricambiasse piano voltò il viso per posargli un bacio sul muso improvvisamente indurito dagli anni passati a rimandare l’ultimo abbraccio.

Gli sussurrò il suo nome.

 

Sulley si era detto mille volte che riaprire quella porta era stato un errore gigantesco e mostruoso.

Pianse sulle schegge e sui trucioli e desiderò che il mondo, dei mostri o degli uomini, fosse un posto diverso.

   
 
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