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Autore: Melian_Belt    29/01/2012    3 recensioni
Nella Roma del 410 d.C., uno schiavo viene acquistato da una potente famiglia romana e si trova a vivere in un mondo diverso da quello al quale era abituato. Ma l'elemento più disturbante si rivelerà il nuovo padrone, destinato a dare una svolta inaspettata a quello che credeva il suo destino già segnato.
Slash, tanto per cambiare U_U
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Roma, 410 d.C.


Dicono che un tempo le condizioni degli schiavi fossero peggiori, che ora la società sia più clemente. Ora se un padrone è troppo  crudele è costretto a venderti, o a pagare se ti uccide. Ora se tua madre è stata libera per un periodo tra il concepimento e la nascita, nasci libero anche se sei un bastardo senza famiglia alle spalle. Lo chiamano favore di libertà. Se tutto questo è vero, perché un padre può vendere il proprio figlio?
Io nemmeno me lo ricordo così bene mio padre. Ma sono sicuro di aver avuto dei fratelli e di venire da qualche parte su nel nord, dove faceva freddo e dove ho rimediato gli occhi blu, unico dono fattomi da qualunque luogo io provenga. A quanto ho sentito dire dal mio primo padrone, fui venduto per qualche moneta, l’ultimo nato di una serie di figli impossibile da sfamare. Dei motivi che mi hanno portato ad essere schiavo, del perché proprio non avessero potuto tenermi, ormai non ci penso più tanto come quando ero bambino. Mi sono stancato.
Ripenso a quei pochi avvenimenti che hanno segnato la mia vita, mentre mi lascio condurre per le strade caotiche, affollate di così tanta gente che mi chiedo se oggi non si sia radunato il mondo qui. Il mio primo padrone era un vecchio padre di famiglia con due figlie femmine e nessun maschio, vedovo di una moglie che in eredità gli aveva lasciato enormi terreni. Gli servivano molte braccia per coltivare e per quello i miei genitori lo convinsero a comprarmi, nonostante fossi troppo piccolo anche per alzare una pala. Seminavo, passando le ore chino sul terreno, o scacciavo gli uccelli se non c’erano erbacce da sradicare. Era un bravo vecchio, che aveva passato gli ultimi anni della sua vita a parlare per ore con gli uomini di Chiesa della zona, a pregare.  Poi le figlie si erano sposate e i terreni erano finiti nelle loro doti, insieme agli schiavi che ci lavoravano. Uomini disinteressati allo sviluppo agricolo, più impegnati alla vita sociale che altro, i mariti avevano venduto molti di noi ai vicini, tanto per loro non eravamo utili così in tanti.
Fu allora che scoprii lati dell’umanità che avrei preferito rimanessero dall’altra parte della strada rispetto a me. Ormai ero un ragazzo, irrobustito dal lavoro nei campi, ma avevo mantenuto la pelle chiara. Lì, non è che ci fosse molto sole. A quanto pare, la pelle bianca e gli occhi chiari piacciono. Di sicuro piacevano al mio nuovo padrone, un relitto dell’antica nobiltà cresciuto su fondamenta ormai consunte di vecchie tradizioni morenti. Nessuno è mai riuscito a capire la mia indole orgogliosa da dove sia scaturita. Un uomo cresciuto schiavo dovrebbe essersi adattato alla sua condizione di cosa. Ma io ero una cosa schifata da certi utilizzi che se ne potevano fare. Ed ogni volta che penso a quelle mani impreziosite da anelli e profumate di oli sulla mia pelle, la rabbia torna viva come il fuoco quando si soffia sui carboni morenti.
 
Troppa gente. Nemmeno l’aria sembra abbastanza per tutti. E questi grandi palazzi di marmi colorati, le statue di bronzo, i teatri. Sembra di essere in un altro mondo rispetto alle campagne dove ho vissuto finora e mi chiedo come ci sia finito io qui. Non che abbia avuto scelta, tanto per cambiare. A disagio, cerco di evitare il contatto con le persone accalcate, mi preoccupano soprattutto i soldati di passaggio, con i loro sandali chiodati. Essere pestato da uno di quelli non deve essere piacevole. La piccola carovana di schiavi si ferma e sospiro. Il pensiero di trovarmi in un luogo così diverso, con padroni a me del tutto estranei, mi turba. Peggio degli ultimi due non potranno essere, no? Ma questo mondo così diverso mi toglie ogni sicurezza. Forse qui hanno costumi diversi e i loro modi di divertirsi peggiori di quelli da me già sperimentati. “Ti vedo sovrappensiero”. Mi giro, osservando cautamente lo schiavo alla mia destra. Uno degli uomini che ci controlla si gira a sentirlo parlare, ma per il resto non da segno di voler fare nulla. Lo schiavo sarà sui trent’anni, forse un po’ di più. Non è troppo alto ma in compenso ha un fisico taurino. Storco la bocca: “Può darsi”. Sembra stupito dal suono della mia voce. Non è il primo e non sarà nemmeno l’ultimo, non che mi importi. Sorride: “Accidenti, hai una voce bella profonda tu. Con quei lineamenti androgini non si direbbe”. So che il colore dei miei occhi dà un taglio gelido allo sguardo, che in molte situazioni mi riservo di utilizzare: “Prego?”.
“Siamo quasi arrivati, forza muovetevi!”. In due rapide falcate mi distanzio, cercando di allentare la presa delle catene intorno ai polsi. Non è che pesino troppo, ma dopo tutte queste ore di cammino sento che le spalle si stanno staccando dal polso.
Prendiamo una stradina leggermente in salita, passando per un lungo portico colonnato. Alle spalle di una grande basilica si apre la porta ad una domus immensa, costruita a ridosso di altre, sempre grandi seppure meno imponenti. Veniamo condotti in un piccolo cortile interno costellato di aiuole curate in modo quasi maniacale. C’è un pozzo e poco distante una fontana i cui zampilli brillano alla luce del sole. I muri sotto il portico sono tinteggiati di rosso acceso, con piccole figure geometriche. Una serie di lucernari in bronzo è allineata tra le colonne, a illuminare la strada di notte. Ma in che razza di casa sono finito?
Sento delle risate e due bambine escono dall’interno della casa, spingendo in avanti un cerchio di legno. Mi sfugge un sospiro: non so perché, la vista di bambini mi tranquillizza. Come se mi aspettassi di trovarmi in una casa di esseri semi-umani. Un uomo dai capelli marrone scuro e la barba corta esce, andandoci incontro: “Sono tutti i nuovi schiavi?”. L’uomo che ci conduceva annuisce: “Sì. Il nostro compito è finito, come da contratto. Ora se scappano sono affari vostri”.
“Aspettate. Il padrone li vuole vedere prima. Spero non ci siano vizi nella merce di cui non ci avete parlato”.
In quel momento, da una porta collegata al giardino, esce un uomo. Porta una tunica bianca con una fascia rossa che gli circonda una spalla. Non è troppo alto, o per essere più preciso non lo è rispetto a me. Sono sempre stato esageratamente…elevato. Altro dono delle mie origini del nord, qui al sud non c’è quasi nessuno che arrivi a superarmi la spalla. Quando si avvicina e posso fare un paragone, noto che rispetto alla media di qui deve essere considerato, se non un gigante, discretamente alto. Ma la prima delle sensazioni che mi dà nell’accostarsi, è di rilassamento, anche se non totale. Mi fido molto dei miei istinti, se c’è qualcosa che non va in una persona, nel senso che potrebbe rivelarsi un pericolo nei miei confronti, lo sento a pelle. E quest’uomo sugli ultimi anni della trentina, i capelli neri corti e gli occhi grandi, non mi incute alcun timore. Le iridi sono di un marrone simile al colore delle castagne, sarà che sono grandi ma brillano più di quanto faccia in genere una tonalità così comune da queste parti.
Il suo sguardo si poggia per un attimo su di me. Al solito, attiro l’attenzione. Ma è questione di un istante. Annuisce: “Bene. Potete andare”. Gli incaricati dai nostri precedenti padroni di portarci qui, se ne vanno. Vengo liberato dalle catene ma quasi non me ne accorgo. Nella testa continua a ronzarmi la voce roca del nuovo padrone della mia vita.   
  
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