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Autore: Melina     30/01/2012    11 recensioni
[Sherlock/John]
Sherlock non si muove, come se non osasse avvicinarsi, pensa John, ma di certo sbaglia, dopo tutto ha sempre sbagliato su Sherlock Holmes. Adesso gli pare stupido avere creduto anche solo per mezza giornata di averlo capito. Scrive un blog su una persona che non esiste.
Missing scene di "The hounds of Baskerville"
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Sherlock Holmes e John Watson - all rights reserved - BBC - Arthur Conan Doyle - Steven Moffat e Mark Gatiss

Coffee is not my cup of tea è una citazione di Samuel Goldwyn anche se lo invidio per averla scritta. Questa è una fanfiction senza scopo di lucro né pretese e fa riferimento a dialoghi/fatti avvenuti nella puntata 2x02 (The Hounds of Baskerville). Lo slash è esplicito ma non è spinto. Rating verde
Nessun avvertimento tranne l'antipatia di Sherlock Holmes XD
Melina

Coffee is not my cup of tea

BBC Sherlock/John


I

«È un vero peccato che Gary della reception non sia riuscito a trovarci una doppia» dice Sherlock, con le mani tasta la stoffa della tenda color crema e non stacca gli occhi dalla finestra.
«Non fa ridere» dice John, ma visto che Sherlock non guarda sorride «comunque cosa ci fai ancora qui? Io sono stanco. Forse ti sarà sfuggito, ma sono un essere umano, gli esseri umani non stanno svegli trenta ore consecutive» lo guarda ma lui non cambia posizione e John sbuffa, seduto sul letto.
«Una volta per un caso sono stato sveglio per più di tre giorni» dice poi Sherlock, questa volta si gira e con l'angolo della bocca accenna a un ghigno.
«Sì be', quello che dicevo. Gli esseri umani non stanno svegli così a lungo» John affoga uno sbadiglio dentro al maglione che si sta sfilando, quando rimane in camicia Sherlock è ancora lì.
«Ho parlato con Billy, la faccenda del cane è sistemata» dice, e guarda il bordeaux sbiadito della camicia di John con una smorfia di disgusto che non tenta nemmeno di nascondere.
«Quale parte di “ho un sonno infernale, ti prego Sherlock ti scongiuro, esci da questa stanza e lasciami dormire” non ti è chiara?» replica John, è più irritato dalla smorfia della bocca di Sherlock che dalla sua presenza e spera che lui non ne distingua la differenza.
«Ha detto che sostituiranno il vecchio mastino con un carlino» continua, adesso non gli guarda più la camicia, guarda i suoi capelli spettinati. O così sembra a John. Se li liscia con le dita. «Oh, non posso crederci» dice poi, con un sospiro.
«Sì infatti, gliel'ho detto anch'io» risponde rapido Sherlock, e John non sa davvero a quale sua affermazione stia rispondendo.
«Detto cosa?» chiede. Per John non è certo una novità fare finta di dare corda al bisogno di Sherlock di essere teatrale in tutto quello che fa.
«Che per il loro stile di vita non sono adatti i cani piccoli. C'è il fattore essenziale della campagna, i turisti londinesi che vengono qui vogliono...»
«Sherlock sono stanco, vuoi per favore andare ad infastidire qualcun altro?» John lo interrompe perché non sa cos'altro fare per zittirlo. Non ci riesce mai, ma vale comunque la pena tentare.
«L'ho mai fatto, John?» dice Sherlock a sorpresa. Una sorpresa che richiede sarcasmo.
«Forse Lestrade è ancora qui sotto al bar» dice John «dopo tutto non ha perso dieci anni di vita in un fottuto laboratorio, con un pazzo che gli amplificava i suoni della foresta da una sala di controllo, lui» Sherlock si è seduto sul davanzale e adesso lo guarda con interesse, quell'interesse che fa spesso sentire John come una cavia da esperimento, quello che oggi ovviamente è stato per davvero, ricorda con una fitta di rabbia «Ma non ho dubbi che tu sia ancora in tempo per provare anche su di lui qualche composto narcotizzante» termina sprezzante.
Sherlock alza il mento e lo guarda come fa sempre, dall'alto in basso. Anche se stavolta è seduto e il suo metro e ottantacinque è considerevolmente ridimensionato, ma lo sguardo funziona lo stesso «Sei offeso perché ho detto che la tua non è una mente superiore. Andiamo, sai cosa intendevo!» esclama con una punta di impazienza, quella che usa con John quando gli deve spiegare qualcosa di così ovvio che è quasi ridicolo dire ad alta voce.
«Ma cosa diavolo c'entra adesso la mia mente? Sherlock, quello che voglio è solo dormire. Riposare. Chiaro?» Non sembra chiaro a giudicare dagli occhi dell'amico.
«Chiarissimo. Bene, la prossima volta non verrò a salvarti» dice lui. Di certo lo fa apposta per irritarlo, e ci riesce ovviamente.
«Che cos'è questo un gioco, Sherlock?» sbotta John. Perché non ha voglia di trattenersi e perché è quello che lui si merita.
«E questo è un litigio, John?» dice lui calmo. È calmissimo.
John espira forte. «No fammi capire, tu hai architettato tutto, sei stato tu. Sì. E adesso mi vieni a dire che la prossima volta non mi verrai a salvare? E da cosa? Perché ti piace così tanto spaventarmi?!»
«Mi sono scusato con te». È sempre calmissimo e sembra lo sia davvero, ma se anche fingesse John adesso non saprebbe accorgersene.
«Tu non ti scusi, Sherlock. Quello che fai è una cosa diversa» scandisce piano, proprio come quando è molto arrabbiato «tu provi le tue teorie» una pausa «su di me».
«Hai accettato di lavorare con me» dice lui, quasi con noncuranza, quasi come se la gentilezza che usa sempre con John fosse un favore personale.
«Perché prima d'ora non mi avevi mai spaventato a morte» risponde John, gli pare ovvio. Evidentemente non lo è «e non avevi mai provato a drogarmi con dello zucchero» sempre più ovvio.
«Non ti avevo neanche mai preparato il caffè» insinua Sherlock.
«Ora non farlo sembrare un favore, tu volevi avvelenarmi, e non ci sei neanche riuscito» quasi grida, o così gli sembra.
«Ok lo zucchero forse potevo evitarlo» è la reazione di Sherlock, sempre calma «ma avevo ragione».
«Ragione» dice irritato.
«Ragione, sì. Tu hai bevuto il caffè perché sono stato io a preparartelo» Sherlock muove due passi lunghi dei suoi verso il letto dove John è ancora seduto, in maniche di camicia e senza l'aspetto di uno che stia per andare a dormire.
«Pensavo avesse a che fare con il caso, dopotutto tu non hai amici con cui doverti scusare» dice lui, non gli importa se Sherlock si offenderà, ma comunque non ha nessun diritto di offendersi dal momento che è John ad avere ragione. È ridicolo che Sherlock dica di avere ragione, ma è quello che fa sempre e John non riesce a non esserne segretamente rassicurato.
«Mi sono scusato anche per quello» dice Sherlock. Non sembra che gli sia costato, ma è un ottimo attore.
«Le scuse non c'entrano, non hai capito niente» ed è quello che John pensa davvero. Non ha senso mentire, lui non è Sherlock Holmes.
«Invece ho capito tutto» fa lui. E il fatto che potrebbe essere sincero fa bruciare le orecchie di John. Adesso vorrebbe persino che avesse ragione sul serio e che gli spiegasse cosa in nome di Dio sta succedendo tra di loro.
«Non puoi averlo fatto» afferma.
Sherlock non si muove, come se non osasse avvicinarsi, pensa John, ma di certo sbaglia, dopo tutto ha sempre sbagliato su Sherlock Holmes. Adesso gli pare stupido avere creduto anche solo per mezza giornata di averlo capito. Scrive un blog su una persona che non esiste.
«Ha a che fare coi sentimenti, ha a che fare con te» dice lui da troppo lontano. Bravo, giusto. Dove hai imparato a recitare così bene? John sotterra da qualche parte dentro di sé questa domanda, non lo ferirebbe abbastanza. Neanche la sua delusione della sera davanti al camino l'ha ferito, oppure non l'ha fatto così in profondità. Sherlock è indistruttibile, è un giocatore esperto. John non lo è mai stato perché non ha mai imparato a mentire come si deve.
«Hai giocato un po' troppo» dice piano «questa volta hai tirato un po' troppo la corda. Hai rischiato, Sherlock» e poi tace perché gli si chiude la gola e distoglie lo sguardo perché ha di nuovo paura. Aspetta che Sherlock parli di nuovo.
«Cosa vuoi dire?» replica lui asciutto. La sua non sembra neanche una domanda.
«Lo sai benissimo» lo sa benissimo. Sherlock lo sa perché è dannatamente colpa sua se John ha dovuto telefonargli per niente e fare quella voce fragile, spaventata e inerme. È colpa di Sherlock Holmes se John ha bisogno di telefonargli quando è spaventato a morte, è colpa sua se il solo suono della sua voce può calmare la paura di John.
«E ho perso?» dice dopo una pausa che sembra durare un'ora. Ha qualcosa di strano la sua domanda, questa volta sembra una domanda. E sembra quasi che la risposta a questa vera domanda gli importi seriamente, ma non può essere.
John però risponde ugualmente. Che cosa vorrebbe sentirsi dire adesso? Ah sì, certo. «Tu non perdi. Sherlock Holmes non perde mai. A perdere sono sempre gli altri» biascica quasi contro voglia. Non se lo aspettava ma Sherlock rimane zitto. E fermo.
«È tardi, voglio veramente dormire»
«Certo» dice Sherlock immediatamente «scusa» aggiunge subito dopo, poi si muove verso la porta con una rapidità che non lascia a John il tempo di decidere se voglia Sherlock dentro o fuori dalla sua stanza. Crede fuori. Decisamente fuori.
«Buonanotte, Sherlock» lo chiama, e accenna un piccolo sorriso perché lui si è scusato senza battere ciglio e perché forse per una volta è riuscito a ferirlo. Ma è un sorriso triste. Quando Sherlock non risponde John non è sorpreso.
L'sms arriva quasi dieci minuti dopo che lui se n'è andato. John lo legge con la bocca che sa ancora di dentifricio e con i piedi nudi sul brutto tappetino che c'è davanti al suo letto.

Quello era il mio primo caffè
SH




II

«Buonanotte, Sherlock» gli dice.
John Watson lo guarda con quel suo sorriso amaro, quello che gli rimane sulle labbra tanto quanto basta per riuscire a mandare all'aria la sua calma interiore. Poi non aggiunge niente e Sherlock spera con tutte le sue forze che stia per uscire dalla stanza. Quando gli ritorna in mente che è lui a trovarsi nella camera di John non gli è rimasto nemmeno un briciolo di autostima per riuscire a smettere di fingere, non gli dice niente, non risponde nemmeno alla buonanotte. Sa che da lui non se lo aspetta. Quello che si aspettava l'ha già avuto.
Sherlock esce chiudendo la porta alle sue spalle.
La sua camera è calda, il letto è invitante. Si toglie il cappotto, lo appoggia sul bracciolo di una delle sedie imbottite che arredano la stanza. Il cartello fuori dalla locanda non mentiva, sono davvero stanze di lusso per essere quelle di un Bed & Breakfast di campagna. Non smette di pensare a John. Non smette di pensare a lui nemmeno quando un lontano latrato rompe il silenzio dell'ambiente.
Sherlock prende il suo Blackberry dalla tasca interna della giacca e invia un messaggio a John, gli viene in mente dopo che probabilmente non lo leggerà prima della mattina. Non gli importa poi tanto, è soltanto uno sfogo, è qualcosa che forse gli servirà a prendere sonno, oppure niente di tutto ciò. Forse non servirà a niente. Né a lui né a John.
Quando bussano alla sua porta Sherlock è già in piedi, non si è nemmeno tolto le scarpe. È John.
Non è ancora del tutto dentro la stanza e già parla. «Perché mi hai chiesto scusa prima?» la sua voce è rauca, come se non avessero smesso di discutere solo pochi minuti fa. Sherlock non sa cosa rispondere ma lo fa.
«Perché era quello che volevi» dice. Quando finisce di pronunciare la frase si accorge che il motivo era davvero questo.
«Non era quello che volevo, se ogni tanto facessi caso a quello che dico o a quello che faccio te ne saresti accorto» John lo incalza, si avvicina e lo guarda con i capelli ancora un po' spettinati e le piccole rughe di stanchezza che gli contornano gli occhi tutte le volte che Sherlock lo coinvolge in un suo caso. Le rughe che sono tutta colpa di Sherlock.
«Faccio caso a quello che fai tu come faccio caso a quello che fa chiunque altro io stia guardando» gli risponde freddo, non intendeva esserlo ma la frase gli esce da sola ed è di un'antipatia lancinante che quasi lo fa star male.
«Non dire stronzate, Sherlock» ringhia John «se fosse vero non mi ignoreresti» lo guarda dritto in faccia, non ha paura adesso. Sherlock non è sicuro ne abbia mai davvero avuta, ora gli sembra impossibile.
«Io non ti ignoro, sei l'ultima persona che dovrei ignorare» ed è vero, sacrosanto.
«Be' allora hai un modo veramente strano di ascoltarmi» dice John, non sembra più arrabbiato.
«Hai il fiatone» inizia Sherlock «le nostre camere sono a due porte di distanza e non hai dovuto fare scale per venire da me. Hai i piedi nudi perché in corridoio c'è la moquette e non ti sei reso conto di averli nudi perché non hai sentito differenza di temperatura tra il pavimento riscaldato della tua stanza e quello del corridoio, il tuo alito sa di menta quindi stavi per andare a dormire ma io ti ho scritto un sms che ti ha fatto venire qui a dirmi che non volevi io mi scusassi con te e che non era quello dovevo fare. Come vedi faccio caso a quello che dici e faccio caso a quello che fai» parla senza fermarsi, gli manca il respiro «ciò considerato sono al punto di partenza» inspira forte e un po' serve a calmarlo «sei l'ultima persona che dovrei ignorare».
«Ma?» dice John dopo una pausa, lo dice con la voce che usa quando vuole che Sherlock creda che la risposta che darà non lo stupirà affatto.
«Adesso non mi ascolti tu. Applica i miei metodi» dice Sherlock con un'ironia per niente divertente. Poi aspetta qualche secondo e John gli risponde.
«Tu vuoi ignorarmi» afferma con un ghigno crudele che a Sherlock ricorda terribilmente quello di suo fratello Mycroft «Perché?» aggiunge.
«Non te. Voglio ignorare i tuoi pensieri» Sherlock non sa perché lo abbia rivelato, di solito quando arriva a una conclusione che riguarda John si guarda bene dal parlarne con lui. O dal parlarne in generale.
«I miei pensieri non possono farti del male, non sono io quello con la mente profonda e brillante»
Sherlock pensa che John non abbia mai detto qualcosa di più sbagliato di questo. I suoi pensieri possono fargli del male eccome, gliene hanno fatto sin dall'inizio. Lui è arrivato e ha sconvolto il suo equilibrio, meriterebbe una punizione.
Poi Sherlock avanza, fa due passi e chiude gli occhi una frazione di secondo prima di sporgersi e baciare John Watson sulla bocca, ma pensa che meriterebbe qualcosa di peggio di un bacio.
Tutto finisce subito, appena il tempo di sentire le labbra calde e screpolate di John sotto alle sue, per un secondo prima di staccarsi e riaprire gli occhi. Adesso sono vicini a quelli di John, lo scrutano con una confusione a cui Sherlock non è abituato. Poi vede un guizzo di impazienza, o di fastidio, o di tutte e due le cose assieme.
John emette un suono che questa volta può essere solo di impazienza, una specie di grugnito intermittente e bacia Sherlock di nuovo, con più forza di quella che aveva impiegato lui, con una sicurezza che Sherlock gli invidia. Pensa se fosse questo quello che John si aspettava da lui sin dall'inizio. Se avrebbe potuto dedurlo dai suoi comportamenti. Se ha sbagliato. Se ha torto.
«Ti prego falla finita» dice John in un mugugno quasi del tutto soffocato nella bocca di Sherlock, le sue mani lo tengono stretto e può avvertirle mentre sgualciscono la stoffa della sua camicia leggera, posate in basso sulla sua schiena. I loro corpi sono appiccicati, Sherlock non sa bene cosa fare e spera davvero lo sappia John. Si irrigidisce suo malgrado e lui se ne accorge. Rompe il bacio e torna a guardarlo.
«John siediti» gli dice col fiato corto, indica il letto e vede l'amico curvare le labbra in una smorfia che non sa interpretare, non capisce se sia divertita o disgustata e la cosa lo indispettisce ma non ha tempo di darle peso. John si siede senza fiatare, gli obbedisce come fa sempre.
«Questo è il momento in cui confessi le tue oscure macchinazioni?» gli chiede John serio «va bene fallo, ma siediti più vicino» aggiunge con un sorriso appena accennato. Sorride anche Sherlock.
Si mette accanto a John, dall'altro lato del letto.
«Una volta ho copiato una versione di latino» dice.
John ride e si porta una mano sugli occhi, Sherlock lo guarda mentre la fa scivolare piano piano fino a coprirsi la bocca e la sua risata diventa più gutturale, più seducente, la cosa più sensuale che Sherlock abbia mai ascoltato.
«Non ci credo» dice John girando la testa per guardarlo negli occhi.
«L'ho fatto eccome» dice Sherlock stringendo gli occhi e arricciando le labbra «ma solo una volta».
«Perché hai avuto paura ti scoprissero?» chiede John, le sue pupille scintillano nella luce tenue dell'abat-jour di tela bianca.
«No, perché era stato troppo facile».
«Oh non ne dubito» dice John e ride ancora «vai avanti con la tua confessione» incrocia le caviglie ai piedi del letto.
«Ho infranto la legge varie volte» continua Sherlock guardando il soffitto.
«Sì ti ho visto farlo» dice John «c'è altro?».
C'è molto altro.
Non ha mai baciato un uomo. Non è mai stato baciato da un uomo. Non ha mai avuto una relazione. Non è mai stato così spaventato. Non aveva mai trovato sensuale una risata.
«No. Niente» dice a John «tocca a te» Sherlock si gira sul fianco e punta i suoi occhi grigi pungenti in quelli dell'amico.
John però non dice nulla, si sposta sul letto fino a toccare il braccio di Sherlock posato sulla sua pancia. Trema un po' e Sherlock trema di più ed è ridicolo perché nessuno dei due ride e nessuno dei due parla. È ridicolo perché John è sempre più vicino e Sherlock apre la bocca quando lo bacia, e il bacio dura molto più a lungo. È ridicola la sensazione nello stomaco di Sherlock.
La lingua di John è ruvida e dura e all'inizio sa di menta, poi il sapore si mescola a quello della bocca di Sherlock e poi inizia a non essere più importante capire di che cosa sa la lingua di John perché le sue mani stanno risalendo i bottoni della sua camicia blu e la sensazione ridicola nello stomaco di Sherlock rende ridicole un sacco di altre parti del suo corpo. E fa così caldo che non sembra per niente un clima inglese, fa così caldo che la pelle di John contro il collo di Sherlock non scivola ma si tende e fa uno strano rumore e i capelli sulle tempie di John sono umidi di sudore e Sherlock crede di essere diventato sordo e cieco perché fa troppo caldo e perché tutto il corpo di John Watson è sopra al suo.
Ascolta il respiro di John quando si ferma, smette di muoversi e lascia cadere le braccia ai lati del busto di Sherlock con un sospiro che sembra una risata sommessa. Lui circonda la schiena di John e lo tiene stretto, il suo torace sussulta come quando gli ha messo la mano sulla spalla nel laboratorio dove non c'era nessun mastino fantasma. Come quando aveva paura.
Ma adesso sta ridendo, John Watson è davvero divertito dalla scena. È un pensiero che diverte anche Sherlock, anche se lui non riderà.
«Mi stai abbracciando?» dice John e i loro occhi sono così vicini che non c'è scampo. Sherlock inspira forte. Forse prende tempo, cosa perfettamente inutile.
«Stai ridendo?» dice alla fine, è serio e preoccupato e dannatamente incapace di gestire la sua voce o il suo corpo.
«Tu mi stai abbracciando e siamo uno sopra l'altro sul letto di una locanda di campagna» afferma John con un ghigno «Non dovrei ridere?» e diventa rosso. Sherlock chiude gli occhi per un secondo perché John lo guarda da troppo vicino, con le guance troppo calde e le labbra troppo piene.
«Tecnicamente tu sei sopra di me sul letto di una locanda di campagna» dice riaprendo gli occhi rapidamente «trovo la scena tragica più che comica» ragiona, e distoglie lo sguardo perché John fa quella cosa con le narici, quella cosa che fa quando è indignato ma è divertito e sta combattendo fra le due emozioni perché non può dare a Sherlock nessun tipo di soddisfazione. Non aveva mai pensato al fatto che questo potesse anche solo vagamente eccitarlo. Renderlo orgoglioso sì, Distrarlo, certo. Ma cinque minuti fa ha guardato John Watson ridere con una mano sulla bocca e l'ha trovato sensuale.
«Prenditi una vacanza, Sherlock, rilassati» dice John. Sherlock non capisce.
«Non capisco» dice. Non è del tutto vero. Capisce in parte, gli servirebbe un'altra risata di John come quella di prima per aiutarlo a elaborare. Chiederne una è fuori discussione.
«Non c'è niente da capire» John fa per scendere dall'inguine di Sherlock ma non lo fa perché lui lo ferma con un bacio. Un altro. È già il secondo che gli dà. Probabilmente starà male. Ha persino fame adesso. Sta decisamente male.
«Ok spiegati» dice John dopo un secondo.
«Cosa?» risponde Sherlock. John si sta passando la lingua sul labbro inferiore.
«Mi arrendo, spiegati!» sbotta poi.
Sherlock smette di guardare la lingua di John e si applica per alzare lo sguardo fino ai suoi occhi.
«Hai ragione tu» dice con semplicità «siamo uno sopra l'altro sul letto di una locanda di campagna, la scena è comica, fai bene a ridere, io volevo baciarti e l'ho fatto, poi ti ho abbracciato e non so se l'avessi dedotto, quasi certamente no, ma quando prima hai riso alla mia battuta sulla versione di latino non riuscivo a smettere di fissare la tua bocca» elenca cercando di controllare la sua voce e riuscendoci poco «per questo trovo la scena tragica. E non solo» prende fiato «mi è venuta anche fame» termina esalando un respiro esausto.
John ride e butta la testa all'indietro, Sherlock guarda il suo collo piegarsi a quella strana angolazione e si rende conto di stare fissando il corpo di John Watson da un tempo che non riesce bene a calcolare. Questo lo confonde. Vorrebbe disperatamente che John la smettesse.
«Quindi non era vero niente, tutta quella storia dell'esame di latino?» John non smette di sorridere, Sherlock non crede gli interessi davvero sapere se ha o non ha mai imbrogliato a scuola ma parlare con John gli piace e avere la sua attenzione gli piace anche di più.
«Sì che era vero» afferma.
«Ed è vero anche che hai fame? Adesso?» chiede John. E quando finisce di parlare sembra che la sua espressione aggiunga ancora Non ci credo e Tu non hai mai fame e Ma cosa glielo dico a fare.
«Certo, perché ti dovrei mentire?» Sherlock sogghigna perché lui non ride mai e fissa la bocca di John mentre si apre, forse per replicare.
«Bene» dice invece «ho fame anch'io».
Sherlock non ride perché lui non ride mai, e perché sta guardando di nuovo la risata di John.

   
 
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